Il compositore M° Valentino Miserachs visita la nostra parrocchia

Il compositore M° Valentino Miserachs visita la nostra parrocchia

Direttore di coro, M° emerito della Cappella Liberia di Santa Maria Maggiore in Roma, Protonotario Apostolico.

Il celebre compositore spagnolo Mons. Valentino Miserachs sarà ospite del nostro parroco Don Enrico Giovannini nei giorni dal 9 al 11 gennaio.

Il prelato, già organista titolare della Cappella Liberiana di Santa Maria Maggiore a Roma e della Cappella Giulia in San Pietro, è curioso di scoprire le nostre piccole realtà parrocchiali. Ha espresso inoltre il desiderio di conoscere il nostro organista, M° Roberto Grasso, di cui si inizia a parlare anche a Roma.

L’incontro con la comunità di Mendatica avverrà sabato pomeriggio. La S.Messa prefestiva che celebrerà la Liturgia del Battesimo di Nostro Signore, nella Parrocchia dei Santi Nazario e Celso alle ore 17.00 sarà presieduta dall’Alto Prelato e concelebrata dal nostro Parroco. Sarà occasione inoltre per accogliere l’illustre musicista con il nostro coro parrocchiale.

Mons. Valentino Miserechs è nato nel 1943 a Sant Martí Sesgueioles in Catalogna. Manifestò già in tenera età una grande predisposizione e passione per la musica. A soli sei anni iniziò gli studi di solfeggio e della teoria. All’età di otto anni è già organista presso la propria chiesa parrocchiale e in alcune chiese del circondario.

Nel 1967 diviene sacerdote dopo aver conseguito la licenza in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana (equivalente alla nostra Laurea Specialistica).

Nel 1972 si laurea a pieni voti anche in Organo e Musica Organistica presso il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, dove nel 1976 si laurea anche in Composizione.

Dal 1995 al 2012 è stato preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra, de Urbe, dove è professore ordinario di alta Composizione, con insegnamento annesso di Direzione polifonica e di Lettura della partitura.

È Canonico prelato della Patriarcale Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. È inoltre Protonotario Apostolico sovrannumerario, riconoscimento vaticano considerato una via per il cardinalato.

La visita di Mons. Miserachs, che è anche Canonico Prelato della Patriarcale Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, costituisce un motivo di vanto per la nostra comunità e un riconoscimento dei meriti del nostro organista Roberto Grasso.

La Dottrina Sociale della Chiesa, cos’è e come invece viene intesa

La Dottrina Sociale della Chiesa, cos'è e come invece viene intesa

La via della Chiesa per il convivere sociale degli uomini

Viviamo in un’epoca in cui relativismo e superficialità hanno il predominio. L’avvento dei social, invece di incentivare un desiderio di crescita culturale, ha intensificato la tentazione di accogliere le informazioni raccolte in rete a seconda delle proprie convinzioni, senza indagare sulla loro attendibilità, e senza preoccuparsi di approfondire i concetti espressi per verificarne i contenuti. In pratica internet è divenuto il mezzo per apparire senza grandi sforzi ciò che vorremmo che gli altri pensino di noi, e non per condurci ad essere ciò che siamo in realtà. In questo contesto si collocano anche i grandi problemi esistenziali, e i temi fondamentali del convivere civile.

Cos’è e cosa non è

Nello specifico, riguardo alla Dottrina Sociale della Chiesa si è detto di tutto e di più, da infinite parti e direzioni.

Vediamo allora di approfondire questo tema. Se non altro per fare un poco di chiarezza e evitare fraintendimenti che in alcuni casi possono essere anche strumentali o funzionali a strategie politiche inopportune.

Va innanzitutto chiarito un principio fondamentale: la Dottrina Sociale della Chiesa è parte della Teologia Morale. E non potrebbe essere altrimenti, visto che fa riferimento a comportamenti dettati da principi confessionali. E con questo si risponde a chi si arroga il diritto di sostenere che la Chiesa non possa intervenire nel sociale.

Non è, come molti credono sbagliando, un “sistema” ma una terza via che propone una critica a Socialismo e Capitalismo. E non è una “tecnica” ma una categoria che fa parte della Dottrina Morale.

La prospettiva della Dottrina Sociale della Chiesa non è il raggiungimento di un “paradiso in terra”, che essa stessa riconosce impossibile da acquisire. È invece un ordine sociale che permetta all’uomo di vivere nella volontà di Dio e di condurre una vita cristiana in cui realizzare le proprie aspirazioni umane e religiose in modo degno.

Si tratta di una dottrina dinamica e non statica. Infatti è in continua evoluzione. Pur essendo sempre stata presente nella Storia della Chiesa a vari livelli e più o meno affermata nei tempi e nei luoghi, è assurta a importanza capitale e palesata in modo chiaro a partire da Leone XIII con la Rerum Novarum, e prosegue senza soluzione di continuità fino a Francesco.

Nella sua evoluzione non modifica e non ha mai surrogato i valori fondamentali perché sono radicati nel Vangelo. Possono variare invece le applicazioni in funzione del contesto, anche perché è disciplina che si applica all’uomo nella sua “umanità”.

