«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

Gesù sulla croce non dubitò del Padre, come la frase potrebbe farci pensare

Sia Marco che Matteo riportano la frase pronunciata da Gesù quando sulla croce la vita stava per lasciarlo: «Eloì, Eloi, lamà sabachtani» («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»).

Ci sono alcune note che sembrano stonate nei brani evangelici che narrano queste vicende. La prima e che gli ebrei più vicini al luogo del martirio pensarono che stesse invocando Elia per essere soccorso, mentre la seconda risiede nella perplessità che il Figlio di Dio potesse mettere in dubbio la vicinanza del Padre in quel momento tragico.

Vediamo allora di dare le risposte a queste perplessità.

In realtà la frase che Gesù urlò fa parte dell’incipit del Salmo 21, il canto del servo giusto sofferente. Era usanza infatti recitare a voce alta le primissime righe dei salmi, per poi proseguire a bassa voce.

Gesù recitò quindi il Salmo 21, che termina in una profonda coscienza di fiducia in Dio, nonostante le prove siano faticose e sembrino insostenibili, proprio per evidenziare la sua missione di servo sofferente annunciata da Isaia.

Al tempo, nell’attuale Palestina, le lingue parlate erano quattro: il Greco (lingua dei dotti e della cultura), il Latino (idioma dei dominatori, e dunque lingua giuridica e delle istituzioni), l’Ebraico (utilizzato esclusivamente nei riti e nelle funzioni religiose) e l’Aramaico, la lingua corrente entrata nel popolo dopo la deportazione a Babilonia e il ritorno in patria circa 70 anni più tardi.

La frase (אלהי אלהי למה שבקתני = Eloì, Eloì, lamà sabachtani) è in aramaico «ebraicizzato», e ne abbiamo la prova perché «lamà» col significato di «perché» veniva utilizzato solo nell’Aramaico parlato nell’attuale Terrasanta.

Le prime due parole («Eloì, Eloì» – oppure «Elì, Elì» secondo Matteo), indicano indiscutibilmente un dei modi con cui gli ebrei indicavano Dio, ovvero Elohim. Gli altri due erano «Adonai» (letteralmente: «Signore») o il tetragramma sacro che però era impronunciabile per religione. Pronunciando la frase in Aramaico, Gesù la rese diversa da quella in ebraico che veniva ripetuta nelle Sinagoghe, per cui la confusione, la somiglianza con il nome di Elia, e la rimembranza che il Messia sarebbe stato preceduto dal ritorno del profeta, generarono il dubbio.

Dunque la frase fu opportuna al Cristo per confermare la sua fiducia nei confronti del Padre (altra persona della Trinità insieme a Lui stesso e allo Spirito Santo), ma anche a ricordarci, attraverso la cattiva interpretazione degli Ebrei presenti, che il profeta che precedette il Messia era Giovanni il Battista, novello Elia.

La «necessità» della Croce

La «necessità» della Croce

L’amore di Dio per ognuno di noi è eterno come Lui

Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
(Dalla liturgia).

Dopo aver ascoltato la narrazione della passione e della morte di Gesù viene da chiederci: ma perché è stato necessario tutto questo? Perché il Figlio di Dio ha patito ed è morto sulla croce?

Sappiamo bene che è la natura umana di Gesù che ha sofferto ed è morta, quella natura umana creata ed assunta dalla persona divina del Figlio, generato e non creato della stessa sostanza del Padre. Dio non può né soffrire né morire. D’accordo. Questo è vero. Ma Gesù, nella sua natura umana, ha sofferto nel suo corpo, è stato oltraggiato, vilipeso nella sua dignità, ed è morto nel fiore degli anni, all’apice del successo, quando un uomo normale e sano non ha proprio voglia di morire!

