Il «culto del Tempio» e il «culto dell’Amore di Dio»

Il «culto del Tempio» e il «culto dell'Amore di Dio»

Ciò che il Signore ci chiede …

Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
(Dalla liturgia).

Celebriamo oggi la festa che ricorda la dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa cattedrale di Roma, considerata madre e capo delle chiese di tutto il mondo.

Il brano di vangelo ci riporta l’episodio della cacciata dei mercanti del tempio. Che senso ha questo episodio? Cosa facevano di male queste persone? Vendevano ai pellegrini gli animali necessari per i sacrifici e cambiavano le monete romane (considerate impure, perché portavano l’effige dell’Imperatore) con le monete degli Ebrei. Cose tutte prescritte dalla legge di Mosè. E allora? Dove sta il male? Che senso ha il gesto di Gesù?

Certo, come sempre quando ci sono di mezzo i soldi si verificavano ingiustizie, i cambiavalute e i venditori di animali se ne approfittavano (ricordiamo che il tempio di Gerusalemme, ai tempi di Gesù, era la maggiore banca del Medio Oriente), c’era un cospicuo giro di soldi attorno ad esso, a tutto vantaggio della famiglia dei sommi sacerdoti. Ma non è certo l’unica volta che Gesù si è trovato di fronte a un’ingiustizia, e non lo abbiamo mai visto passare alle vie di fatto! E allora? Cosa significa tutto questo?

Con la cacciata dei mercanti Gesù non si limita a deplorare le ingiustizie commesse da queste persone, ma mostra che il culto del tempio è oramai finito per sempre. Con questo gesto Gesù inaugura un nuovo modo di rapportarsi con Dio. Al Signore non interessano i sacrifici di animali, Egli vuole il nostro amore, il nostro cuore.

Se facciamo un’offerta, se facciamo un sacrificio, non lo facciamo per comprare la benevolenza di Dio, quasi a metterlo tranquillo per continuare a vivere come vogliamo, ma lo facciamo per esprimere amore e riconoscenza. E come possiamo allora rendere concreto il nostro amore verso di Lui? Ce lo dice il vangelo di Giovanni: «chi mi ama osserva i miei comandamenti» (Gv 14,24).

Il modo di amare Dio, di essergli graditi, è riconoscerlo Signore della nostra vita, è essere docili alla sua volontà. Dio vuole il nostro cuore, non le nostre cose. Queste sono già sue.

Shémà Israel: la domenica dell’Ascolto

Shémà Israel: la domenica dell'Ascolto

Ascoltare mette il cuore in condizione di aprirsi al bene che sconfigge anche la morte

Lo scriba che interpella Gesù aveva percepito che le pratiche rituali non sono sufficienti da sole a portare l’uomo verso Dio nel modo in cui il Padre vuole. Si fa dunque scrupolo di chiedere a Gesù, che riconosce come Maestro, quale sia la cosa più importante, ovvero il Comandamento più rilevante.

La risposta di Gesù è chiara e indica la stretta attinenza tra amare Dio e amare il prossimo.

Ma sono altrettanto significative del brano del Vangelo le due letture che lo precedono nella liturgia di oggi, 3 novembre 2024, tratte rispettivamente dal Deuteronomio e dalla Lettera agli Ebrei.

La prima ci recita la parte iniziale dello Shémà Israel contenuto in uno dei discorsi di Mosè nel Deuteronomio, ovvero quella preghiera che ogni Ebreo osservante recita almeno due volte al giorno e che costituisce le ultime parole della giornata.

Amare Dio con tutte le forze fa emergere l’urgenza dell’amore e ascoltare la Sua Parola vuol dire essere coerenti nell’amore.

Come sappiamo, secondo le risultanze storico-critiche testuali, la Lettera di San Paolo Apostolo agli Ebrei non è una lettera, non è di Paolo e non fu diretta agli Ebrei. In realtà è un sermone, in quanto non ha le classiche caratteristiche epistolari, fu scritta in pseudo-epigrafia (che allora era di uso comune e accettato) dai discepoli di Paolo, e infine era diretta ai primi cristiani provenienti dall’ebraismo.

Aggiunge però al discorso sull’amore la gratuità sacerdotale unica e piena di Gesù.

