L’ipocrisia, un male difficile da estirpare

L'ipocrisia, un male difficile da estirpare

Gesù pronuncia parole dure nei confronti degli ipocriti

«Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza».
(Dalla liturgia).

Prosegue l’invettiva di Gesù contro gli scribi e i farisei, che vivono una religiosità tutta basata sull’apparenza, priva di un vero affetto per il Signore e di un reale rispetto per i suoi comandamenti.

Quello che interessa a scribi e farisei è apparire in modo positivo agli occhi degli altri uomini. La loro religiosità, tutta apparente, non li aiuta ad avere un vero e vivificante rapporto con Dio.

Anche noi cristiani, seppure in modo diverso, rischiamo di cadere nello stesso errore. È la cosa più stupida che si possa fare. Perché l’ipocrita, in fondo, dimostra di temere maggiormente il giudizio degli uomini che quello di Dio.

E questo è folle, perché non saranno certo gli uomini ma sarà Dio a giudicarci al termine della nostra vita, e a decidere del nostro destino eterno.

La porta che trasforma

La porta che trasforma

Una porta stretta ti obbliga a essere piccolo

Quando si giunge a Betlemme e ti prepari ad entrare nella grande basilica della Natività rimani senza parole… cerchi un solenne portale e non lo trovi, cerchi la grande porta principale e vedi solo un piccolo passaggio in pietra: basso e stretto!

Gli storici dicono che questa piccola porta è quanto è rimasto di una più ampia, murata e così ristretta e abbassata per evitare che i predatori di ogni appartenenza potessero entrare a cavallo con grave disprezzo del luogo sacro.

È facile scorgere il significato simbolico di quella che è chiamata “la porta dell’umiltà”.
Si entra nel luogo che celebra l’ingresso del Figlio di Dio nella carne degli uomini, dell’Eterno nella storia del mondo facendosi piccoli, come Lui si è fatto infante e povero.
Occorre chinare il capo e la schiena… occorre farsi piccoli per passare attraverso la porta di Betlemme!

Oggi a Gesù viene posta una domanda: “tanti o pochi?”.
È il vizio degli umani di contare, prevedere statistiche, rendere simile all’aritmetica umana l’agire di Dio.
Tanti o pochi, così ragionano gli uomini.

Gesù invece ci parla dello sguardo del Padre.
A lui non interessano né tanti né pochi, non è una questione di numeri ma di trasformazione.

“Sforzatevi” è l’invito di Gesù.
È difficile, è impegnativo ma è possibile… dovete cambiare!
La porta stretta di cui ci parla il vangelo è una porta aperta, è bene ricordarlo.
Non è una porta che indica un numero prestabilito, un numero chiuso di salvati… è una porta stretta che non ammette vie preferenziali, raccomandati, è una porta per tutti, ma tutti devono sforzarsi…

Con sapienza Benedetto XVI ha pronunciato queste parole:
«Che significa questa “porta stretta”? Perché molti non riescono ad entrarvi? Si tratta forse di un passaggio riservato solo ad alcuni eletti? In effetti, questo modo di ragionare degli interlocutori di Gesù, a ben vedere è sempre attuale: è sempre in agguato la tentazione di interpretare la pratica religiosa come fonte di privilegi o di sicurezze.
In realtà, il messaggio di Cristo va proprio in senso opposto: tutti possono entrare nella vita, ma per tutti la porta è “stretta”. Non ci sono privilegiati. Il passaggio alla vita eterna è aperto a tutti, ma è “stretto” perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo» (Angelus, 26 agosto 2007).

Gesù non lascia spazio a facili e felici conclusioni, vi è la possibilità che la porta stretta, ma aperta, a un certo venga chiusa e nonostante le insistenze non si apra più.
È quanto accade agli “operatori di ingiustizia”. Cioè quando poniamo prima di ogni cosa la nostra volontà, il nostro io, la nostra realizzazione.

Quando cioè la nostra presunta “giustizia” non è segnata da una trasformazione profonda del cuore e della vita.
Quando cioè decidiamo che non valga la pena “sforzarci” di vivere una vita diversa.
Quando ci accontentiamo di quello che siamo, pensiamo e facciamo e riteniamo che così vada bene… allora la porta si chiude e noi potremo battere all’infinito ma non ci verrà aperto perché: “non vi conosco, non so da dove veniate!”.