Perché Gesù ha accettato una fine così tragica? Lo sappiamo: per riconciliarci con Dio, offeso dal peccato dei progenitori e da tutti i peccati degli uomini. Ma, ci viene da chiederci, era proprio necessario tutto questo? Che razza di Dio è un Dio che per placare la propria sete di giustizia pretende un sacrificio umano, la morte di una persona innocente, il sacrificio, peraltro, del proprio Figlio unigenito, generato e non creato della stessa sua sostanza, e che se non ha sofferto come Dio, come uomo ha patito eccome?

È stato necessario per due motivi: il primo è che ogni peccato è anzitutto un atto contro Dio, ed è pertanto necessario che per eliminarne le conseguenze intervenga Dio stesso. Riflettiamo su questo noi che con colpevole superficialità infrangiamo tanto spesso quella legge che il Signore, nella sua misericordia, si è degnato di darci!

Il secondo motivo è che nulla più della croce manifesta la giustizia, la misericordia e l’amore di Dio: anzitutto la giustizia, perché il peccato dei progenitori e tutti i peccati degli uomini sono stati espiati attraverso la morte dolorosa e infamante di un uomo; la misericordia, perché Dio ha caricato Se stesso della punizione che gli uomini si erano meritati; l’amore, perché non c’è amore più grande di chi dona la vita per i propri amici.

Anche nei momenti più difficili, penosi e dolorosi della vita guardiamo il crocifisso: è la dimostrazione più vera che Dio ci ama e che siamo davvero importanti per Lui.

Scienza e Fede, l’eterno dibattito

Scienza e Fede, l'eterno dibattito

Filosofia e Metafisica intervengono nel dialogo

Del rapporto tra Scienza e Fede si sono occupati praticamente tutti i Papi nonché i maggiori scienziati e pensatori. Alcuni ricercatori scientifici hanno liquidato l’argomento fermandosi in superficie e definendo incompatibili i due mondi. La maggior parte però ha affrontato la questione arrivando a conclusioni spesso diversificate.

Una risposta circa la compatibilità richiede un’analisi abbastanza articolata e tira in campo altre due importanti discipline, ovvero Filosofia e Metafisica.

Nell’Antichità la Filosofia era definita dapprima l’unica scienza, per poi essere ritenuta la «vera» scienza. L’uomo cercava di raggiungere la piena consapevolezza della propria essenza iniziando a comprendere di avere capacità diverse rispetto a tutti gli altri esseri viventi. La capacità di pensare è infatti di tutti gli esseri, ma quella di riflettere è propria dell’uomo.

La Filosofia, ovvero philia e sophia, amore per la conoscenza, non poteva che assurgere in qualità di scienza.

Con il mondo moderno si affermò invece un affidamento cieco solo a quanto potesse essere dimostrato, attraverso misurazioni e ripetizioni in laboratorio del fenomeno osservato: nacque il metodo empirico.

Da allora l’etichetta di scienza è stata esclusivamente applicata a quelle discipline che rispondevano ai canoni della sperimentazione.

Questo pensiero è stato esasperato fino a generare il fenomeno dello scientismo, cioè quella scuola di pensiero che ritiene la scienza infallibile, elevandola in sostanza a divinità.

Il metodo empirico ha fatto in modo da far credere che il termine «scientifico» possa essere usato esclusivamente per alcune discipline quali Fisica, Matematica, Chimica e poche altre.

Restavano dunque, a rigore di logica, escluse alcune altre discipline le quali devono affidarsi esclusivamente alle deduzioni, quali Medicina (almeno nella Diagnostica), Psicologia, Psichiatria, e tutte le scienze umane o umanistiche.

Il sistema denunciava quindi delle lacune che furono colmate con l’avvento della Fisica Quantistica e dal pensiero di diversi filosofi contemporanei, il cui capofila può essere ritenuto Karl Popper.

La Fisica Quantistica ha messo in crisi il metodo empirico evidenziando aspetti della natura, nella fattispecie delle particelle chiamate quanti, che di fatto non possono essere misurate e neppure localizzate in modo stabile. Cadde dunque la possibilità di avere una prova empirica e di conseguenza tutto viene ridotto a teoria.

