Anna e Gioacchino: l’incarnazione di Dio che diventa Storia

Anna e Gioacchino: l'incarnazione di Dio che diventa Storia

Dio ha unito la sua storia con quella degli uomini

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano.
In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!».

(Dalla liturgia).

I nomi dei genitori di Maria non sono ricordati nei vangeli canonici, cioè in quelli che la Chiesa insegna essere stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ma sono riportati da un vangelo apocrifo.

Diversamente dai quattro vangeli canonici, i vangeli apocrifi sono opere scritte più tardi, più lontane quindi dagli avvenimenti della vita di Gesù, e spesso raccontano vicende storicamente non attendibili, e comunque di essi la Chiesa non ci garantisce la credibilità. La tradizione dei nomi dei genitori di Maria è comunque molto antica, risale ad un’opera di circa diciannove secoli fa.

In ogni modo, più che sulla certezza sul nome dei genitori della Vergine Maria e sui racconti legati ai loro nomi, possiamo chiederci perché la Chiesa ci fa celebrare la festa dei genitori di Maria, e quindi dei nonni di Gesù. Celebrare la festa dei nonni di Gesù significa inserire la storia di Gesù, l’incarnazione di Dio, nella storia concreta di una famiglia umana, di una genealogia.

L’incarnazione di Dio che si fa uomo passa attraverso la storia degli uomini.

L’incarnazione non è un qualcosa di astratto, ma si è realizzata sul serio, per mezzo di persone che, come noi, hanno un nome e un cognome. È una storia di uomini, ma è anche una storia di Dio.

Attraverso le normali vicende di un’ordinaria famiglia arriva il dono di Dio che supera ogni pensiero e ogni aspettativa. Maria è stata concepita dai suoi genitori come è stato concepito ogni essere umano, ma Dio, sin da quell’istante, in previsione dei futuri meriti di Cristo, la ha preservata da ogni macchia di peccato.

I genitori di Maria, si chiamassero Anna o Gioachino o meno, sono considerati santi tanto dalla Chiesa d’Occidente che da quella d’Oriente. Essi vissero santamente la loro normale esistenza, ma sicuramente non pensavano di concepire una figlia preservata dal peccato originale, e di diventare poi i nonni di Gesù, vero uomo e vero Dio!

Hanno vissuto nella santità quotidiana la loro esistenza, non cercando cose eccezionali, ma cercando di fare la volontà di Dio nelle vicende di ogni giorno.

Cosa ci insegna questa vicenda? Cerchiamo di vivere nelle nostre giornate in grazia di Dio, evitando il peccato e cercando di fare la sua volontà. Il resto lo fa Lui, e spesso sono cose tanto belle e tanto grandi che neppure riusciamo ad immaginarle, perché l’agire e il pensare di Dio è molto più grande di ciò che possiamo aspettarci ed immaginare.

Mitzvót: i 613 precetti

Mitzvót: i 613 precetti

Le regole del fare e non fare nell’ebraismo ortodosso.

Il Talmud spiega che la Torah contiene 613 precetti ai quali i fedeli devono attenersi per svolgere il proprio ruolo nel creato.

Sono i Mitzvot (מצוות), ovvero due serie di indicazioni obbligatorie che si suddividono in proibizioni e obblighi.

Il numero così ampio viene collegato dal valore numerico (Ghematriah) del termine «Torah» che è pari a 611, a cui vanno aggiunti i primi due comandamenti, nei quali Dio parla in prima persona, arrivando così al num ero totale di 613.

Ma anche questa somma viene fatta risalire a un significato di fondo: sarebbe la somma tra 365 (i giorni massimi che si raggiungono in un anno) e 248, che sarebbe il numero delle componenti del corpo umano.

Si tratta però di un numero e di una serie di regole che nasce dall’influsso di Mosè Maimonide, filosofo e talmudista vissuto a cavallo tra il XII e il XIII secolo, ma che è accettata dalla maggior parte delle scuole rabbiniche, pur non essendo vincolante. Alcuni rabbini propongono infatti liberamente altri numeri.

Tra i mitzvót ne troviamo molte che risultano interessanti ai fini di approfondimenti. Per esempio al n° 173 troviamo l’obbligo a eleggere un re d’Israele una volta radunate le dodici tribù.