Il conflitto con la Politica

Questi motivi di fondo staccano in modo netto la Dottrina Sociale della Chiesa da qualsiasi posizione politica e ancor meno partitica.

Non è corretto altresì affermare che essa si avvicini più ad un principio politico piuttosto che ad un altro. La Dottrina Sociale della Chiesa prevede infatti soluzioni che sono incompatibili in via sostanziale con qualunque altra proposta politica. E ciò è conseguenza del fatto che l’obiettivo della Dottrina Sociale della Chiesa non mira ad un potere governativo, ma all’acquisizione di valori morali che guidino ad una presa di coscienza.

Ne sorte quindi un conflitto permanente con ogni forza politica. E ciò avviene nel momento stesso in cui l’espressione del potere privilegia l’aspetto utilitaristico a scapito di un disegno organico di formazione di una coscienza comune e di un progresso paritario.

Il concetto stesso di parità viene espresso nella Chiesa come un’esigenza che tenga conto delle insuperabili diversità. Allo stesso tempo deve però impedire che una parte soffochi l’altra.

La proprietà privata

In questa ottica si inserisce la posizione della Chiesa sulla proprietà privata. Su questo concetto le strumentalizzazioni si sono moltiplicate proprio per pressapochismo, relativismo e superficialità.

Va innanzitutto detto che la Chiesa riconosce la proprietà privata come strumento indispensabile per garantire all’uomo sicurezza e dignità. Senza l’idea di poter disporre di qualcosa di proprio non sarebbe possibile garantire all’uomo un futuro sereno e scevro di oppressione.

Questo però non può e non deve autorizzare ad intendere la proprietà privata come un qualcosa di assolutamente dovuto a scapito di chi non ha propri mezzi. In questo senso la proprietà privata non è più un valore assoluto, ma deve essere strumento per consentire una dignità di base e di vita anche a chi è rimasto indietro.

Non si tratta di utopia, ma appunto di una via che si contrappone ad un modo di pensare mondano e utilitaristico. Fattori, questi, che colpiscono in modo paritario ogni cultura politica.

Conoscere la Dottrina Sociale della Chiesa

L’invito è quindi quello di informarsi circa le proposte che sono state formulate attraverso le encicliche dei pontefici che si sono susseguite. Apartire dalla Rerum Novarum del 15 maggio 1891 di Leone XIII, fino alla Fratelli Tutti del 3 ottobre 2020 di Papa Francesco, intercalate da numerosi documenti dottrinali. Solo con l’informazione si può affrontare una critica costruttiva e formarsi un’idea concreta sull’argomento, che non sia penalizzata da luoghi comuni o inesattezze. E soprattutto si raggiunge la piena libertà riguardo a colpevoli strumentalizzazioni.

Lo studio della Bibbia: critica testuale

Lo studio della Bibbia: critica testuale

Le difficoltà derivanti dalla trasmissione nei secoli del libro più letto del mondo

L a critica testuale della Bibbia è indispensabile soprattutto se prendiamo atto che questa opera non ci è giunta in copie autografe, ma in versioni derivanti da epoche differenti e su diversi supporti.

La possiamo leggere nelle lingue originali nelle quali essa è stata scritta (ebraico, aramaico, greco), ma anche nelle varie lingue di tutti i periodi storici successivi in cui è stata tradotta.

Il pericolo è quello di incorrere in versioni che abbiano modificato, in modo più o meno volontario o doloso, contenuti o parole. A ciò si aggiunga la difficoltà di interpretazione delle antiche scritture e l’intervento di eventi che abbiano potuto snaturarle o anche minimamente modificarle.

Attualmente, e ciò anche grazie ai metodi scientifici che costituiscono l’approccio indiscusso allo studio dei testi, possiamo dire che la ricerca è riuscita a dare una garanzia di fondo alla volontà di risalire ai testi originali. Per quanto consentito dalle più moderne tecniche, si può affermare che oggi possiamo avere una ragionevole certezza che quanto leggiamo sia conforme alla stesura originaria. Salvo ovviamente nuove scoperte.

Le difficoltà linguistiche e letterarie

Non ci si può nascondere però che le difficoltà sono notevoli. Sotto l’aspetto testuale stretto, le lingue semitiche, come ebraico e aramaico, non comprendono l’utilizzo di vocali. Si affidano alla scrittura delle radici consonantiche del termine, il quale nella maggior parte dei casi esprime un concetto. Nelle tradizioni semitiche antiche il modo stesso di pensare e di agire presenta delle evidenti differenze con quello occidentale. E ancora di più col pensiero occidentale moderno. Lo stesso concetto di parola è strettamente legato all’agire, e lo si può facilmente notare nella narrazione della creazione, riferito a Dio. Ne deriva che il termine “parola” assume un significato più pieno di significato rispetto a come oggi noi lo intendiamo. E ciò deriva anche dalla povertà numerica dei termini utilizzati nelle lingue antiche, unito alla necessità di esprimere comunque concetti più ampi.

Inserendo le vocali in una radice consonantica può quindi generare confusioni, attribuendo ai termini un significato o una “forza” diversa.

In passato, e precisamente tra il I e il X secolo circa, intervennero i Masoreti, ovvero degli studiosi ebraici che si occuparono di rendere la lettura di più facile accesso. La versione della Bibbia adottata oggi dall’Ebraismo è infatti un testo masoretico.

