Avere il cuore duro è non mettere in pratica il messaggio di Gesù

Avere il cuore duro è non mettere in pratica il messaggio di Gesù

Un atteggiamento che spesso attribuiamo agli altri, ma che è responsabilità per i cristiani

«Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore» (Cf. Sal 94 (95), 8ab) (Dalla liturgia)

La parola di Dio è per tutti, sempre. Ma ci sono alcuni passi della Bibbia che toccano alcune persone in modo particolare. Il brano di oggi sembra proprio riguardare chi è più vicino alla vita di fede, ai sacramenti, alle pratiche di pietà.

Molto spesso noi, che giustamente pratichiamo e ci diciamo cristiani, pensiamo e viviamo come chi cristiano non è, come se la preghiera, la pratica cristiana, la lettura e la meditazione di testi religiosi non avessero alcuna influenza sulla nostra vita concreta, sul modo di gestire i nostri affetti, il nostro lavoro, i nostri affari, il modo in cui trascorriamo il tempo libero.

Gesù ci ammonisce: nel giorno del giudizio saremo trattati peggio degli altri.

La pratica cristiana è cosa buona, necessaria e doverosa, ma non deve essere un qualcosa di bello, che ci riempie il cuore in qualche momento, ma che rimane staccato dalle cose normali della vita.

La fede, i sacramenti, la preghiera devono influire sul nostro normale modo di vivere e di pensare, aiutandoci a pensare e a vivere come piace a Dio. Altrimenti è cosa del tutto inutile.

L’odio e il male, perché?

L'odio e il male, perché?

Il male ha mille sfaccettature, ma il denominatore comune è il comportamento dell’uomo

«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe».
(Dalla liturgia)

Questo brano di vangelo sembra tratto dalle cronache dei nostri giorni. Anche oggi – nel silenzio complice dei giornali e delle televisioni – centinaia, migliaia di cristiani vengono perseguitati e anche uccisi per la fede. «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome».

Com’è possibile che il Dio dell’amore susciti odio nelle persone? È possibile, perché molti uomini non si lasciano illuminare dal tranquillo splendore della verità di Cristo, è possibile perché molti uomini non accettano di lasciarsi amare da Dio.

La testimonianza del Vangelo suscita spesso l’odio anche nelle persone più care perché il modo di pensare e di vivere secondo Cristo non è il modo di pensare e di vivere secondo il mondo, tanto che un cristiano dovrebbe farsi qualche domanda se il suo modo di pensare e di agire – specie sui grandi temi della difesa della vita, dell’educazione, della sessualità – è simile al modo di pensare e di agire di chi cristiano non è.

E se è una persona in vista dovrebbe insospettirsi quando chi non è cristiano parla troppo bene di lui. Forse è perché piace più al mondo che a Dio.

Rabbì, insegnaci a pregare

Rabbì, insegnaci a pregare

Vedendo pregare Gesù, gli apostoli si accorgono che c’è un modo particolare di parlare con Dio

«Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Dalla liturgia).

Il Vangelo di oggi ci parla della preghiera. Può sembrare un aspetto non tanto rilevante della nostra vita: ci sono molte altre cose che ci sembrano più importanti! In realtà Gesù non la pensa così. Per lui la preghiera è un aspetto fondamentale della sua vita, senza preghiera la sua vita non potrebbe essere come è.

I discepoli, vedendolo pregare, vedendo il suo rapporto di intimità vitale con il Padre, gli chiedono di insegnarlo anche a loro: pregare è contagioso, è un’attività benefica che fa del bene non solo a noi, ma anche a chi ci circonda.

Gesù non insegna ai suoi discepoli (e a noi) una nuova formula da aggiungere ad altre formule di preghiera. Piuttosto ci insegna uno stile, una modalità, che va bene per ogni tipo di preghiera. Infatti Gesù esordisce dicendo. «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole».

Cosa fanno i pagani di così negativo? I pagani hanno paura delle divinità, per cui si inventano delle formule per tenersele buone. Si prega dio (o gli dei che siano) per propiziarselo, un po’ come si farebbe con una persona potente e temuta, con la quale è bene mantenere buoni rapporti. Ma è un rapporto solo esteriore, di convenienza. È come se si dicesse alla divinità: «adesso ti faccio un sacrificio, una preghiera, di do qualcosa, non farmi succedere qualcosa di negativo e lasciami vivere in pace, che la mia vita me la gestisco io».

Ma le religioni pagane sono solo invenzioni di uomini. I loro dei non esistono, sono creazioni della fantasia. Solo Gesù ci mostra la verità sull’unico Dio vivo e vero. E ci dice chi è Dio: anzitutto è Padre. Ci vuole bene, e vuole essere presente nella nostra vita. Vuole che noi lo amiamo, lo onoriamo e ci fidiamo di Lui. Per questo la preghiera all’unico vero Dio deve essere anzitutto una preghiera di lode e di affidamento. Anche di richiesta, certo, ma è la richiesta fatta da un figlio a un papà, non da un suddito a un sovrano potente e capriccioso.