Popper individuò una ulteriore insufficienza nel sistema empirico, che si può sintetizzare con il famoso esempio dei cigni: se vediamo solo cigni bianchi, non possiamo asserire con certezza che tutti i cigni siano bianchi: basterebbe incontrare un cigno nero e la teoria verrebbe smentita. Si tratta della constatazione che l’uomo non può vedere o sapere tutto quanto esiste in natura, e deve dunque sempre lasciare la porta aperta ad una eventuale prova contraria. Popper diede a questo principio il nome di «Falsificabilità». Diviene dunque scientifico ciò che è falsificabile dall’esperienza.

Queste riflessioni aprono il campo all’importanza della Metafisica. Essa è attaccata in modo feroce dagli scientisti, i quali vorrebbero che fosse addirittura abolita.

Escludere la Metafisica, però, significa mutilare in modo irreparabile le potenzialità intellettive umane. Se la Fisica indaga infatti su ciò che è nell’universo, la Metafisica ci invita a scrutare con la nostra capacità di riflessione anche a quello che potrebbe esistere seguendo una logica stringente. Troviamo dunque anche qui l’ammissione che l’uomo non conosce ancora tutte le leggi dell’universo.

Nell’ambito di queste considerazioni prende corpo l’importanza della Teologia e delle Scienze Religiose. Sono gli strumenti indispensabili per avvicinare la scienza e la fede attraverso una ricerca che può a buona ragione ritenersi scientifica.

Teologia e Scienze Religiose si appoggiano a tutte le altre scienze, comprese quelle che fino a ieri erano ritenute «la sola scienza», ma che oggi possono correttamente definirsi «scienze esatte» perché confermate in modo empirico.

Ecco dunque che scienza e fede divengono complementari perché la prima cerca di spiegare come avvengono i fenomeni, e la seconda indaga sul perché avvengono.

La ricerca del «come» e quella del «perché» non possono essere ritenute incompatibili, ma assolutamente entrambe necessarie se si ha la buona fede di ricercare la Verità.

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Secondo la Lettera di Aristea, questa versione fu prodotta da 72 rabbini

La Bibbia detta «Septuaginta», o come più spesso viene ricordata, la Bibbia dei 70, è una versione tradotta in greco dell’Antico Testamento dall’ebraico.

Si tratta di una versione importante, e ancora oggi è liturgica per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca.

Il riferimento storico, oggi oggetto di valutazione, è un documento, la «Lettera di Aristea», citato dallo storico Giuseppe Flavio, inviata da Aristea, sedicente praticante la religione olimpica, a suo fratello Filocrate.

Aristea si dichiara anche appartenente alla corte di Tolomeo II Filadelfo, della dinastia dei Tolomei di chiara origine ellenica e dunque ellenista, che fu faraone d’Egitto dal 281 al 246 a.C.

La lettera riporta che Tolomeo II, visto il crescere della popolazione ebraica nel suo regno, fu consigliato di indagare e prendere conoscenza della religione praticata dagli ebrei.

La Bibbia dei LXX non è l’unica versione in greco che viene tenuta in considerazione dagli studiosi, ma ad essa si aggiungono le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione, che sono fra l’altro citate da Origene nel suo Exapla. La Bibbia dei Settanta è però molto spesso indicata come OG, ovvero Old Greek, riconoscendone l’antichità.

Secondo la Lettera di Aristea, dunque, Tolomeo II chiamò i rabbini più autorevoli di Gerusalemme affinché producessero una traduzione in Greco. Da Gerusalemme partirono verso Alessandria 72 rabbini, 6 per ognuna delle 12 tribù di Israele.

In Egitto i 72 rabbini provvidero a tradurre una versione a testa in lingua greca, che miracolosamente non differivano l’una dall’altra neppure di una virgola.

Storicamente si ritiene che il lavoro di traduzione durò dal 250 a.C circa fino addirittura al I secolo dopo Cristo.