L’ascolto è dunque il protagonista di oggi nell’insegnamento del Cristo. Quell’ascolto che è preghiera e fa parte di essa quando diviene matura. L’amore è ciò che vince tutto: Gesù ci ha dimostrato che sconfigge anche la morte. Se il male non ha un valore costitutivo di sé stesso in senso ontologico, perché come diceva Sant’Agostino, è assenza di bene, e non può costituirsi ontologicamente un qualcosa che è assenza di qualcos’altro, si deduce che il male si può sconfiggere solo col bene, anzi col Bene, che è solo Dio. Il Bene, nel senso assoluto non comprende guerre, battaglie o violenza, ma l’amore. Ecco perché amare Dio è vincere il Male, e dunque risulta il bene per noi e per il nostro prossimo.

Il Regno di Dio: l’apparentemente piccolo che diventa il «tutto»

Il Regno di Dio: l'apparentemente piccolo che diventa il «tutto»

Nella spiegazione di Gesù c’è la potenza di Dio

«A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami».
E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

(Dalla liturgia)

Le due brevi parabole (quella del granello di senape e quella del lievito e della pasta) hanno in comune la piccolezza degli inizi e l’inaspettata grandezza della conclusione. È la dinamica del regno di Dio: ciò che riguarda Dio ha una vita nascosta in sé.

Tante volte quando si fa qualcosa per il Signore, per la Chiesa, sembra di fare qualcosa di inutile, qualcosa di veramente insignificante. Il Signore ci raccomanda di non scoraggiarci. Il regno di Dio ha una vitalità propria, è la forza di Dio che fa crescere.

Queste parabole ci invitano a non scoraggiarci, a non demordere quando vediamo risultati non all’altezza del nostro impegno e delle nostre aspettative, e a considerare quanto sia importante ogni occasione, ogni incontro.

Una situazione apparentemente insignificante non deve diventare occasione di disimpegno o di rifiuto, perché non sappiamo quali frutti di grazia il Signore saprà trarre da essa.

Le giuste dimensioni delle cose

Le giuste dimensioni delle cose

Gesù ci invita a fare una graduatoria di ciò che è più importante

«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?».
(Dalla liturgia)

«Come mai questo tempo non sapete valutarlo?». È questa la domanda (che suona come un rimprovero) che Gesù rivolge alle folle che lo stavano ad ascoltare. Come mai sapete valutare gli aspetti secondari della vita (come il tempo meteorologico) e invece non siete capaci di giudicare il tempo in cui vivete?

Con queste parole Gesù ci richiama un altro aspetto della vigilanza: valutare le cose che accadono per essere in grado di decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è. In una parola il discernimento.

Non è la semplice osservazione delle cose, degli avvenimenti che accadono. È l’osservazione fatta con lo sguardo di chi riesce a vedere al di là delle apparenze immediate.

Per sapere vedere in questo modo non basta l’intelligenza: occorre anche la dirittura morale di chi si sforza di vivere come piace a Dio e di giudicare le cose secondo il modo di pensare di Dio. Quando consideriamo la realtà con parametri solamente umani non andiamo lontano. Lo sguardo dell’uomo è miope. Vede poco più in là del proprio naso. Lo sguardo di Dio è ampio e penetrante, e sa dare un giudizio vero su ciò che accade.

Vigilare significa anche chiedere a Dio il dono della sapienza, che è il dono che ci permette di valutare ciò che ci accade con gli occhi di Dio, l’unico che vede le cose, le persone e gli avvenimenti per quello che realmente sono e non per quello che appaiono.

L’attesa del Signore: una vita attiva nell’attuazione della Parola

L'attesa del Signore: una vita attiva nell'attuazione della Parola

Gesù ci ha raccomandato di farci trovare «svegli»

«Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.
E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!».

(Dalla liturgia).

Il Signore ci invita ad essere vigili. Essere vigili significa essere attenti, pronti per qualcosa di importante che deve arrivare. Il nostro destino, la nostra vita, non sono racchiusi nei pochi giorni che ci sono dati da vivere su questa terra. Abbiamo un traguardo da raggiungere, e su quello dobbiamo regolare la corsa della nostra vita.