La domanda allora non è tanti o pochi, bensì “trasformati”… accettando un cammino di conversione e cambiamento.

Già… ma qual è allora la misura della porta stretta da cui dobbiamo sforzarci di passare?
La dimensione della porta stretta da attraversare è la Pasqua che Gesù ha vissuto, è la porta stretta della croce che profuma di fatica e risplende di gloria. Lui, e solo Lui, è la porta per entrare in comunione il Padre che ogni uomo cerca.
E non passerai se vorrai entrare grande, potente e sfrontato: devi farti piccolo, accettare che sia Lui a renderti forte. Solo riconoscendo di essere “ultimo”, allora scoprirai per te, inaspettato, il primo posto, secondo la promessa di Gesù.

“Io sono la porta” – ci ricorda Gesù nel vangelo di Giovanni – “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.
Ecco a cosa ci porta la porta stretta: non a una vita angusta, impoverita, triste… ma a una vita piena e abbondante perché donata.
È la vita di Gesù!

E allora raccogliamo l’invito dell’Apostolo: “rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire”.

Né pochi né tanti… ma trasformati!

Difficile, forse; ma non impossibile

Difficile, forse; ma non impossibile

Come può entrare il ricco nel Regno dei Cieli?

«Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
( Dalla liturgia)

L’insegnamento del Vangelo di oggi ci parla delle difficoltà, per un ricco, di entrare nel Regno dei Cieli. Ed è interessante notare come i discepoli si sentano subito toccati sul vivo: «A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”».

Evidentemente il problema è più generale: non riguarda solo la ricchezza materiale, ma riguarda la debolezza di ogni uomo di fronte alle esigenze di Dio. Tutti noi siamo in difficoltà di fronte a quello che Dio ci chiede.

La domanda dei discepoli è posta male: non possiamo salvarci da soli, con le nostre forze. La salvezza è un dono di Dio, con il quale certo possiamo e dobbiamo collaborare, ma non ce lo possiamo dare da soli: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile».

Non dobbiamo scoraggiarci di fronte alle difficoltà che incontriamo nel voler seguire il Signore: lo sforzo della nostra volontà è necessario, ma sappiamo che senza il suo aiuto non ce la possiamo fare.

E questo non ci deve demotivare, anzi, sapendo che Dio veglia sul nostro cammino ed è pronto ad aiutarci se solo lo vogliamo, ci libera dall’ansia di dover fare tutto da soli e dal timore di non farcela.

Il senso del perdono

Il senso del perdono

Perdonare per essere perdonati …

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». (Dal Vangelo secondo Matteo).

Il comportamento del servo spietato sarà sbagliato nei modi, ma nella sostanza non ci sembra così scorretto: è giusto che i debiti vengano pagati. Ma allora quale è il senso di questa parabola?

Il nocciolo del discorso sta nella sproporzione tra i due debiti. Il primo, i diecimila talenti, sono una somma enorme, dell’ordine di grandezza del debito pubblico di uno Stato. L’altra somma invece è un importo modesto. Il debitore dei diecimila talenti non avrebbe mai potuto estinguere il suo debito. Il padrone lo ha davvero graziato: all’epoca il debitore veniva venduto come schiavo insieme ai suoi familiari per ristorare i diritti del suo creditore. Ma questo non gli ha impedito di comportarsi in modo spietato con il suo debitore.

Tante volte noi non riusciamo a perdonare le offese ricevute. E tante volte chi ci ha fatto qualche torto non merita davvero il nostro perdono. Ma noi non dobbiamo perdonare perché chi ci ha offeso se lo meriti, ma perché riconosciamo, con onestà, che il Signore ci ha perdonato tante e tante volte i nostri peccati.

E se non ci avesse perdonati, e se non continuasse a farlo, l’inferno non ce lo leva nessuno (almeno a me, ma non credo proprio di essere l’unico…).

In forza di queste considerazioni possiamo perdonare chi ci ha fatto del male. E quanto più avremo consapevolezza di essere peccatori, di aver mancato gravemente nei confronti di Dio, tanto più ci verrà facile perdonare.