Nella Bibbia dei LXX troviamo delle interpretazioni che si staccano dalla semplice traduzione letterale di alcune parti del testo ebraico. I rabbini di Gerusalemme volevano probabilmente rendere esplicite le riflessioni teologiche che avrebbero potuto essere ostiche alla comprensione egiziana e greca. Di fatto quindi, l’esigenza di una ricerca al testo originale fu presto avvertita.

Nei secoli successivi si è arrivati a formulare due teorie circa la composizione della Bibbia dei Settanta, che hanno preso in considerazione esclusivamente le risultanze storiche certe, tanto più che la Lettera di Aristea è stata col tempo considerata epigrafica: si parla infatti di pseudo-Aristea.

L’indagine sul documento attribuito a Aristea ha subito una svolta importante con la ricerca effettuata da Luis Vives (filosofo e umanista spagnolo nato nel 1493 e deceduto nel 1540), e da Humprey Hody (teologo, 1659-1707), i quali dimostrarono che La Lettera di Aristea fu scritta da un ebreo alessandrino tra il 170 e il 130 a.C. e dunque da 80 a 120 anni dopo il regno di Tolomeo II.

Le teorie di formazione della traduzione della Septuaginta, sono due e diametralmente opposte.

La prima, formulata da Paul Kahle, sostiene che si formò nelle Sinagoghe come il Talmud, mettendo insieme diverse tradizioni distinte in un unica traduzione.

La seconda, sostenuta da Paul de Lagarde e Alfred Rahlfs, considera invece un’origine unitaria: la versione sarebbe dunque una compilazione originaria. Questa teoria trova conferma nei ritrovamenti di Qumran che testimonierebbero a favore della presenza consolidata della traduzione già in tempi antichi.

Successivamente vi furono però vari tentativi di riportare la traduzione al testo originale in senso letterale, come dimostrerebbe un rotolo dei 12 profeti minori ritrovato negli anni ’50 a Nachal Hever.

La Bibbia dei LXX, al di là di ogni considerazione, è uno strumento importante per l’approfondimento della teologia biblica, nonché dello studio delle varie forme di approccio e della storia dei libri biblici.

Gesù si rivela ma non viene accolto

Gesù si rivela ma non viene accolto

«… e il verbo era presso Dio …»

Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono».
Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio
(Dalla liturgia).

“Chi credi di essere?” chiedono sprezzanti i Giudei a Gesù. La risposta di Gesù è netta: “prima che Abramo fosse, Io Sono”.

Le pietre cadute dalle mani degli accusatori della donna adultera, disarmati dalla parola di Gesù, ora sono scagliate contro Gesù…

I Giudei dimenticano che essere figli di Abramo non è “possesso” ma dono, toccati dall’iniziativa di Dio che trasforma la vita di un popolo in una promessa, un cammino e non un privilegio…

Gesù riaffermando il suo “io sono” ricorda che a partire da lui il cammino di Abramo riprende e giunge a pienezza: ora ci è aperta la strada per essere figli di Abramo, eredi della promessa.

Quando nella notte di Pasqua rinnoveremo le nostre promesse battesimali in realtà ci viene detto e ricordato che viviamo di una vita che è il compimento di tutte le promesse. È donata in noi una vita di pienezza, di comunione con il Padre.

L’”io sono” di Gesù risuona e si riflette in noi. Abramo ha raggiunto la terra della promessa!

Gesù non condanna: ama. Il nostro impegno è di non peccare più

Gesù non condanna: ama. Il nostro impegno è di non peccare più

L’accusa all’adultera serviva anche per mettere in difficoltà il messaggio di misericordia di Gesù

Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Dalla liturgia).

La scena di questo brano di Vangelo si apre nel tempio di Gerusalemme. Gesù sta insegnando quando, all’improvviso, compare un gruppo di scalmanati: sono scribi e farisei che hanno trovato una donna mentre stava tradendo il marito, e non sembra loro vero di poterla usare per mettere in difficoltà Gesù. Questa donna si trova in grave imbarazzo: evidentemente è colpevole, viene umiliata, messa in mezzo. Si trova in una situazione di grave disagio.