«Siate simili a coloro che aspettano». Il cristiano sa che la sua storia terminerà con un incontro personale con il Signore Gesù, un incontro che sarà anche un rendiconto e un giudizio sulla propria vita, e al quale quindi ci si deve ogni giorno preparare: «siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese».

Le vesti strette ai fianchi ci riportano all’abitudine di chi lavorava la campagna ai tempi di Gesù, o di chi si metteva in viaggio: stingeva la cintura in modo che l’abito si alzasse un po’ e non intralciasse i movimenti. Le lucerne accese ci fanno capire che abbiamo bisogno della luce per capire cosa fare e dove andare. Questa espressione ci riporta da una famosa pagina dell’Antico Testamento, quando Mosè e gli Israeliti stavano per fuggire dalla schiavitù dell’Egitto (Es 12,11). Il messaggio è: non bisogna perdere tempo, non dobbiamo lasciare che qualcosa ci intralci. È troppo importante quello che ci aspetta!

Se la nostra attenzione è rivolta soltanto alle esigenze della vita terrena, se evitiamo, perché troppo duro o faticoso, ogni pensiero su ciò che ci sarà dopo, se le nostre speranze e le nostre energie sono spese solo per le cose di quaggiù (un maggior benessere economico, una vita più serena, una salute fisica migliore…), non solo non siamo veri discepoli di Cristo, ma inganniamo noi stessi. Intendiamoci bene: non è che queste cose non siano importanti. Lo sono eccome, ma non sono tutto. Il vero discepolo di Cristo è uno che sa che la vita è un cammino che è destinato ad una meta, e sul traguardo regola tutta la sua corsa.

Per farsi meglio comprendere Gesù ci porta un esempio preso dalle abitudini delle case signorili di una volta, è un quadretto molto lontano dal modo di vivere attuale. È la figura di una padrone che è andato ad una festa di nozze senza aver lasciato detto nulla circa l’ora del ritorno. Il buon servitore, dice Gesù, resta in piedi ad attenderlo tutta la notte per essere pronto ad aprirgli la porta di casa subito, non appena sente bussare.

Così è di noi. Il nostro Signore, vero Dio e vero uomo, dopo la sua Pasqua è tornato nella gloria dei cieli. È partito ma tornerà, e tornerà nell’ora in cui meno lo aspettiamo. Il nostro compito è di stare desti ed aspettare: nessun giorno della nostra vita deve passare senza il pensiero del ritorno imminente di Cristo. La vigilanza deve essere un atteggiamento di tutta la vita, non solo degli ultimi tempi, anche perché non li conosciamo.

Gesù ci dice un’altra cosa, che nel quadro della parabola è del tutto inverosimile, ma che si avvererà alla lettera per noi, se alla fine della nostra vita ci troverà nella fedeltà e nella vigilanza: «beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e sarà lui a servirli». Cioè noi entreremo nel regno di Dio non come servi, ma come figli del Re, che godranno per sempre della sua intimità.

«Guai a voi!»: un monito potente anche nell’attualità

«Guai a voi!»: un monito potente anche nell'attualità

Un rimprovero a chi pensa di poter fare a meno della Sapienza, che è amore di Dio

«Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito». Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.
(Dalla liturgia).

I rimproveri che in questi giorni leggiamo nei confronti degli scribi e farisei sono rivolti anche a noi. Anche noi, cristiani del XXI secolo, ci macchiamo spesso delle stesse colpe di quegli uomini.

In particolare questa frase sembra diretta a chi ha un compito di insegnamento nella Chiesa: Papa e vescovi certamente, ma anche preti, insegnanti, catechisti, genitori cristiani.

Quando chi deve insegnare la fede di Cristo, la dottrina cristiana, insegna qualcosa d’altro, magari solo le proprie idee, quando ripete la frase: «la Chiesa insegna questo, ma io la penso così», non solo impedisce a chi ascolta di giungere a una conoscenza piena, saporosa, efficace della novità cristiana, ma egli stesso rimane privo da quel sapere che genera amore, che diventa modo di pensare e pratica di vita, che fa vivere bene e apre la porta della vita eterna.