I Masoreti introdussero delle varianti significative attraverso delle note a margine o tra le righe, indicando la corretta pronuncia, ma anche la particolarità del testo.

I testi antichi

I testi più antichi finora ritrovati risalgono al IX secolo. Siamo però in possesso di frammenti anche molto più antichi, come ad esempio quelli di Qumran. Il problema sorge circa le differenze che si evidenziano tra i vari testi ritrovati. In alcuni casi la variazioni intervengono nella misura di 1 parola su 1000. In altri casi la frequenza è maggiore.

Attualmente attraverso un complicato lavoro di catalogazione e una gerarchia delle fonti, si tende a dare preminenza ai testi più antichi. Per determinarli ci si affida alla Paleografia, la disciplina che studia non solo i materiali delle varie epoche, ma anche gli stili e i metodi di scrittura.

Esistono delle versioni privilegiate, i cosiddetti “codici”, i quali sono ritenuti più affidabili rispetto ad altri secondo ogni aspetto. Possiamo citare il Canone Vaticano, o Codice B, o Codice 03, che è attualmente il più antico testo ritrovato che sia completo da Genesi a Apocalisse. Altri codici importantissimi sono il Codex Sinaiticus e il Codex Alexandrinus, e altri ancora.

Oltre ai codici esistono singoli manoscritti su papiro o pergamena, ma anche frammenti su diversi supporti. Tutto questo “materiale” viene catalogato e indicato attraverso una classificazione che comprende lettere maiuscole o minuscole, oppure l’iniziale del supporto utilizzato. Abbiamo così dei manoscritti detti “maiuscoli” seguiti da un numero, altri “minuscoli”, o altri ancora caratterizzati da una lettera particolare.

Questo sistema aiuta i ricercatori a orizzontarsi nell’oceano dei documenti, afferrando immediatamente la tipologia a cui ci si avvicina. Molta importanza viene attribuita per esempio ai papiri, essendo tipicamente il supporto quasi sempre più antico. Ad esempio il P52, Papiro 52, anche chiamato Rylands52, conservato nella omonima biblioteca universitaria di Manchester, è un frammento di una copia del Vangelo secondo Giovanni che potrebbe essere datato tra il 125 e il 175. Riporta i brani da Gv 18,31-33,37-38.

Gli errori manuali

Ma oltre a tutto ciò dobbiamo anche tenere conto di quelli che sono stati alcuni errori manuali, anche involontari, in cui i trascrittori sono incorsi attraverso i secoli.

A riportare i testi affinché non andassero distrutti ci pensarono soprattutto gli amanuensi, per la maggior parte monaci. Dobbiamo considerare che le lingue semitiche, essendo come già detto povere di termini, utilizzavano spesso la ripetizione di intere frasi, anche più volte all’interno del medesimo periodo. Questo stile era adottato proprio per la mancanza di termini che fossero abbastanza incisivi per rendere più enfatica una frase. Nei casi in cui un amanuense avesse dovuto interrompere il lavoro, è accaduto spesso che un periodo fosse ripetuto più volte del necessario, oppure addirittura tralasciato. Senza contare ovviamente gli errori di trascrizione ponendo una lettera per un’altra. La coincidenza di vari errori (ripeto: voluti o non voluti), ha determinato versioni differenti nel momento in cui si procede alla traduzione o all’interpretazione di un concetto.

La Bibbia dei LXX

I testi masoretici hanno di fatto comunque sostituito la più antica traduzione della Bibbia di cui noi siamo oggi a conoscenza e che risale all’era tolemaica (precisamente al I secolo a.C). Si tratta della Bibbia Septuaginta, meglio conosciuta come Bibbia dei LXX.

Tolomeo II Filadelfo, Faraone d’Egitto, incaricò i saggi di Alessandria di tradurre in greco la Bibbia ebraica. A questo incarico risposero 72 rabbini, 6 per ogni antica tribù di Israele. Questa Bibbia non va però confusa con altre versioni greche importanti. Non si possono non citare le Bibbie di Aquila di Sinope, di Simmaco l’Ebionita e di Teodozione, le quali figurano anch’esse nell’Exapla di Origene.

Lo studio e la critica testuale della Bibbia è affascinante non solo per questi aspetti tecnici, ma soprattutto per i loro risvolti teologici. Ma non si può dimenticare la dimensione romantica. Gesù leggeva (e lesse nella Sinagoga) srotolando i papiri e inserendo a memoria le vocali in una scrittura consonantica. Oggi per aiutare la lettura dei testi ebraici si ricorre ad un sistema di simboli codificati che indicano quale vocale inserire e altri sussidi per la lettura corretta.

I Sacramenti come equilibrio tra Parola e Gesto

I Sacramenti come equilibrio tra Parola e Gesto

In un mondo dove regna l’incoerenza, i Sacramenti testimoniano l’incarnazione tra Azione e Parola

Nel tempo di pandemia abbiamo potuto constatare l’importanza del rito. L’uomo, con l’Illuminismo, ha voluto cacciare tutto quanto non si riferisse alla Scienza. Si è però accorto di quanto sia poco prudente affidarsi completamente ad essa e divinizzandola.