La prima regola è «credi nell’esistenza del Signore», ma la lista prosegue con molte altre indicazioni vincolanti, come il rispetto per i forestieri, il non ricorrere alla vendetta, non serbare rancore. Seguono anche proibizioni relative alla consultazione di indovini e alla costruzione e adorazione di idoli: a questo proposito al n° 53 è previsto l’obbligo di distruggerli con i loro accessori, qualora se ne incontrassero Al bando sono anche medium, negromanti e magia in genere.

All’interno dei mitzvót troviamo anche obblighi e proibizioni che hanno a che fare con l’estetica: non tagliare i capelli ai lati della testa (per questo incontriamo ebrei ortodossi con lunghi riccioli che partono da sopra le orecchie), non radere gli angoli della barba con una lama, non tatuarsi, non vestirsi da donna (per gli uomini), non vestirsi da uomo (per le donne).

Ogni ebreo dovrebbe esporre un Mezuzah (מזוזה = stipite), che è un contenitore a cilindro che contiene le prime due parti dello Shemà in pergamena, sulla porta di casa.

Non manca l’obbligo di non lavorare e riposarsi il sabato, il primo e settimo giorno di Pesach (Pasqua) e praticamente in tutti i giorni in cui ricorrono le feste ebraiche (shavuot, kippur, ros haShana, ecc.). Nei sette giorni dello Sukot si dovrebbe obbligatoriamente vivere in una capanna.

Ci sono anche regole che sono comprensibili soltanto nel contesto antico e negli usi del tempo arcaico, come ad esempio quella di non ripudiare la donna che hai costretto a sposarti, o l’obbligo della vedova senza a risposarsi fino alla risoluzione dei rapporti col fratello del marito.

Tra il n° 139 e il 154 c’è l’elenco dei rapporti incestuali da evitare, seguono i divieti a rapporti sessuali con le bestie.

Il divieto di rapporti omosessuali si trova al punto 157, e il 158 specifica il divieto di rapporto omosessuale col proprio padre.

I divieti relativi al cibo sono specifici e si arriva a proibire di cibarsi della buccia dell’uva, dei suoi semi, dell’uva fresca e dell’uva passa.

Citiamo ancora obblighi e proibizioni relativi alle impurità, che sono veramente a 360° comprendendo anche il contatto con i cadaveri.

Gesù che dorme nella tempesta indica i tempi di Dio

Gesù che dorme nella tempesta indica i tempi di Dio

La nostra natura limita la comprensione del disegno divino

Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva.
Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia.

(Dalla liturgia).

L’azione di Gesù ci mostra la potenza della sua divinità. Dio ha creato gli elementi naturali, ed è in grado di dominarli a suo piacimento.

Ma la scena di Gesù che dorme sulla barca mentre il mare è in tempesta ci mostra anche uno spaccato della nostra esistenza: talvolta sembra che la barca della nostra vita stia per affondare, che le difficoltà ci sovrastino, che non sappiamo più davvero cosa fare.

E allora ci viene spontaneo pensare: «Ma il Signore che fine ha fatto? Perché mi ha abbandonato?».

In quei momenti pensiamo a questo episodio. Gesù, sulla barca della nostra vita c’è e anche se talvolta sembra dormire è perché i suoi tempi non sono i nostri, e i suoi progetti su di noi sono diversi dai nostri.

Non perdiamo la speranza nei momenti difficili, e continuiamo a invocare il suo aiuto con fiducia. Prima o poi, quando riterrà che sia il momento giusto, farà cessare le tempeste attorno alla barca della nostra vita.

Essere cristiani significa aderire a uno stile di vita e di pensiero

Essere cristiani significa aderire a uno stile di vita e di pensiero

Non chi dice “Signore, Signore”

Avete inteso che fu detto: «Amerai il tuo prossimo, e odierai il tuo nemico». Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli.
(Dalla liturgia)

Se essere cristiani non incide sul nostro modo di pensare e di agire, è perfettamente inutile essere cristiani.

Se la nostra fede non fa sì che noi pensiamo ed agiamo in modo diverso da chi cristiano non è, significa che non abbiamo fede.

La fede ci deve spingere ad agire, a fare quello che se non avessimo fede non faremmo. La fede senza le opere è morta, ci dice la Lettera di San Giacomo.