Confraternita Santa Caterina V.M., Mendatica – La preghiera (parte quinta)

Confraternita Santa Caterina V.M., Mendatica - La preghiera (parte quinta)

Le tappe della preghiera. Dal corso di formazione per i Confratelli, svolto al Pastoral Consueling

Abbiamo visto come la preghiera costituisca un linguaggio particolare. Sulle prime potrebbe sembrare un nostro monologo durante il quale chiediamo a Dio ciò che ci serve, attendendoci il più presto possibile di essere esauditi.

Quasi sempre recitiamo formule precostituite, ed è comunque un bene. Ma le “preghierine” che recitavamo da bambini hanno solo il compito di introdurci in un dialogo d’amore col Padre, nel quale accade di ascoltarlo.

Ecco dunque quali sono le fasi per giungere a pregare in modo corretto e completo.

Parole Vuote

Le parole recitate come parte di una routine che si esegue anche solo per tacitare la coscienza, non costituiscono una preghiera completa e compita, ma sono solo una base di partenza.

Monologo

Le formule vengono recitate con attenzione: le parole si assaporano maggiormente. Non c’è però ancora una vera comunicazione: si parla senza ascoltare.

Dialogo

Qui si inizia veramente ad entrare nella preghiera. Il dialogo è prima di tutto con sé stessi. Le parole divengono pesanti e provocano un’attenzione al perdono di noi stessi e degli altri. Il centro della preghiera inizia ad essere il Signore. Carità e Misericordia aumentano. Ci troviamo però ancora nell’ambito della “mente”.

Ascolto

Non siamo ancora giunti alla vetta, ma la qualità è notevolmente cresciuta. Occorre abbassare l’orgoglio e il senso di superiorità ma anche quello di inferiorità. Deve emergere l’umiltà e il cercare in noi la Verità, perché Dio è Verità. Dio ci parla attraverso la mente ma si rivolge anche allo spirito: la Sacra Scrittura, con le sue parole, irrompe nella nostra vita. I pensieri divengono ordinati e cresce il desiderio di restare nella preghiera. Dio legge la nostra vita e ci indica quali sono i nostri veri desideri. Si rafforza la volontà di fare ciò che siamo chiamati a fare. Si avvertono emozioni, forse anche qualche rimorso che ci può far soffrire. È il momento in cui il Signore muove i nostri sentimenti e possiamo formulare propositi concreti. I nostri progetti così formulati ci danno pace e serenità perché sono condivisi col Signore. La memoria allora non ci fa più paura, perché Dio ci fa venire in mente le cose utili del passato e anche gli errori sono visti in chiave di costruzione per il futuro.

Amore

Siamo finalmente in vetta: si raggiunge lo scopo della preghiera. Ogni complicazione viene ridimensionata e si vive in una semplicità e in abbandono assoluti. La comprensione è immediata: non servono più grandi discorsi: ogni cenno è amore, comunione perfetta, complicità totale col Signore. Si vorrebbe restare sempre in questa estasi.

    Il regno diviso e il rifiuto precostituito

    Il regno diviso e il rifiuto precostituito

    Presunzione e superbia fanno chiudere gli occhi di fronte alla Verità

    «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebùl, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio».
    (Dalla liturgia)

    Gesù sta scacciando un demonio, e subito la gente si interroga: come può costui fare una cosa del genere? Subito si scatena la discussione: come può costui comandare al demonio? Sicuramente ci deve essere qualcosa sotto! È Satana stesso che tenta di ingannare, facendo credere quello che non è!

    Ma subito Gesù replica, e mostra l’assurdità di questa opinione: è assurdo pensare che sia Satana a scacciare se stesso! Gesù smaschera l’atteggiamento di queste persone, che nasce da un rifiuto precostituito: chiunque è schiavo delle proprie idee non si lascia convincere neppure dalla realtà dei fatti: io la penso così, e se i fatti mi dimostrano il contrario, tanto peggio per loro!

    La conclusione di Gesù è chiara: Cristo è più forte di Satana, e davanti a questa dimostrazione non si può tergiversare, si deve scegliere: o con Cristo o contro Cristo. Gesù precisa alcuni aspetti della lotta contro Satana: questa non finisce mai, il diavolo, una volta cacciato ritorna!