Abbiamo dovuto creare miti nuovi, come ad esempio quello dei “balconi”, dei meeting online, e altre forme che ci impedissero di cadere nell’individualismo e nella solitudine. Perché in fondo l’uomo, essere sociale, teme la solitudine più di qualsiasi altra cosa. La paura stessa della morte è testimonianza di ciò, perché per i non credenti è comunque l’espressione massima della solitudine.

Rito cristiano e Sacramento

Questo porta a riflettere sul significato del rito cristiano, che raggiunge la sua espressione più piena nella celebrazione del Sacramento.

Sacrum facere. L’etimologia ci invita a comprendere il significato del Sacramento come il “fare ciò che è sacro”, che comprende l’accezione umana di “fare ciò che è giusto”.

Ecco quindi che in questa spiegazione comprendiamo perché la Storia della Salvezza sia Sacramento, e che il Cristo stesso è il Sacramento del Padre.

Il rito cristiano si differenzia dal mito, perché ha un riferimento storico. La differenza tra storia e mitologia sta proprio in questa differenza: il mito è un racconto poetico e simbolico che non possiede i requisiti di realtà. Non va però dimenticata l’importanza che ricopre e che ha significato per l’evoluzione del pensiero e della cultura. Nel mito troviamo comunque quella verità data dall’interpretazione e dalla percezione dell’uomo circa i grandi problemi esistenziali, come la ricerca dell’origine del mondo, il perché siamo qui e dove andiamo.

Nella Bibbia, infatti, non ci siriferisce all’aspetto scientifico della creazione del mondo, dell’uomo e della donna, ma piuttosto agli argomenti profondi che riguardano il rapporto tra uomo e Dio, e tra uomo e donna.

Il rito cristiano non è mito

Il rito cristiano si basa invece su un fatto storico, ovvero sull'”evento Gesù”, quelò Yoshua ben Yosef che ha realmente calcato la terra della Palestina circa 20 secoli fa.

Nella Chiesa il rito, proprio perché ricalca qualcosa di reale, richiede un equilibrio perfetto tra Parola e Azione. Se la Parola venisse assorbita dall’Azione si cadrebbe nell’esoterismo, nella magia: l’intelligenza non sarebbe coinvolta. Se al contrario l’Azione prevalesse sulla parola perderemmo il senso del concreto, cadremmo nel platonismo, nell’idealismo e addirittura nella superficialità.

Il primo caso corrisponde anche all’impostazione assunta dai fratelli Protestanti, i quali si sbilanciano a favore della Parola, rendendo nullo l’apporto che l’uomo può dare con le sue scelte in funzione del proprio libero arbitrio. Viene sottovalutata la costante ricerca di collaborazione che Dio ha sempre voluto promuovere con l’uomo, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.

Il secondo caso comprende invece il crescente secolarismo, che sfocia in un’approssimazione di fondo, nel relativismo (condannato da Ratzinger e Bergoglio) e nella superficialità che va a vanificare il ricordo.

Incarnazione che è armonia

Parola e gesto nel rito, esplicato nel Sacramento, corrispondono tra loro come un’incarnazione. E l’Incarnazione di Cristo sta a sottolineare che non vi furono in Lui parole o gesti vuoti.

Tutto ciò non può che condurci alla relazione conseguente che è quella tra Coerenza e Ragione. Nel sacrum facere troviamo quindi la perfezione che come uomo fu esclusiva di Gesù Cristo: un’armonia e un’equilibrio che la Liturgia dei Sacramenti sperimenta nel rito.

La Chiesa dei SS. Nazario e Celso

La Chiesa dei SS. Nazario e Celso

La storia di Mendatica si intreccia con la sua devozione nella riedificazione del 1760

I contrasti filosofici, politici ed economici del 1700, secolo dallo slancio spirituale e dalla spinta razionalistica, dall’attenzione alla natura e dall’interesse per il progresso tecnologico, hanno coinvolto i centri rurali, fortemente radicati nel substrato culturale di appartenenza, in modo tardivo e stemperato.

In campagna si vive un momento di speranza, per l’aumento della produzione agricola, capace di soddisfare appieno, seppure con fatica, il fabbisogno umano e allevatoriale. Patate,  mais e altre essenze eduli, importate da oltreoceano stanno limitando il ripetersi di carestie, solitamente accompagnate da virulenze perniciose. Migliora la qualità della vita, si registra un consistente incremento demografico, si intensifica l’attività edilizia privata e la realizzazione di opere pubbliche a servizio della collettività.

A Mendatica, paese dalla profonda e viva fede, dalla instancabile e strenua operosità, il 17 agosto 1760, si riunisce il Generale Parlamento della Comunità, su invito del parroco don Giuseppe Maria Gastaldi, per deliberare sull’opportunità di riedificare la chiesa dei SS.  Nazario e Celso, risultando la parrocchiale tardomedievale poco capiente per una popolazione in costante crescita. Il responso pressoché unanime, un solo voto contrario, risulta favorevole alla ricostruzione dell’edificio religioso, anche per adeguarlo alle indicazioni della Controriforma. Dispone altresì il mantenimento della torre campanaria, per la scansione del tempo, il richiamo alle funzioni e per la segnalazione di pericoli e di necessità.