Quando un cristiano, e ancor più chi ha una qualche autorità nella Chiesa, sui grandi temi della vita (si pensi per esempio all’esercizio della sessualità, alla difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, alla difesa della vita dal concepimento alla morte naturale) pensa, parla e agisce abitualmente come chi cristiano non è, dovrebbe seriamente interrogarsi sulla consistenza della propria fede.

Dio è verità, bontà, misericordia e quindi giustizia perfetta

Dio è verità, bontà, misericordia e quindi giustizia perfetta

Non va dimenticato neppure uno di questi aspetti

«Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno».
(Dalla liturgia)

L’insegnamento de Signore tocca la sostanza del nostro vivere quotidiano, vuole che incida nella nostra vita di ogni giorno.

La legge del Signore deve essere amata prima ancora di essere rispettata, deve essere osservata con il cuore. Non la si può applicare come una legge fiscale, che viene obbedita perché si è obbligati a farlo, ma si cerca di farlo nel modo meno oneroso possibile. Questa sarebbe la giustizia degli scribi e dei farisei, che non ci fa entrare nel regno dei cieli.

Gesù ci insegna come la giustizia di Dio illumina l’uso della parola: è troppo poco evitare gli spergiuri e la falsa testimonianza in tribunale. Occorre invece coltivare una lealtà interiore, un’abitudine al parlare schietto, dove sì vuol dire sì e no vuole dire no.

Il Signore ci da una legge morale non per aggiungere un peso alla nostra vita, che talvolta è già pesante di suo, ma per liberarci dal peso del peccato e guidarci ad una vita più giusta, più gioiosa. È una dottrina liberante, ma è anche impegnativa e totalitaria. Il Signore proprio perché ci stima e ci ama è anche esigente con noi. Sta a noi scegliere da che parte stare. Dice il libro del Siracide: «davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17).

La nostra vita è una continua scelta tra il bene e il male, tra la giustizia e il peccato. La giustizia, nella Bibbia, è fare la volontà di Dio. Ciò che ci aspetta, la termine della nostra vita terrena, sarà conseguenza di ciò che avremo liberamente scelto in questa vita.

Le letture di oggi, in particolare il Vangelo, ci mettono davanti alla tremenda serietà di una vita terrena che altro non è che la breve preparazione alla vita vera, che può essere di infinita gioia, ma anche di infinita tragedia. È un richiamo alla misericordia, ma al contempo anche alla giustizia di Dio.

L’insistenza unilaterale che oggi spesso si fa sulla sola misericordia di Dio dimentica ciò che la Bibbia, e il magistero costante della Chiesa – il solo che interpreta la scrittura secondo verità – ci insegnano: cioè che Dio unisce all’infinita misericordia anche l’infinita giustizia. Dio è il Padre amoroso che ci aspetta a braccia aperte, al termine della nostra vita, ma nel contempo è il giusto giudice che peserà sulla sua infallibile bilancia il bene e il male delle nostre azioni. Nascondere uno di questi due aspetti di Dio non è cattolico, e soprattutto non è vero, in altre parole è falso.

Il paradiso ci attende, e il paradiso è un dono di Dio, ma non possiamo dimenticare che per poterlo avere non lo dobbiamo rifiutare, allontanandoci dalla via del bene che il Signore, con i suoi comandamenti ci indica.


La pace è dono di Dio

La pace è dono di Dio

Si ottiene gratuitamente, e gratuitamente va augurata

Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento.
(Dalla liturgia)

«Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi».

La pace, che è il primo dono del Signore risorto (ricordiamo il primo saluto del Risorto ai suoi discepoli, chiusi nel cenacolo: «pace a voi» Gv 20,19) non è un dono che siamo costretti ad accettare. Lo possiamo anche rifiutare. E lo rifiutiamo se viviamo una vita lontana dal Signore, lontana dalla sua grazia.

Il rischio di rifiutare la grazia del Signore è sempre presente nella nostra vita. Quando il Signore comanda di guarire gli infermi, resuscitare i morti e purificare i lebbrosi ha in mente anzitutto la guarigione dal peccato, che paralizza quanto di buono c’è in noi, uccide la grazia di Dio nella nostra anima.

Gesù ci purifica da quella lebbra – il peccato appunto – che sfigura la nostra anima creata ad immagine e somiglianza di Dio.

Non abbiamo timore a rivolgerci alla Chiesa, con la santa confessione, per chiedere perdono per i nostri peccati, e guarire così da questa malattia che ci fa perdere, anzitutto, quella pace interiore che è il primo dono che il Signore vuole farci.

