Il seme e il terreno

Il seme e il terreno

Gesù è in grado di superare le nostre aspettative

“Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti” (Mt 13,9).

Questa parabola, ad ascoltarla bene, in effetti è angosciante: il seminatore butta il seme dappertutto, ma in tre casi su quattro il suo lavoro è del tutto inutile, il seme viene sprecato, e anche dove il seme da frutto, lo da in misura diversa: il trenta, il sessanta, il cento per uno.

Quindi dà frutto pieno solo in un numero molto limitato di casi. E questo non perché il seminatore sia avaro nel gettare il seme, oppure lo getti in modo diseguale, e non perché il seme sia in qualche modo difettoso. Il difetto appartiene al terreno, che siamo noi.

Il seme caduto sulla strada, sul terreno sassoso o in mezzo alla spine, per motivi diversi, non porta alcun frutto. Quello caduto sul terreno buono invece sì.

Quando si lascia agire la parola di Dio in noi senza ostacolarla o indebolirla il frutto è sorprendente.

Chi si intende un poco di agricoltura sa che un terreno può produrre frutti moltiplicando per cinque il seme gettato, nei casi più fortunati il dieci. Ma il trenta, il sessanta, addirittura il cento sono percentuali irrealistiche in natura.

Il Signore, se lo lasciamo agire, se non glielo impediamo con il nostro comportamento ingiusto, ci da molto di più di quello che immaginiamo. Non escludiamolo, o con un rifiuto esplicito o riducendo la vita di fede ad un’esperienza puramente emozionale o sociale, senza effetti nella vita concreta.

Lasciamolo fare e il Signore ci darà una ricompensa molto maggiore di quella che possiamo immaginare.

La Parola del Signore supera il “sabato”

La Parola del Signore supera il "sabato"

Il bene dell’uomo viene prima della regola

“Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
e io le conosco ed esse mi seguono. Alleluia”.

Quello che si rimproverava ai discepoli di Gesù non era il raccogliere delle spighe nel campo di un altro (cosa lecita), ma il farlo in giorno di sabato.

La regola del sabato era (ed è) rigorosissima per gli Ebrei osservanti: la si può violare solo in casi eccezionali, in casi di grave pericolo.

Gesù però ribalta questa regola: il bene dell’uomo viene prima della regola del sabato, e non solo per i casi eccezionali. La legge dell’amore vale più della legge di Mosè. E Gesù la insegna affermando la propria autorità: «il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

Non è più la legge di Mosè, interpretata dalle scuole dei rabbini ad insegnarci che cosa Dio vuole e cosa non vuole, ma è Gesù, vero uomo e vero Dio l’unico che ci può illuminare su Dio e sulla sua volontà.

E la sua parola è l’unica che possa insegnare con autorità che cosa è bene e che cosa è male agli occhi di Dio, e quindi che cosa è bene e che cosa è male per la vita di ogni uomo.

“Voi che mi avete seguito, riceverete cento volte tanto” (Mt 19,27-29)

"Voi che mi avete seguito, riceverete cento volte tanto" (Mt 19,27-29)

Ecco perché vale la pena di seguire il Signore

È una domanda, quella di Pietro, che ogni cristiano prima o poi si fa. Vale davvero la pena di seguire il Signore? Vale davvero la pena di rinunciare a quello che il mondo sembra offrirci?

La risposta di Gesù non lascia dubbi: Sì. Ne vale la pena.

San Benedetto ha capito cosa è davvero importante nella vita, importante per renderci felici in questa esistenza terrena, pur con tutte le limitazioni che porta con sé, e importante per aprirci le porte alla vita eterna.

Non facciamo lo stesso errore dei nostri progenitori, che hanno dato ascolto al serpente che li ha convinti che obbedire al Signore volesse dire limitarsi, rinunciare a vivere pienamente la vita!

Il Signore non è venuto a portare via nulla di quello che nella vita è buono e bello. Il Signore non ci toglie nulla, ma ci dona tutto.

Credere o non credere?

Credere o non credere?

Cosa comporta rifiutare l’annuncio di Cristo?

Rifiutare o accogliere l’annuncio di Cristo non è indifferente.

Certamente l’annuncio della salvezza deve essere accettato liberamente, nessuno può essere costretto a credere. Ma credere o non credere non è senza conseguenze.