I domini loci assicurano il compenso alle maestraenze qualificate, l’acquisto di chiavi di volta dalle fonderie di Finale Ligure e di quanto occorre acquisire all’esterno. La popolazione mette a disposizione le molteplici competenze e  collabora nel reimpiego del materiale esistente e nel reperimento di quello di estrazione zonale.     

Il progetto è affidato all’architetto Domenico Belmonte di Chiusanico, interprete  collaudato del barocco ponentino, come testimoniato dall’ importante cappella di santa Maria degli Angeli di Sanremo.

La chiesa riedificata nella sede della precedente, vede l’orientamento modificato: il presbiterio non appare più rischiarato dalla luce dell’alba, ma dai raggi del tramonto, per accompagnare la funzione vespertina, come previsto dalla rinnovata liturgia.

L’esterno, dall’andamento curvilineo, mantiene la pietra a vista, senza decori in facciata, forse per trovare armonia e continuità con il campanile romanico, che esprime forza e solidità nelle pietre possenti e squadrate, leggerezza e raffinatezza nelle bifore contornate da archetti pensili. La sommità della torre viene trasformata con l’inserimento di cuspide ottagonale e archetti nel coronato.

L’interno si compone di ampio atrio rettangolare, aula quadrata con angoli arrotondati, spazioso presbiterio con importante altare al centro e semicircolare coro ligneo in fondo.

Superata la balaustra absidale, alla base dei gradini l’aula assembleare si apre a guisa di braccia spalancate per accogliere, proteggere e guidare i fedeli nel cammino di formazioine e crescita spirituale.

E’ articolata da quattro cappelle angolari e due centrali più ampie e profonde , ben incastonate nello spessore delle strutture murarie perimetrali. 

Ogni cappella propone la riflessione su un tema, introdotto da un versetto biblico, illustrato nel quadro centrale e sottolineato dalla scelta delle statue di gesso e dal bassorilievo accanto al tabernacolo, per formare un unicum organico e completo.

La cura di  ogni cappella è generalmente affidata ad una confraternita, da quando il Concilio di Trento ne riconosce l’esclusiva finalità religiosa e ne vieta una sede diversa da quella parrocchiale, controllata e guidata dal  clero.

La prima cappella a destra dell’altare maggiore, dedicata alla SS. Trinità è riservata alla Confraria del Santo Spirito; la centrale della Madonna del Rosario viene curata dalla Confraternita del Rosario, la più numerosa nel secolo scorso; l’altare del Carmelo, con la Vergine e le Sante, è custodita dalla Compagna del Carmine.

Sul lato opposto, vicino al presbiterio, la cappella dei defunti, con la Madonna Coredentrice, curata dalla Compagnia delle anime; al centro l’Immacolata Concezione, della confraternita dell’Annunziata, il cui oratorio precedente era la cappella della Madonna dei Colombi; in ultimo l’altare della Madonna dei Dolori, ai lati del quale si aprono gli accessi all’organo settecentesco e al campanile.

Ogni quadro assembleare narra una relazione di sguardi tra  terra e cielo, per rimarcare la comunione dei santi, propria dei cristiani: i fedeli ritratti rivolgono gli occhi pieni di fede e e di speranza in alto, i loro sguardi intercettati dai santi intermediari vengono indirizzati alla Santissima Trinità o alla Madonna. La lode e la supplica sono catturate dal viso abbassato della Divinità che avvolge l’uomo con un’espressione di tenerezza e misericordia.

Nella volta sovrastante, a corona dell’affresco centrale riproducente il Salvatore circondato dagli angeli, quattro pannelli raffigurano la presentazione del fanciullo Celso a Nazario, lo sbarco e l’opera, il martirio e la glorificazione dei santi patroni “In exultazione iustorum multa gloria”. 

Gli elementi decorativi, avvicinando la cupola,  spingono gli animi all’elevazione, al distacco dalle cose terrene, alla tensione verso il Cielo.

Procedendo dal basso l’analogia diventa simmetria, la statica sobrietà si trasforma in armonioso movimento, la luce permea stucchi, decori e indorature. Le lesene che separano gli altari laterali mostrano i capitelli lucenti di oro zecchino, come gli sfondali.

Lo spazio ancora frammentato viene unificato dalla ricca trabeazione e dallo spazioso cornicione, che lega tutto l’interno e sorregge la cupola dell’aula e la volta a vela del presbiterio.

Al di sopra sembra regnare la perfezione, preparata da Abramo, il più fedele protagonista della volontà del Padre Eterno, ritratto nei due affreschi laterali all’altare maggiore.

La volta bipartita del presbiterio, sullo sfondo del coro, valorizza la tela ad olio dei santi Nazario e Celso e l’epigrafe di intitolazione della chiesa ai due evangelizzatori, con una ghirlanda di fiori su sfondo azzurro-cielo, per completarsi, attraverso il colmo absidale, con la lucente rappresentazione della SS. Trinità, senso e fine ultimo dell’esistere.  

I padri cappadoci, dottrina cristiana e filosofia

I padri cappadoci, dottrina cristiana e filosofia

L’importanza dei luminari di Cappadocia nella storia della Chiesa

La ricorrenza dei santi Basilio Magno e Gregorio di Nazianzo del 2 gennaio, fornisce una grata occasione per rinverdire la conoscenza dei padri cappadoci, annoverati tra i Dottori della Chiesa.