Dicevamo che scribi e farisei approfittano di questa donna per mettere in difficoltà Gesù. Perché lo mettono in difficoltà? Perché se Gesù avesse affermato che era giusto lapidarla, come previsto dalla legge di Mosè, allora si sarebbe potuto dire: «dov’è tutta la tua misericordia, il tuo amore per i peccatori?». Se invece avesse detto di lasciarla andare, allora sarebbe stato facile accusarlo di aver trasgredito la legge di Mosè.

Gesù ribalta la situazione: non risponde subito. Scrive per terra. Cosa scrive? Il Vangelo non lo dice. Alcuni commentatori dicevano che scrivesse i peccati di quegli scribi e farisei che gli avevano portato la donna. Forse invece era solo un modo per non mettere in ulteriore imbarazzo la donna, guardandola in faccia. Fatto sta che non risponde, ma rilancia l’accusa a scribi e farisei: «chi è senza peccato scagli la prima pietra».

Tutti hanno peccato, non solo quella donna, e tutti hanno bisogno della misericordia del Signore. Infatti nessuno lancia la pietra, ma se ne vanno, a cominciare dai più vecchi, forse perché avevano più peccati.

Il Signore non ha approfittato della situazione per fare una catechesi sul peccato. Ha cercato anzitutto il bene di quella donna. Per prima cosa l’ha salvata dalla lapidazione, e poi l’ha congedata senza umiliarla, senza accusarla, ma facendole comunque capire che il peccato è un male che rovina la vita a noi e agli altri, e per questo va evitato: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

«Neanch’io ti condanno». Il Signore non ci condanna quando pecchiamo, cerca in tutti i modi di recuperarci, finché ci è dato tempo per farlo. Il Signore vuole salvarci, non vuole che ci perdiamo nella dannazione eterna. Per questo non ci condanna. Ma per questo ci fa anche capire che dobbiamo sforzarci di cambiare, di non peccare più. «Vai e non peccare più».

Il peccato fa male, a noi, agli altri e a Dio. Uccide la grazia di Dio in noi, quel flusso d’amore e di vita che il Padre ci dona. Per questo è necessario cercare, con l’aiuto di Dio, di non peccare. Ma è necessario soprattutto stare attenti a non fare come quegli scribi e i farisei che hanno trascinato la donna da Gesù: pensare cioè che i peccatori siano solo gli altri, che noi in fondo non facciamo niente di male. Se noi pensiamo così (e noi spesso, per non dire quasi sempre, pensiamo così!) non riusciamo a pentirci e a migliorare, ma ci limitiamo a considerare i peccati degli altri senza pensare ai nostri.

Gesù ci ammonisce: non solo di non tirare le pietre, cioè di non giudicare gli altri, ma ci invita a ricordare di essere peccatori, di tenerlo presente. Non ritenersi giusti, capire che abbiamo sbagliato è il primo passo per convertirci, per cambiare, per mettere il Signore nelle condizioni di perdonarci.

La natura e i compiti degli organismi ecclesiali

La natura e i compiti degli organismi ecclesiali

Il nuovo libro di Don Giuseppe Militello indica le funzioni degli uffici della Chiesa

Spesso parliamo di eventi e circostanze che riguardano il funzionamento strutturale della Chiesa, ma pochi scrittori hanno pensato di spiegare in termini semplici e sintetici in che cosa consistano i vari uffici ecclesiali, e quel è il loro scopo.

Ci ha pensato Don Giuseppe Militello, Parroco a Finale Ligure, prolifico scrittore in temi ecclesiologici e teologici, nonché docente di Ecclesiologia presso l’ISSRL aggregato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano.

Il libro, edito da Paoline, è stato voluto dall’autore in forma semplice, facilmente leggibile e molto scorrevole, e non si accontenta però «solo» di spiegare (e lo fa molto bene) le funzioni degli organismi, ma si preoccupa di trasmettere il significato e i motivi della loro esistenza, i quali vengono poi riassunti nella missione evangelizzatrice della Chiesa.