Chi rifiuta l’annuncio della salvezza si condanna ad un giudizio di morte: «la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente». Questo ammonimento sembra essere indirizzato in modo particolare a noi, che viviamo in una società che nelle sue istituzioni, nei suoi valori, nel suo modo di pensare, nel suo modo di vivere è stata plasmata dal Cristianesimo, e che però sembra rapidamente perdere il dono grande della fede.

Tutto nella nostra storia ci parla di Cristo, ma oggi la maggior parte delle persone sembrano vivere come se Dio non esistesse.

Non aderiamo al modo pagano di pensare e di vivere, tanto di moda oggi! Non dobbiamo rinunciare alle nostre convinzioni con la scusa di rispettare quelle degli altri! Garantire la libertà di pensiero a chi non crede non significa mettere sullo stesso piano la verità e l’errore!

Chiediamo al Signore di rendere forte la nostra fede, chiara la nostra identità di discepoli di Cristo. Solo in questo modo possiamo essere luce per la vita di chi non crede.

Gesù ridà la vita, ma non solo quella terrena

Gesù ridà la vita, ma non solo quella terrena

Abbiamo la libertà di figli: sta a noi accettare Gesù o meno

«Andate via! La fanciulla infatti non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma dopo che la folla fu cacciata via, egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò. (Mt 9,18-26)

Le parole di Gesù suscitano le risa della folla. Nessuno di loro credeva che Gesù potesse sconfiggere la morte. E ben pochi di noi lo credono oggi.

Quando si parla di vita eterna, di vita dopo la morte, dei Novissimi (cioè le quattro cose ultime: morte, giudizio, inferno e paradiso) si incontra spesso l’espressione tra il divertito e il perplesso di chi ci sta ad ascoltare. Al punto che oggi questi temi sono quasi del tutto scomparsi dalla predicazione. Ma questo è un errore!

Gesù non si è fatto uomo semplicemente per rendere un po’ migliore la nostra vita di quaggiù (anche perché, se così fosse, a duemila anni di distanza dovremmo dire che il suo progetto non è che abbia avuto un grande successo!). E comunque un Dio che si fa uomo per rendere un po’ migliori gli anni che trascorriamo sulla terra, per poi consegnarci definitivamente alla morte, al nulla, al non essere, non può non lasciarci perplessi. E infatti non è così.

Gesù non si è fatto uomo per salvarci dalla malattia, dal lavoro che non si trova, dal matrimonio andato male, dalla tristezza. È venuto per salvarci dalla dannazione eterna. È venuto per darci la vita eterna.

E i miracoli riportati dai vangeli in cui Gesù richiama alla vita delle persone già morte sono solo segno di questo. Solo un segno, perché queste persone, come la fanciulla del brano di oggi, sono tornate alla vita di prima, e dopo un po’ di anni sono morte una seconda volta, e per sempre!

Gesù invece è venuto a donarci la vita eterna. I miracoli di Gesù, specie quelli con i quali ridona la vita fisica a chi l’ha perduta, ci fanno capire che Egli ha la volontà e il potere di farci entrare in una nuova vita, la vita di Dio, in cui nulla ci potrà mancare e che non finirà mai.

A noi sta accettare o rifiutare questa proposta.

La fiducia nel Signore

La fiducia nel Signore

I suoi tempi non sono i nostri tempi

Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?» (Mt 8,27).

L’azione di Gesù ci mostra la potenza della sua divinità. Dio ha creato gli elementi naturali, ed è in grado di dominarli a suo piacimento.

Ma la scena di Gesù che dorme sulla barca mentre il mare è in tempesta ci mostra anche uno spaccato della nostra esistenza: talvolta sembra che la barca della nostra vita stia per affondare, che le difficoltà ci sovrastino, che non sappiamo più davvero cosa fare.

E allora ci viene spontaneo pensare: «Ma il Signore che fine ha fatto? Perché mi ha abbandonato?». In quei momenti pensiamo a questo episodio.

Gesù, sulla barca della nostra vita c’è e anche se talvolta sembra dormire è perché i suoi tempi non sono i nostri, e i suoi progetti su di noi sono diversi dai nostri.

Non perdiamo la speranza nei momenti difficili, e continuiamo a invocare il suo aiuto con fiducia. Prima o poi, quando riterrà che sia il momento giusto, farà cessare le tempeste attorno alla barca della nostra vita.

La porta stretta

La porta stretta

L’unica via che conduce alla vita

Dicendo che la porta che conduce alla salvezza è stretta, e quelli che la trovano sono pochi Gesù non intende dire che i dannati all’Inferno sono molto più numerosi che i beati in Paradiso.