Costituivano un gruppo di tre dotti monaci del IV secolo, formato da Basilio, Gregorio di Nissa (suo fratello), e Gregorio detto il Nazianzieno. Provenivano dalla regione appartenente oggi alla moderna Turchia, e riuscirono tra le altre cose, a dimostrare ai letterati del loro tempo che il Cristianesimo non è una dottrina contraria alla filosofia, ma porta anche ad un nuovo stile di vita.

Basilio il Grande

Basilio, successivamente definito “il Magno”, fu certamente il più importante fra i tre. Introdotto con il fratello alla fede cristiana dalla nonna Macrina, era figlio di un noto retore e avvocato, mentre suo nonno fu un discepolo di Gregorio il Taumaturgo del Ponto che perì martire durante le persecuzioni di Diocleziano.

Nacque a Cesarea in Cappadocia nel 329. Fu ordinato presbitero all’età di 31 anni. 10 anni dopo, nel 370, alla morte del grande storico e vescovo Eusebio, fu eletto Vescovo di Cesarea, metropolita ed esarca dell’intera regione del Ponto.

Si oppose coraggiosamente e fieramente all’imperatore Valente, il quale sosteneva le tesi ariane. A lui si deve la nascita del primo ospedale della storia dell’umanità. Edificò infatti la cittadella di Basiliade, che ospitava locande, ospizi e lebbrosari.

Scrisse moltissime opere di carattere dogmatico e ascetico, oltre che omelie e discorsi. Con l’amico Gregorio di Nazianzo, col quale condivise la vita conventuale in gioventù, scrisse un importante trattato sullo Spirito Santo in cui si afferma la consustanzialità delle tre Persone della Trinità. Di notevole importanza fu anche la sua antologia origeniana, la Filocalia, anch’essa scritta con Gregorio Nazianzieno.

Altre opere di carattere fondamentale sono : Contro Eunomio, Lo Spirito Santo, Asceticon, e numerose altre.

Morì nel 379, l’anno successivo a quello in cui Teodosio elevò il Cristianesimo a religione di Stato.

Gregorio di Nissa

Gregorio, che successivamente fu definito Nisseno, fu istruito dal fratello Basilio e dopo gli studi fu colto da una crisi spirituale decidendo di non consacrarsi. Ritornato alla fede fu ordinato presbitero e entrò nel monastero di Basilio. Fu eletto Vescovo di Nissa nel 371.

Tra le poche notizie certe su di lui, sappiamo, che pur essendo il più giovane tra i tre Padri Cappadoci, fu quello che con maggiore organicità operò un’assimilazione filosofica della letteratura pagana alla fede cristiana servendosi del metodo paideutico.

Fu anch’egli autore di numerosissime opere di carattere teologico, ascetico e esegetico.

Gregorio di Nazianzo

Nacque a Nazianzo nel 329 e vi morì nel 390. Per tutta la vita fu amico di Basilio Magno. Fu incaricato di redigerne l’elogio funebre. Il padre Gregorio anch’egli, era ebreo appartenente alla setta degli Ipsistari, ma fu convertito dalla moglie Nonna e divenne Vescovo di Nazianzo.

Studiò presso il Didaskaleion e, successivamente, ad Atene fu compagno di studi del futuro imperatore Giuliano l’Apostata contro cui pubblicò l’Oratio IV. Fu Vescovo di Costantinopoli, e in tale veste partecipò al Concilio del 381. Nel 382 divenne Vescovo di Nazianzo e dopo un anno si ritirò in solitudine nella frazione di Arianzo ove morì 8 anni più tardi.

Scrisse una rappresentazione sacra (“La passione di Cristo”), numerosi poemi sacri, ma soprattutto 45 tra discorsi e omelie e 245 epistole che ci trasmettono il suo pensiero. Nel 1568 fu proclamato Dottore della Chiesa da Papa Pio V.

 

La Chiesa madre di tutte le genti

La Chiesa madre di tutte le genti

Viaggio nel significato di un concetto che non è solo una formula

La superficialità con la quale spesso viene affrontato il concetto di Chiesa intesa come madre , deriva da un allontanamento dal suo profondo significato.

Dal momento della sua istituzione, la Chiesa ha ricevuto un mandato che l’ha costituita custode della Fede e l’ha resa responsabile del suo annuncio. Un compito che investe di responsabilità tutti gli appartenenti in modo solidale, affinché il messaggio arrivi a tutti.

La prima parte della vita della Chiesa la vide impegnata soprattutto nell’evangelizzazione, attraverso la trasmissione della Parola e la testimonianza di vita. Ma già nel discorso di Pietro, subito dopo la discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste, notiamo delle esortazioni materne, che si evidenziano nel porgere l’annuncio con dolcezza.

Nella Didaché (διδαχή, dal greco, “insegnamento”, “dottrina”) scritta tra la fine del I secolo e l’inizio del II, troviamo dei richiami all’unità del corpo mistico. È dall’unione di molti chicchi che nasce il pane eucaristico. E dallo stesso documento possiamo trarre notizia di come le prime comunità vedessero la Chiesa come “famiglia”. Al tempo però l’immagine di Chiesa-Madre era delegato probabilmente solo alla sensibilità dei singoli.