    Tutta la nostra vita deve essere un combattimento contro lo spirito del male. Sappiamo che il combattimento c’è, ma non ci deve spaventare: sappiamo che se stiamo con Cristo stiamo dalla parte del più forte, di Colui che ha già vinto!

    Confraternita Santa Caterina V.M., Mendatica – La preghiera (parte quarta)

    Confraternita Santa Caterina V.M., Mendatica - La preghiera (parte quarta)

    Dalle giornate di formazione per i confratelli, tenute presso Casa Faci, Pastoral Consueling

    Il perdono è al centro della preghiera: senza perdono non c’è preghiera. Gesù ci esortò ad essere in pace con i fratelli, prima di accostarci a Lui.

    Perdonare, però, non è un’azione che si deve rivolgere solo agli altri: gli psicologi confermano che prima di tutto occorre perdonare e saper perdonare sé stessi.

    Perdonare, come sappiamo, non significa dimenticare, ma il ricordare non deve contenere astio o motivo di rivalsa. Spesso siamo complici di noi stessi e dunque “furbetti”: cadiamo nella trappola che noi stessi tendiamo alla nostra coscienza.

    Ancora gli psicologi ci vengono in aiuto per individuare quattro pericoli fondamentali:

    Negazione del male

    Tendiamo a minimizzare ciò che abbiamo fatto di male, creando delle tesi che ci portano a convincerci che l’azione fatta non è stata cattiva.

    Giustificazione

    È simile alla precedente, ma in questo caso riconosciamo l’azione cattiva cercando di spiegarla in modo da essere in qualche modo scusati.

    Proiezione del male su altri o altro

    Anche qui rifiutiamo di riconoscere il peccato. Anzi, cerchiamo di trasferire la colpa di ciò che è successo su altre persone o su circostanze: non siamo cattivi, ma siamo stati costretti!

    Reazione violenta

    Si verifica quando non siamo pronti a opporre dei motivi immediati per assolverci, e allora scatta la rabbia. Avviene anche quando ci convinciamo così a fondo di essere nel giusto che non ci spieghiamo perché non ci diano ragione.

    Tutte queste circostanze e questi démoni della mente vanno eliminati per pregare in modo corretto e sincero.

    La missione è compito di tutti i cristiani

    Luca riferisce che altri 72 discepoli furono inviati a evangelizzare: il numero delle popolazioni allora conosciute

    Luca riferisce che altri 72 discepoli furono inviati a evangelizzare: il numero delle popolazioni allora conosciute

    In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
    Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
    In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.

    (Dalla liturgia)

    Il brano di vangelo che abbiamo appena letto parla di altri settantadue discepoli. Altri rispetto a chi? Ai dodici apostoli che Gesù aveva inviato in precedenza. Marco e Matteo parlano solo dell’invio degli apostoli, Luca invece ci parla anche di questo invio, di altri settantadue. Come dire che la missione non è riservata al ristretto gruppo dei Dodici, ma è per tutti. Ogni cristiano è tenuto, in modo conforme al suo stato di vita ad essere missionario, ad annunciare il regno di Dio. Settantadue non è un numero scelto a caso: secondo il libro della Genesi è il numero delle popolazioni presenti sulla terra. Come dire che l’annuncio del vangelo è destinato anzitutto al popolo eletto di Israele, ma deve poi raggiungere tutti i popoli.
    «Designò», «li inviò». Come per la missione degli apostoli, anche per questi settantadue discepoli Gesù non lascia ad altri la decisione: è Lui che sceglie, che incarica, che manda. Tutto ciò perché risulti chiaro e incontestabile che nel piano di salvezza ogni autentica missione è un dono dall’alto, e che gli uomini non sono salvati dalla iniziativa degli altri uomini, dal loro buon cuore o dalla loro filantropia, ma dall’amore del Padre.
    Il Signore ci chiede di pregare perché non manchino operai nella sua vigna. Preghiamo perché gli operai siano sempre fedeli ai comandi che hanno ricevuto. Il discepolo non è chiamato a cambiare il vangelo, con la scusa di adattarlo ai bisogni del nostro tempo, ma è un annunciatore che tenta, magari anche riuscendoci poco, di cambiare se stesso per essere un pochino più conforme al vangelo che non cambia.