A questa domanda Gesù non ha risposto (si veda il vangelo di Luca 13,23). Non è questo il punto. Quello che Gesù vuole dirci è che la strada per la vita eterna è faticosa e dolorosa, è la via della croce.

Dicendo che sono pochi quelli che la trovano Gesù non vuole dirci che il Paradiso è qualcosa per pochi, per una piccola minoranza di eletti, ma ci vuole dire che la strada per la vita eterna non è quella del modo di ragionare comune, non è quella del buon senso del mondo.

È sempre una strada che si oppone al modo usuale di ragionare e di vivere. È una via di opposizione, una via minoritaria. Ma per quanto stretta ed angusta sia, il Signore ci esorta a percorrerla, perché conduce alla vita.

La via che conduce al Cielo richiede talvolta rinuncia e sacrificio. Ma non è una rinuncia fine a se stessa. Sono rinunce e sacrifici che ci conducono alla gioia eterna, che non tolgono nulla di ciò che rende bella gioiosa la vita, non tolgono nulla ma donano tutto.

Non accumulate per voi tesori sulla terra … (Mt 6,19)

Non accumulate per voi tesori sulla terra ... (Mt 6,19)

Rendere servi i tesori, e non esserne servi.

Quando ci chiede di non accumulare tesori sulla terra, Gesù non ci chiede di disprezzare le cose di questo mondo. Dio le ha create perché noi, usandole, possiamo vivere.

Ci chiede però di non legare il nostro cuore a cose che dovremo necessariamente lasciare. Ci chiede di non permettere che ciò che è stato creato a nostro servizio finisca per diventare il nostro padrone, assorbendo gran parte delle nostre energie e generando grandi preoccupazioni.

Il nostro cuore deve rimanere legato a Dio, l’unico che, anche nelle difficoltà e nei dolori, può dare senso alla nostra vita e ci permette di vivere bene.

I beni di questo mondo sono ottimi servi, sono necessari alla nostra vita e se usati bene ci permettono di fare del bene a noi e al nostro prossimo, ma sono pessimi padroni, perché se non facciamo attenzione ci rendono loro schiavi.

La giustizia umana: “Occhio per occhio, dente per dente”

La giustizia umana: "Occhio per occhio, dente per dente"

Il significato profondo della Giustizia di Dio

“Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio” e “dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (Mt 5,38-45).

“Occhio per occhio” e “dente per dente” non sono parole che indicano una pratica barbara, disumana, qualcosa di ingiusto. Tutt’altro. Sono espressioni che sintetizzano la giustizia degli uomini.

Una giustizia forse un po’ primitiva, brutale, che deve essere perfezionata, ma queste parole non realizzano un’ingiustizia.

È però vero che la giustizia degli uomini non è la giustizia di Dio. La giustizia degli uomini si limita a disciplinare la convivenza, a regolare, nel modo migliore, i diritti di ciascuno. La giustizia di Dio invece è fondata sull’amore, traduce in pratica i due comandamenti fondamentali: ama Dio e ama il prossimo.

È fondata sulla misericordia, che non significa che dobbiamo rassegnarci all’ingiustizia, ma significa che dobbiamo dare alle cose il giusto valore, talvolta lasciando a Dio il giudizio, sapendo che noi stessi siamo debitori verso Dio.

L’amore è insieme giusto e misericordioso, e Dio è amore, e in Lui la giustizia e la misericordia sono entrambe pienamente realizzate. Noi siamo stati creati a sua immagine e somiglianza, ed è per questo che abbiamo in noi sia l’esigenza della giustizia sia quella della misericordia.

Usare misericordia verso chi è in difetto con noi non significa rinunciare alla giustizia. Significa invece essere giusti, perché adoperiamo con gli altri quel metro di misericordia che il Padre continuamente usa verso di noi.

Inno al Logos, un canto cristologico

Inno al Logos, un canto cristologico

Nel prologo al suo Vangelo Giovanni innalza un inno sublime alla Trinità

Il Vangelo di Giovanni si differenzia dai tre sinottici, per diversi motivi. In primis l’aspetto cronologico è subordinato alla sostanza del messaggio, ma anche perché si tratta del frutto di un approfondimento durato forse 70 anni.

Giovanni, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo, era uno dei due “figli del tuono”. È detto anche “Epistekios” (ovvero colui che appoggiò il capo sul cuore di Gesù durante l’ultima cena, nel tragico momento dell’annuncio del traditore.