Questo legame forte tra istituzione e scopo, traspare in modo netto e Militello lo fa emergere in una logica stringente.

Ecco dunque che questa opera si colloca di diritto all’interno della disciplina ecclesiologica, ma strizza fortemente l’occhio a contenuti teologici e pastorali.

Si tratta di un libro da non perdere se si vuole essere edotti in materia di competenze, per evitare di fraintendere motivazioni e scelte della Chiesa, la quale opera sempre al fine di ottenere uno scopo congruo per la sua missione.

Giuseppe Militello, Natura e compiti degli organismi ecclesiastici. Le strutture a servizio della comunione. Edizioni Paoline, 2023. €. 10,00

Anche preghiera e altre cose buone possono vanificarsi con la superbia

Anche preghiera e altre cose buone possono vanificarsi con la superbia

Un atteggiamento di autocompiacimento rende sterile la preghiera

«Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Dalla liturgia).

Il fariseo prega, ed è una cosa buona.

Prega nel tempio, nel luogo stabilito da Dio, nel luogo della preghiera pubblica, e anche questa è una cosa buona, non si affida a una religiosità «fai da te».

Ringrazia: è molto bello che nel suo cuore vi sia un sentimento di gratitudine verso Dio.

Dov’è che la preghiera del fariseo comincia a fare acqua? Quando comincia a fare paragoni e a giudicare gli altri uomini, gli altri uomini in generale e (peggio ancora!) l’altro uomo in particolare, presente accanto a lui nel tempio.

Soprattutto la preghiera del fariseo ha un grosso difetto: finge di glorificare Dio ed invece è tesa ad esaltare se stesso, in particolare paragonandosi ad altre persone e dando giudizi pesanti su di loro.

È come se una ragazza si mettesse allo specchio e dicesse: «Signore ti ringrazio perché sono davvero bella, non come le mie amiche!».

La preghiera è vera, è buona, ci fa bene, se mette al cento il Signore.

Anche la liturgia è vera, è buona e ci fa bene se celebra il Signore, e se lo celebra come Lui vuole essere celebrato.

Quando invece la preghiera, anche la preghiera della liturgia, celebra noi, celebra la nostra persona, celebra la nostra comunità, non è più preghiera, e non ci rende migliori.

Chiesa, annuncio e aggiornamento

Chiesa, annuncio e aggiornamento

Aggiornare non significa abbandonare la tradizione

La priorità massima della Chiesa e di ogni singolo battezzato è l’evangelizzazione. Il messaggio di Gesù è chiaro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

C’è dunque un’appartenenza a Dio con insita la partecipazione alla Comunione con Lui e con i fratelli, in cui anche i laici hanno parte.

Ciò che emerge dunque è la necessità di trovare il modo più incisivo di comunicazione, e questa deve essere una delle preoccupazioni più significative per il cristiano.

Già Papa Paolo VI ne aveva fatto oggetto della sua esortazione “Evangeli Nuntiandi”, e Papa Francesco è rimasto nella scia del suo santo predecessore con l’esortazione “Evangeli Gaudium”. Insieme questi due documenti magisteriali sanciscono la necessità e la gioia della evangelizzazione. L’espressione utilizzata dai due Pontefici è stata «confortante gioia di evangelizzare».

Il bisogno di annunciare e di essere chiari in ciò che si esprime si accompagna ad una difficoltà, che è quella del riferirsi in modo chiaro, intelleggibile e scevro da possibilità di equivoci, in un mondo che presenta diverse sfaccettature culturali e di apprendimento.

Ecco dunque l’obbligatorietà di un aggiornamento dei metodi e delle espressioni.

Spesso questa necessaria accezione viene accolta con diffidenza da chi intende in modo errato il significato di «tradizione».