Nel VI secolo si prese coscienza della funzione generatrice della Chiesa. La madre biologica genera i figli e li nutre. Così la Chiesa genera attraverso il lavacro della rigenerazione (il Battesimo), e nutre i suoi figli attraverso la Parola e l’Eucarestia.

Fino a quel momento il Battesimo era impartito esclusivamente agli adulti. Da allora si iniziò a praticarlo ai neonati, a cui venivano impartite anche Cresima e Comunione.

Si ritenne successivamente che anche con il solo Battesimo il neonato può avere la Salvezza. Confermazione ed Eucarestia vennero quindi successivamente procrastinate. Fu il Concilio di Trento (1545-1563) a sancire la decisione. L’obbligatorietà per i genitori credenti di battezzare i figli, ancor oggi riconfermata dal Codice Canonico, si ebbe invece nel 1172.

Mater et Magistra

Mirabile è la descrizione della funzione materna della Chiesa fatta da Papa Giovanni XXIII al primo punto dell’introduzione dell’enciclica Mater et Magistra: “1. Madre e maestra di tutte le genti, la Chiesa universale è stata istituita da Gesù Cristo perché tutti, lungo il corso dei secoli, venendo al suo seno ed al suo amplesso, trovassero pienezza di più alta vita e garanzia di salvezza. A questa Chiesa, colonna e fondamento di verità, (Cf. 1 Tm 3,15) il suo santissimo Fondatore ha affidato un duplice compito: di generare figli, di educarli e reggerli, guidando con materna provvidenza la vita dei singoli come dei popoli, la cui grande dignità essa sempre ebbe nel massimo rispetto e tutelò con sollecitudine. Il cristianesimo infatti è congiungimento della terra con il cielo, in quanto prende l’uomo nella sua concretezza, spirito e materia, intelletto e volontà, e lo invita ad elevare la mente dalle mutevoli condizioni della vita terrestre verso le altezze della vita eterna, che sarà consumazione interminabile di felicità e di pace.

La Chiesa viene identificata troppo spesso nell’immaginario popolare solo come istituzione, perdendo di vista la sua vera identità di popolo, e popolo in cammino. Si tratta di un aspetto importante che non può essere ignorato dai cattolici, perché riguarda l’essenza e il significato di un progetto che parte da Cristo.

Lo scopo della Chiesa è dunque quello di essere il tramite, e di proseguire in questa accezione l’opera di mediazione di Cristo. Se Cristo è l’unico mediatore, la Chiesa de fungere da tramite. E ciò, come è facilmente intuibile, esula dalla sua struttura gerarchica, unica al mondo ad avere in cima un “Servo dei Servi di Dio”.

La tradizione delle “veggette”

La tradizione delle "veggette"

La semplicità di cuore e l’arguzia dei nostri avi

Il Natale è da sempre la festa della famiglia, in particolare dei più piccoli, che vivono anche l’attesa dei doni di Gesù Bambino.

In passato, questi regali erano pochi e commisurati alla semplicità ed alla frugalità della vita di allora, ma rappresentavano anche un riscontro del comportamento di ogni bambino, che faceva spesso un attento esame di coscienza, nel timore di ricevere carbone, cenere o bucce di patate … Tutti segnali di un giudizio negativo su come aveva compiuto il proprio dovere.

I costumi severi abituavano al rispetto delle regole ed all’autocontrollo, ahimè oggi rimpianto, ed allora indispensabile per chi si sarebbe trovato assai presto a confrontarsi con le responsabilità del mondo adulto.

Un altro atto della volontà che si richiedeva ai piccoli, era quello di aspettare la Messa di mezzanotte a Natale.

Per aiutarli a vincere la battaglia col sonno, quando le palpebre calavano sempre di più, si rompeva la lunga attesa offrendo loro, ogni tanto, una “veggetta”. Si trattava di castagne bollite, chiamate così perché erano le ultime raccolte prima delle gelate.

Per qualche anno la comunità di Mendatica ha provato a far rivivere e condividere questa antica tradizione offrendo le “veggette”, insieme a cioccolata calda e vin brulè, a chi partecipava alla Messa di mezzanotte. Offrirle dopo, anziché prima della funzione, non rispettava appieno la tradizione, ma avvicinava comunque molti alla nostra Cultura (e chiedo scusa per la forse presuntuosa “C” maiuscola).

“Dopo aver ascoltato la voce dell’Angelo, si dissero l’un l’altro andiamo”

"Dopo aver ascoltato la voce dell'Angelo, si dissero l'un l'altro andiamo"

Ciò di cui la pandemia ci ha resi orfani…

La pastorizia ha sempre ricoperto un ruolo importante per la comunità di Mendatica. Sicuramente dal punto di vista economico, ma anche da quello culturale e identitario.

Il paese era il naturale anello di congiunzione tra la vita dei pastori trascorsa in montagna, nelle malghe e negli alpeggi, e quella spesa “in bandia”, sulla costa, nei mesi freddi.