Se però non riconosciamo di essere peccatori, se abbiamo perso il senso del peccato (o meglio, se abbiamo perso il senso del nostro peccato, perché del peccato degli altri il senso difficilmente lo si perde!), ci sentiremo sempre in credito con tutti, Dio compreso.

E allora perdonare diventa quasi impossibile.

Ma allora il nostro creditore – Dio – non potrà perdonarci, perché la misericordia di Dio non può essere disgiunta dalla giustizia. E saremo costretti a pagare le conseguenze dei nostri peccati.

La parabola del chicco che muore

La parabola del chicco che muore

“Chi ama la propria vita la perde …”

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà»
(Dal Vangelo secondo Giovanni).

Celebriamo oggi la festa del martire San Lorenzo.
Martire è una parola che deriva dalla lingua greca e significa «testimone». Il martire testimonia l’amore per Dio.

Oggi la parola martire viene usata impropriamente per indicare una persona ingiustamente uccisa. Non è questo il senso vero della parola. Martire è chi viene ucciso in odio alla fede cristiana, e viene ucciso proprio per testimoniare questa fede.

Possiamo chiederci: dove trova il suo senso il martirio, la decisione di lasciarsi uccidere per testimoniare la fede? La risposta è semplice: nella morte di Gesù, nel suo sacrificio supremo d’amore, consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita. Il martire segue il Signore fino in fondo, accettando di portare la propria croce, cioè di fare la volontà di Dio e non la propria.

Il brano di Vangelo ci dice che dobbiamo odiare la nostra vita in questo mondo, per conservarla per la vita eterna. Cosa significa questo? Che dobbiamo disprezzare la nostra vita, che insieme alla fede è il più grande dei doni che il Signore ci ha fatto? No di sicuro! Odiare, nel linguaggio del Vangelo, significa non preferire una cosa ad un’altra. In questo senso vanno letti gli ammonimenti di Gesù «chi non odia suo padre, sua madre, la sua stessa vita, non è degno di me!».

Non significa che dobbiamo disprezzare tutto questo, ma che dobbiamo avere chiaro che nessun affetto terreno, neppure quelli più giusti e santi della famiglia, neppure l’amore per la nostra vita, deve essere preferito all’amore per Dio, il solo che può darci la salvezza, e al quale tutti i giusti affetti terreni devono essere indirizzati.
La chiamata al martirio non è la stupida, ostinata esaltazione di chi mette inutilmente a repentaglio la propria esistenza, ma è l’abbandono di chi si fida pienamente di Dio, che ci da molto di più di quello che ci chiede, fosse anche la vita stessa.

La nostra fede porta alla Salvezza

La nostra fede ci porta la Salvezza

Gesù ci chiede solo di aprirgli le porte

In quel tempo, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola.
Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore, – disse la donna – eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita”.
(Dal Vangelo secondo Matteo)