L’amore che salva

L'amore che salva

Amare Dio, senza riserve, ci consente di amare profondamente il prossimo

Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».

(Dalla liturgia).

L’amore di Dio e l’amore del prossimo: Gesù ce li presenta strettamente legati. Non sono però la stessa cosa. Già il fatto che uno sia primo e uno secondo indica che una qualche differenza c’è.

L’amore per Dio è il fondamento, la base, il motivo di tutto. Dio deve essere amato per Sé stesso. Dio deve essere amato con tutto l’essere umano, senza riserve.

La parola «tutto» ricorre tre volte nella frase di Gesù. Dio, lo abbiamo detto altre volte, non vuole qualcosa, non vuole molto, vuole tutto. Non importa che sia tanto o che sia poco: Egli vuole tutto il nostro amore, la nostra dedizione, la nostra obbedienza. Come dice il libro del Deuteronomio, è un Dio geloso, non vuole dividerci con niente e con nessuno.

Dio solo deve essere amato per Se stesso, il prossimo deve essere amato perché si ama Dio, e non deve essere amato con tutto il mio essere.

L’amore del prossimo non deve travalicare quello per Dio. Ricordiamo le parole di Gesù: «chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37).

Ma l’amore per il prossimo non è qualcosa di facoltativo: è il mezzo per amare Dio, ed è la prova dell’amore di Dio. Ricordiamo le parole della prima lettera di San Giovanni: «chi non ama il prossimo che vede, non può amare Dio che non vede». (1Gv 4,20).

L’amore per Dio è il centro, la sorgente, il culmine, il senso della nostra vita. L’amore per il prossimo (anche quando il prossimo fa di tutto per non farsi amare) è il modo con cui noi possiamo rendere concreto l’amore per Dio.

Essere discepoli di Gesù significa soprattutto saper amare: saper amare Dio senza riserve, con tutto il nostro essere, e saper amare il prossimo, rendendolo partecipe del nostro amore per Dio.

Una laurea in Teologia non crea automaticamente un buon cristiano

Una laurea in Teologia non crea automaticamente un buon cristiano

Gesù parla alla mente, ma soprattutto al cuore dell’uomo

E, mentre egli camminava nel tempio, vennero da lui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?».
(Dalla liturgia).

Quando un cristiano mi parla di Dio e mi affascina, non gli rivolgo mai la domanda: “Dove hai conseguito la laurea in teologia?”. Ma gli chiedo: “Fai un cammino di fede?”. Per parlare di Dio con autorevolezza c’è solo bisogno di fare personalmente l’esperienza dell’amore e della salvezza che Egli ci ha donato in Gesù Cristo.

Dio non è una materia scolastica e la laurea in teologia non ti dà affatto l’autorevolezza di parlare di Dio.

Spesso mi accade di ascoltare cristiani che sono laureati in teologia che dicono cose su Dio ma non mi manifestano la santità e la bellezza di Dio sul loro volto e nella loro voce.

Riempire solo il cervello di nozioni teologiche e non riempire il cuore e la mente dello Spirito Santo non ti fa essere autorevole nell’evangelizzazione.

L’evangelizzatore autorevole è colui che ha una personale e vivente relazione con Dio. Quando l’evangelizzatore parla mosso dallo Spirito le sue parole non possono essere contraddette. Infatti i sacerdoti del tempio, messisi a disputare con Stefano, il diacono, non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava; perciò lo accusarono di aver pronunziato espressioni blasfeme contro Dio.

Si oppone ferocemente all’evangelizzatore ricolmo dello Spirito Santo l’uomo che odia la verità e lo fa con la calunnia.

L’uomo di fede adulta non ha paura della calunnia. Egli sa che il buio non può sconfiggere la luce, ma è la luce che sconfigge il buio.

La mia preghiera è che oggi, nella Chiesa, tra il clero ci sia più ambizione per diventare santi che per conseguire una laurea in teologia con lo scopo di fare carriera.

I manoscritti di Qumran

I manoscritti di Qumran

Di cosa si tratta e perché sono importanti

Nel 1947, secondo una ricostruzione, un giovane beduino, Muhàmmad ed-Dib (Maometto il Lupo), che appartenenva a una tribù Taamira che dalla Transgiordania si recava a Betlemme per motivi di commercio, inseguendo una capra, tirò un sasso in una delle molte caverne che si trovano in quei luoghi. La zona è quella della sorgente di Faschcha, nel Wadi Qumran.