Quegli uomini, che da sempre praticavano la transumanza, ritardavano il loro viaggio verso i paesi costieri, per trascorrere in famiglia ed in paese le feste del Santo Natale. E forse anche per questo che per Mendatica il Natale ha un sapore ed un fascino davvero particolari.

Partecipare ai riti rafforzava il senso di appartenenza e di comunità, importante per tutti, ma specialmente per coloro che erano costretti a lasciare, per molti mesi dell’anno, i loro luoghi, i loro affetti e le loro relazioni umane.

Ecco quindi il profondo significato, per i nostri pastori, della processione offertoriale durante la Messa di mezzanotte: era la festa della comunità, era la condivisione profonda prima della partenza.

Ed essi, così importanti per l’economia del villaggio, rivivevano il Vangelo, e come nella prima Notte Santa a Betlemme, avevano l’onore di baciare per primi “U Bambin” e portavano in chiesa un agnello.

Il piccolo animale, prescelto nelle loro greggi, aveva il privilegio di ricevere la benedizione, ricordando loro, per lungo tempo, la dolcezza del Natale. Era per tradizione una femmina, e le veniva sempre imposto il nome di Natalina.

Il Natale 2020 è stato orfano di questo suggestivo rito… Le luci della chiesa non si sono spente, non si è spalancata (nel silenzio profondo e emozionante) la porta centrale della nostra parrocchiale, e i pastori, alla luce fioca della loro lanterna non si sono avvicinati all’altare per esprimere il grande stupore di trovarsi di fronte al miracolo della Natività lasciando cadere rumorosamente il loro bastone ed il loro cappello, prima di inginocchiarsi davanti al Bambino.

È stata una rinuncia per tanti di noi… che hanno rivissuto comunque il ricordo di quella processione che avvicina alla chiesa anche chi ha una fede meno forte.

Speriamo che questo “fioretto”, come si diceva una volta, contribuisca a debellare il male che attanaglia il mondo. Perdere la nostra adorazione dei pastori può contribuire a farci sentire più vicini a quanti hanno perso i loro affetti o stanno soffrendo in questo momento.

BUONE FESTE A TUTTI!!!

Il bassorilievo del 1380, un tesoro storico e artistico

Il bassorilievo del 1380, un tesoro storico e artistico

Campeggia sulla facciata della parrocchiale da 640 anni

Tra i tesori artistici e i beni culturali di cui Mendatica è custode e depositaria c’è un simbolo silenzioso, quasi ritroso, ma significativo e confortante. Esso vigila dall’alto la vita del nostro paese. Si tratta del bassorilievo posto sulla facciata della chiesa parrocchiale dei Santi Nazario e Celso.

Questo simbolo cristiano, raffigurante l’Agnus Dei è presente in paese da più di 110 anni prima della scoperta dell’America e ha assistito i mendaighini attraverso gli ultimi 7 secoli di storia. È sempre stato chiamato dagli abitanti “L’agnello di San Giovanni”, riferendosi sapientemente allo stendardo che esso regge.

Non solo ha conosciuto tutte le generazioni che si sono avvicendate sotto il campanile della chiesa così come la vediamo ora, ma evidentemente era presente anche sulla chiesa romanica.

La storia

L’edificazione della chiesa di Mendatica fu terminata infatti nel 1380, e il 16 luglio di quell’anno fu consacrata e intitolata ai Santi Nazario e Celso, che circa 1000 anni prima evangelizzarono la zona.

Un ampliamento e una riedificazione della chiesa furono necessari già pochi decenni dopo. La comunità si dimostrò molto devota e il 4 gennaio 1451 la chiesa parrocchiale venne riconsacrata dopo aver svolto ingenti lavori. A testimonianza dell’importanza di questo luogo di culto, si registra in quell’occasione la presenza a Mendatica del Vescovo Cornelio di Claramonte. Fu accompagnato da Monsignor Gasparo di Licenzio e da Pietro Paolo Arcidiacono e Luogotenente della Diocesi di Albenga.

Come sappiamo seguirà nel XVIII secolo un’altra importante ristrutturazione che renderà l’estetica della chiesa come oggi possiamo ammirarla.

Anticamente l’ingresso della chiesa era posto dove ora sorge il coro. L’abside era invece posto in corrispondenza dell’attuale scalinata sulla piazza.

Il bassorilievo fu sempre recuperato e ora sorge nella posizione in cui possiamo ammirarlo, al centro della facciata.

L’Agnus Dei è uno dei simboli più densi di significato dell’intera cristianità. Si riferisce a Gesù Cristo nel suo ruolo di vittima sacrificale per la redenzione dei peccati dell’umanità, ed è raffigurato mentre regge una croce o uno stendardo crociato. Importante dal punto di vista storico è il fatto che l’Agnus Dei non sia presente nel rito ambrosiano. Questo sta a significare che molto probabilmente nel XIV secolo la chiesa di Mendatica aderiva già al rito latino in quanto appartenente alla Chiesa Locale di Genova. Precedentemente si può addurre l’ipotesi che appartenesse invece al rito ambrosiano perché facente parte della regione Aemilia-Liguria, con capitale Milano.

Questo articolo è stato redatto sulla base degli studi e delle ricerche di Celestino Lanteri e Emilia Lantrua.