La pagina del Vangelo di oggi ci mostra un aspetto del mistero di Dio, un suo atteggiamento che ci lascia spesso molto amareggiati, e che spinge molte persone ad allontanarsi dalla religione. Spesso Dio, di fronte alle disgrazie che colpiscono un essere umano, ci appare distratto e indifferente.
Veniamo al testo. Il comportamento di Gesù ci stupisce. Egli si sta dirigendo verso Tiro e Sidone, dunque lontani dalla Terra Santa. Una donna cananea, di quella regione, una straniera per Gesù, si fa avanti a chiedere qualcosa. E non chiede una sciocchezza: chiede qualcosa relativo a un problema molto grave: la figlia soffre perché è crudelmente tormentata da un demonio.
Gesù la ignora: non la considera minimamente, non la degna neppure di una parola. Quando i suoi discepoli gli chiedono di intervenire addirittura la insulta pesantemente: le dice che non ha intenzioni di aiutare gli stranieri e la paragona a un cane.
È una durezza voluta, è una durezza ostentata. Perché Gesù fa così? Lo capiamo dalla fine del brano. Gesù, in questo modo molto brusco e deciso mette alla prova la fede della donna. La donna non si arrende davanti al silenzio, non si arrende quando Gesù le rinfaccia la sua condizione di straniera, di cui lei stessa non aveva tenuto conto, non si arrende davanti all’insulto tanto grave quanto gratuito. Insiste. Con perseveranza, con fiducia. E questa fiducia, questa fede, la salva.
Gesù ha messo alla prova la sua fede. E la donna ha tenuto duro. Non ha rinunciato davanti all’atteggiamento di Gesù.
Cosa dice a noi questo brano? La situazione di questa donna è una situazione comune a molti di noi, quando ci troviamo a combattere contro qualche disgrazia, e sentiamo il Cielo indifferente, quando non addirittura ostile. Dobbiamo insistere, come la vedova importuna di un’altra pagina del Vangelo. Dobbiamo continuare ad avere fede, anche quando tutto sembra perduto.
Niente in realtà è mai perduto, quando conserviamo la fede, anche di fronte alla morte nostra o a quella di una persona cara: l’orizzonte a cui dobbiamo guardare non è quello della vita che trascorriamo su questa terra. È quello della vita eterna. La vita vera, quella che non finirà mai. Una volta guadagnata quella, non importa avere perso tutto il resto, anche la vita fisica.
Il Signore ci chiede di mantenere la fede, di non scoraggiarci di fronte alle avversità della vita. Il Signore non ci ha abbandonato. Anche quando tutto va male, anche quando dobbiamo affrontare una prova molto difficile e dolorosa Lui c’è. E se anche non sembra averci dato ascolto, in realtà veglia su di noi, perché vuole salvarci, perché non vuole perderci nella dannazione eterna, perché ci vuole con Sé per sempre nella gioia del Paradiso.

Gesù non ci lascia soli. Mai!

Gesù non ci lascia soli. Mai!

Obbedire al Signore, anche quando ci pare fuori dalle nostre capacità

In quel tempo, avendo udito [della morte di Giovanni Battista ], Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte.
Ma le folle, avendolo saputo, lo seguirono a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Ed egli disse: «Portatemeli qui».
E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini
“. (Dal Vangelo secondo Matteo).

«Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». Gesù ordina ai suoi discepoli qualcosa di impossibile.

I discepoli, dopo un primo comprensibile momento di titubanza («Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!»), fanno quello che Gesù comanda, anche se, umanamente, sembra davvero qualcosa di irragionevole. E il risultato si è visto: tutti hanno avuto cibo in abbondanza al punto da avanzarne dodici ceste piene.

Obbedire al Signore anche quando sembra che ci chieda troppo, anche quando sembra che ci chieda qualcosa al di fuori della nostra portata, non significa rinunciare alla ragione, non significa fare della fede un salto nel buio. Significa sapere che, quando lavoriamo per il Signore nel modo in cui piace a Lui non siamo soli. Egli è con noi e ci garantisce che i frutti, presto o tardi, non potranno mancare.

I genitori di Maria Santissima

I genitori di Maria Santissima

I nomi dei nonni materni di Gesù non compaiono nei Vangeli canonici

I nomi dei genitori di Maria non sono ricordati nei vangeli canonici, cioè in quelli che la Chiesa insegna essere stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ma sono riportati da un vangelo apocrifo.

Diversamente dai quattro vangeli canonici, i vangeli apocrifi sono opere scritte più tardi, più lontane quindi dagli avvenimenti della vita di Gesù, e spesso raccontano vicende storicamente non attendibili, e comunque di essi la Chiesa non ci garantisce l’attendibilità.

La tradizione dei nomi dei genitori di Maria è comunque molto antica, risale ad un’opera di circa diciannove secoli fa.

Comunque, più che sulla certezza sul nome dei genitori della Vergine Maria e sui racconti legati ai loro nomi, possiamo chiederci perché la Chiesa ci fa celebrare la festa dei genitori di Maria, e quindi dei nonni di Gesù.

Celebrare la festa dei nonni di Gesù significa inserire la storia di Gesù, l’incarnazione di Dio, nella storia concreta di una famiglia umana, di una genealogia. L’incarnazione di Dio che si fa uomo passa attraverso la storia degli uomini.

L’incarnazione non è un qualcosa di astratto, ma si è realizzata sul serio, per mezzo di persone che, come noi, hanno un nome e un cognome. È una storia di uomini, ma è anche una storia di Dio.