Il sasso impatta in un oggetto di terracotta e il ragazzo sente il rumore della rottura, e incuriosito si addentra con un amico nella grotta che sarà successivamente classificata come 1Q: uno – Qumran.

Lo spettacolo che si presenta è d’altri tempi: appare una serie di giare cilindriche, con coperchio, e allineate in modo ordinato. Alcune sono infrante, altre rovesciate, ma tutte contenevano dei pacchi avvolti nel lino e ricoperti di pece o cera. Ogni pacco conteneva un rotolo manoscritto antichissimo.

Tra il 1947 e il 1955 furono ritrovati rotoli anche in molte grotte adiacenti, per un totale di circa 900 manoscritti che vengono fatti risalire al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

Si tratta di documenti che secondo gli esperti sono stati raccolti e alcuni anche scritti da una comunità essena che si sarebbe rifugiata a Qumran per protesta per l’elezione di un Sommo Sacerdote ebraico maccabeo (asmoneo) e quindi non saddocita. Questi documenti sono i testimoni originali più antichi dell’Antico Testamento: finora si faceva riferimento in questo senso al Codice di Leningrado che risalirebbe al X secolo d.C.

I testi possono essere così suddivisi:

  • Biblici (testi dei libri della Bibbia)
  • Halakici (da Halakà = Bibbia orale – interpretativi dell’Antico Testamento)
  • Escatologici (esempio: Rotolo della Guerra)
  • Pesharim (da Pesher = interpretazione attualizzata)
  • Inni poetici e preghiere
  • Letteratura enochica
  • Testi astronomici

I manoscritti biblici sono circa 200 e riguardano tutta l’Antico Testamento escluso il Libro di Ester.

Nello specifico abbiamo:

  • 39 manoscritti di Salmi
  • 31 del Deuteronomio
  • 22 di Isaia
  • 18 di Genesi e Esodo
  • 17 del Levitico

La maggior parte dei documenti sono in pergamena, solo pochi sono in papiro.

Oltre all’aspetto archeologico i documenti testimoniano la definizione dei testi biblici in epoca pre-cristiana, ma forniscono anche informazioni sugli studi e sul pensiero teologico dell’epoca.

Dalla lettura di alcuni testi settari (quindi scritti dagli appartenenti alla comunità essena, quali il rotolo 1QS, detto “Regole della Comunità”) affiora una visione dell’ingresso del male sulla terra che si lega a quella del Libro di Enoc e del Libro dei Giubilei, indicando chiaramente un dibattito in corso.

Dagli scritti emerge che la comunità di Qumran era predeterminista: si sarebbe salvato chi fosse entrato nella setta. Gli esseni di Qumran definivano se stessi “figli della luce” ed erano in lotta contro i “figli delle tenebre” o “della menzogna”.

Il demonio era prevalentemente indicato col nome di Belial.

Secondo Gabriele Bocaccini la comunità di Qumran era costituiota da un gruppo che si era staccato perché apocalittico.

Da notare che nel 31 a.C. vi fu un terremoto nella zona, che fu abbandonata per un breve periodo. Nel 68 d.C. la comunità cessò di esistere per la guerra che portò i Romani alla conquista di Gerusalemme nel 70 d.C.

I manoscritti di Qumran sono attualmente al centro di molti studi e costituiscono una miniera di informazioni.

Accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino

Accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino

L’immagine che Gesù evoca è quella della fiducia che nutre verso i genitori

Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
(Dalla liturgia).

«Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». Cosa hanno di così speciale i bambini? Non la generosità: sappiamo che i bambini non gradiscono condividere le loro cose con gli altri. Non la bontà: spesso i bambini sanno anche essere cattivi con chi è in difficoltà. Non la purezza: non c’è alcun merito ad essere puri quando non si ha ancora avuto lo sviluppo sessuale.

Quello che di particolare ha il bambino è che si fida dell’adulto. È questo che il Signore vuole da noi: che ci fidiamo di Lui. Non ciecamente, non stupidamente, ma ragionevolmente. Vuole che ci fidiamo di Dio con la fiducia che un bimbo ha verso suo papà.