La Traditio, ovvero la tradizione a cui si deve fare riferimento è esclusivamente quella apostolica. Con la morte dell’ultimo dei testimoni oculari del Cristo, che si ritiene a stretto rigore di logica e di risultanze storico-letterarie l’apostolo Giovanni, la Rivelazione si è chiusa definitivamente.

Sono passati da quel momento ormai più di 1900 anni, e nulla può e deve essere aggiunto. E nulla si è manifestato mai come papabile per un’aggiunta. E mai sarà.

Tutto ciò che è stato creato come riti, liturgia, pia manifestazione, preghiera, e altro, è stato di legittima competenza della Chiesa al fine di svolgere il mandato affidato da Cristo. Tutto quindi deve essere ricondotto ad una modalità che può essere legittimamente modificata. Ciò che invece deve restare immutato è il contenuto della Rivelazione, il quale può essere approfondito al fine di una migliore comprensione, ma assolutamente non cambiato nella sua forma essenziale.

Santa Messa in latino o in lingua locale, modalità di celebrazione, preghiere, e altri aspetti sono solo soggetti all’opportunità di una migliore trasmissione del kerygma, e non devo creare nostalgie di sorta, sane o malate, in quanto sono esclusivamente dei mezzi e degli strumenti.

L’aggiornamento dei mezzi diviene quindi non solo un’opzione, ma addirittura un obbligo se porta ad un miglioramento della comprensione della Parola.

Attaccarsi sentimentalmente a uno strumento può essere compreso sotto l’aspetto umano, ma deve essere un fatto da superare consapevolmente da parte di un cristiano maturo che ha veramente a cuore l’evangelizzazione.

I modo di supplire ai cambiamenti ci sono. Recuperare una spiritualità che si ritiene personalmente indebolita da una variazione di rito o di preghiera, può essere rimediata con la partecipazione sentita e spirituale alle celebrazioni, ma anche da una meditazione attenta di un qualsiasi brano della Bibbia.

Si tratta dunque di operare un salto culturale che rientra pienamente in ciò che Gesù ha affidato alla Chiesa, ovvero una dimensione di corresponsabilità volta al servizio della comunione e della missione.

A questo proposito la Chiesa si è incamminata in un percorso sinodale. Il Sinodo prevede una fase narrativa, con la quale si indaga sulla storia dell’evangelizzazione e dei suoi sistemi, a cui segue una fase sapienziale, per arrivare infine a quella profetica.

Il modello profetico non va inteso con l’accezione della preveggenza, ma su come venne inteso dal popolo ebraico: il profeta è colui che pone i binari per restare sulla strada del Signore, e interviene quando la direzione prende una via estranea al progetto di Dio.

L’obiettivo è quello di fondare una vera vita di comunità dando il giusto primato a Dio.

Perdono e pace tra fratelli: il giudizio sarà quello che usiamo noi

Perdono e pace tra fratelli: il giudizio sarà quello che usiamo noi

«Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Dalla liturgia).

L’atteggiamento benevolo verso gli altri uomini, il dovere di perdonare chi ci ha fatto e chi ci fa del male non nasce dal fatto che gli altri, in particolare chi ci fa del male, meritino qualcosa di buono da noi.

Spesso chi ci offende non merita proprio il nostro perdono né la nostra benevolenza.

Dobbiamo perdonare gli altri perché Dio perdona noi. Il motivo è solo questo.

Se noi non riusciamo a capire che Dio ci perdona, perché pensiamo di non avere mai fatto nulla di grave, perché pensiamo che i peccatori siano solo gli altri (e questo oggi è un modo di pensare molto diffuso) allora non riusciremo a perdonare chi ci fa del male. Ma non riusciremo a gustare nemmeno il perdono del Signore, perché abbiamo perso il senso del peccato (quantomeno il senso del nostro peccato, perché il senso del peccato degli altri in noi è sempre vivo!) e pensiamo, a torto, di non avere nulla da farci perdonare.

Ricordiamo questo quando qualcuno ci fa qualche torto: il Signore nel giudicarci userà con noi lo stesso metro che usiamo con i nostri fratelli.