Attraverso le normali vicende di un’ordinaria famiglia, arriva il dono di Dio che supera ogni pensiero e ogni aspettativa.

Maria è stata concepita dai suoi genitori come è stato concepito ogni essere umano, ma Dio, sin da quell’istante, in previsione dei futuri meriti di Cristo, la ha preservata da ogni macchia di peccato.

I genitori di Maria, si chiamassero Anna o Gioachino o meno, sono considerati santi tanto dalla Chiesa d’Occidente che da quella d’Oriente. Essi vissero santamente la loro normale esistenza, ma sicuramente non pensavano di concepire una figlia preservata dal peccato originale, e di diventare poi i nonni di Gesù, vero uomo e vero Dio!

Hanno vissuto nella santità quotidiana la loro esistenza, non cercando cose eccezionali, ma cercando di fare la volontà di Dio nelle vicende di ogni giorno. Cosa ci insegna questa vicenda? Cerchiamo di vivere nelle nostre giornate in grazia di Dio, evitando il peccato e cercando di fare la sua volontà. Il resto lo fa Lui, e spesso sono cose tanto belle e tanto grandi che neppure riusciamo ad immaginarle, perché l’agire e il pensare di Dio è molto più grande di ciò che possiamo aspettarci ed immaginare.

Il seme e il terreno

Il seme e il terreno

Gesù è in grado di superare le nostre aspettative

“Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti” (Mt 13,9).

Questa parabola, ad ascoltarla bene, in effetti è angosciante: il seminatore butta il seme dappertutto, ma in tre casi su quattro il suo lavoro è del tutto inutile, il seme viene sprecato, e anche dove il seme da frutto, lo da in misura diversa: il trenta, il sessanta, il cento per uno.

Quindi dà frutto pieno solo in un numero molto limitato di casi. E questo non perché il seminatore sia avaro nel gettare il seme, oppure lo getti in modo diseguale, e non perché il seme sia in qualche modo difettoso. Il difetto appartiene al terreno, che siamo noi.

Il seme caduto sulla strada, sul terreno sassoso o in mezzo alla spine, per motivi diversi, non porta alcun frutto. Quello caduto sul terreno buono invece sì.

Quando si lascia agire la parola di Dio in noi senza ostacolarla o indebolirla il frutto è sorprendente.

Chi si intende un poco di agricoltura sa che un terreno può produrre frutti moltiplicando per cinque il seme gettato, nei casi più fortunati il dieci. Ma il trenta, il sessanta, addirittura il cento sono percentuali irrealistiche in natura.

Il Signore, se lo lasciamo agire, se non glielo impediamo con il nostro comportamento ingiusto, ci da molto di più di quello che immaginiamo. Non escludiamolo, o con un rifiuto esplicito o riducendo la vita di fede ad un’esperienza puramente emozionale o sociale, senza effetti nella vita concreta.

Lasciamolo fare e il Signore ci darà una ricompensa molto maggiore di quella che possiamo immaginare.

La Parola del Signore supera il “sabato”

La Parola del Signore supera il "sabato"

Il bene dell’uomo viene prima della regola

“Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,
e io le conosco ed esse mi seguono. Alleluia”.

Quello che si rimproverava ai discepoli di Gesù non era il raccogliere delle spighe nel campo di un altro (cosa lecita), ma il farlo in giorno di sabato.

La regola del sabato era (ed è) rigorosissima per gli Ebrei osservanti: la si può violare solo in casi eccezionali, in casi di grave pericolo.

Gesù però ribalta questa regola: il bene dell’uomo viene prima della regola del sabato, e non solo per i casi eccezionali. La legge dell’amore vale più della legge di Mosè. E Gesù la insegna affermando la propria autorità: «il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

Non è più la legge di Mosè, interpretata dalle scuole dei rabbini ad insegnarci che cosa Dio vuole e cosa non vuole, ma è Gesù, vero uomo e vero Dio l’unico che ci può illuminare su Dio e sulla sua volontà.

E la sua parola è l’unica che possa insegnare con autorità che cosa è bene e che cosa è male agli occhi di Dio, e quindi che cosa è bene e che cosa è male per la vita di ogni uomo.