Ma quello che immediatamente colpisce del Quarto Vangelo, è che inizia con un inno, quindi con una un incedere poetico di altissima qualità e da un contenuto sostanziale enorme. Un inno al Cristo che contiene elementi trinitari.

Il grande teologo R. Brown scrisse che l’Inno al Logos di Giovanni si colloca al di là delle capacità espressive umane. Bultmann notò che è come un’ouverture, la quale contiene tutti i temi dell’opera.

La sua grandezza è evidente anche nelle traduzioni moderne, ma si esprime in tutto il suo splendore nell’originale greco.

Nei primi 3 versetti riporta per tre volte il verbo “essere” (en), in tre diverse accezioni, ovvero:

In principio ERA il Verbo, col significato che il Logos esisteva all’inizio di tutto. In greco il principio è l’arché, ovvero il Bereshit posto all’inizio della Genesi. Quell’arché che la filosofia pre-socratica cercava disperatamente.

e il Verbo ERA presso Dio. Qui il verbo essere assume il senso dello “stare con”.

E il verbo ERA Dio. Al termine di questo moto letterario ascendente, c’è l’utilizzo di “essere” come copula. Il Logos è Dio, testimonianza dell’unità delle tre persone in un unico Dio.

Riconosciamo in questi brevi versi i concetti fondamentali della Cristologia. Il Figlio esisteva nell’eternità già al momento della creazione. Il Figlio è con Dio, perché in realtà il Figlio è Dio, una cosa sola con il Padre (Chi vede me vede il Padre).

Già queste poche righe contengono un intero trattato.

Ci fanno capire il significato delle parole del Credo, nel quale riconosciamo che tutto è stato fatto attraverso il Figlio. Un Figlio generato nella carne e generato nel contesto di eternità in processione dal Padre, e dunque NON creato.

Ma Giovanni insiste, secondo i canoni espressivi ebraici, in quella che a noi occidentali potrebbe apparire una ripetizione, ma che in realtà è l’arricchimento inserito in una forma a “spirale”, nella quale si ritorna nel discorso per focalizzarlo: “senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste“.

Dopo questa fase in crescendo, segue una forma discendente, che specifica la venuta dall’alto della Vita e della Luce. La vita è ciò che ci consente di riconoscere la luce, che a sua volta è quella che vince le tenebre, e consente una corretta visione. Per questo Giovanni si aggancia alla Verità, perché la luce è quanto ci serve per scorgerla. La Verità è poi intimamente legata alla Grazia, in una simbiosi che ci viene chiaramente espressa in vari punti del Vangelo.

“In Lui era la vita ; e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.

A questo punto l’inno in forma poetica si interrompe per lasciare spazio alla prosa, con il riferimento alla venuta del Battista, il quale non è lui la Luce Vera, ma è colui che doveva dare la testimonianza.

Dobbiamo ricordare che gli ebrei attendevano il Messia, il quale secondo le scritture avrebbe dovuto essere annunciato dalla venuta di un grande profeta, come Elia. Il Battista è ritenuto il nuovo Elia.

E la testimonianza del Battista arriva, e viene riconfermata nel Prologo stesso in una forma ancora una volta “a spirale”.

Ma c’è di più. Giovanni accenna anche a quelli che “sono di Cristo”, che non per mezzo della discendenza israelitica, ma nel riconoscere la Luce. Non solo il Popolo Eletto ha la Salvezza. Nel passo che indica questi concetti scorgiamo anche la trasformazione del Sacerdozio, che per gli ebrei è riservato ai discendenti della tribù di Levi. Compiendo il passo scritturale di un sacerdozio alla maniera di Melkisedec”, Gesù lo trasformerà in chiamata, con gli Apostoli: “… non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

In questo sacerdozio sono compresi tutti coloro che sono di Cristo, nell’accezione di sacerdozio battesimale.

Ed è quindi nella “pienezza dei tempi” che il Verbo si incarna e fa sì che noi possiamo contemplare la sua gloria piena di Grazia e Verità: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria […] pieno di grazia e verità”.

Nella seconda testimonianza, poi, Giovanni Battista si rivela: non è lui la Luce, ma: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore“.

Il deserto (מִדבָּר in ebraico, “midbar”, è quello del cammino, lo stesso deserto in cui vagò 40 anni Israele verso la Terra Promessa, e in cui il popolo di Dio attraverso molte peripezie, tradì e si riconvertì.

La terza persona della Trinità è presente, ed è sempre stata presente nell’eternità, e la riconosciamo nel Battesimo dell’acqua, e nel Battesimo in “Spirito Santo e fuoco.