La preghiera del Padre Nostro è una preghiera di amore e di fiducia. Sono questi i sentimenti che Gesù ci insegna a coltivare nei nostri rapporti con Dio.

La crisi ambientale è connessa a quella umana

La crisi ambientale è connessa a quella umana

Papa Francesco, ecologia e cultura dello scarto

Più volte e a tutti i livelli, Papa Francesco si è dimostrato preoccupato circa le condizioni del nostro pianeta e di conseguenza dell’habitat in cui l’uomo vive.

La denuncia è stata portata anche all’ONU e dunque all’attenzione dei potenti della Terra.

Nelle riflessioni del Papa emerge una stretta attinenza anche con l’aspetto spirituale e religioso. Bergoglio ha rilevato infatti quello che nella sua enciclica Laudato Sì traspare come “Vangelo della creazione”.

In Genesi, ricorda il Papa, i protagonisti della creazione sono tre: Dio, l’uomo e la terra. Le constatazioni oggettive sono due:

  1. Dio è stato escluso, e non figura né nei progetti né nelle considerazioni progettuali
  2. Il rapporto tra uomo e ambiente è divenuto conflittuale.

Si è affermato un utilitarismo dalla vista corta, ovvero poco attento alle implicazioni future, che mira esclusivamente al tornaconto immediato.

C’è inoltre da rilevare che questo “tornaconto” coincide con quello dei potenti, i quali, grazie alle disponibilità economiche possono pilotare scelte politiche, sociali e, naturalmente economiche.

Lo scienziato John Freeman Dyson ebbe a dire, tra il provocatorio e l’amaro, che la scienza sta diventando il produttore di giocattoli per ricchi, e che invece di soddisfare i bisogni, li crea. Un esempio? I viaggi su Marte per turisti.

Nel rapporto conflittuale tra uomo e natura si verificano delle situazioni innaturali. Le risorse (il nome dovrebbe evocare fattori positivi) sono divenute (invece) un problema. Si è affermata la “Cultura dello scarto”, la quale non si limita a gettare risorse, ma viene applicata anche agli uomini: chi non ha voce (feto, malati, disabili, anziani, ecc.) viene soffocato all’altare di un utilitarismo egoista. La vita diviene un accessorio da indossare o dismettere come meglio si crede.

Le soluzioni che vengono proposte, non comprendendo Dio, si basano pesantemente sulla denatalità. Si pensa infatti di risolvere tutto cercando di restare in pochi.

Questa mentalità è pericolosamente contraria ad ogni espressione di libertà e di fratellanza, e di conseguenza (in politica) mina anche l’aspetto democratico.

Il Papa ha anche invocato più volte il ricorso alla sussidiarietà. Lo sviluppo, e ancor più uno sviluppo che sia anche sostenibile, è necessario, ma non può oggettivamente essere imposto. La strada è dunque quella della sussiedarietà, ovvero il mettere in grado tutti di potersi gestire in modo autonomo.

In questo tipo di futuro sostenibile, devono entrare tutti, perché lo squilibrio nella società favorisce anche lo squilibrio in natura, e quest’ultimo distrugge l’ambiente.

Aiutare i popoli a raggiungere la capacità di sviluppo, con spirito cristiano e recuperando Dio, non è elemosina, ma una convenienza per tutti.

Il miracolo è sempre funzionale a qualcosa di più importante

Il miracolo è sempre funzionale a qualcosa di più importante

Le sue vie non sono le nostre vie: il corpo come mezzo di per giungere alla vita eterna

«Non avete letto questa Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?». (Dalla liturgia).

Se chiedessimo ad un certo numero di persone quale è il beneficio maggiore ricevuto dal paralitico del brano di vangelo che abbiamo appena ascoltato, possiamo essere sicuri che la quasi totalità direbbe che è stata la guarigione fisica. Dalla lettura del brano però Gesù sembra non pensarla così.

La prima cosa che fa, quando vede il paralitico, è dire: «ti sono rimessi i tuoi peccati». Gesù ha operato la guarigione fisica solo dopo, e specifica che è stata operata per dimostrare che Egli ha il potere di rimettere i peccati.

Non è la guarigione fisica il primo pensiero di Gesù. Egli ritiene la liberazione del peccato la cosa più importante. La paralisi del corpo impedisce il normale svolgersi della vita, interrompe o indebolisce i rapporti tra gli arti e il cervello, ma il peccato è qualcosa di peggio, che paralizza la vita dello spirito, che interrompe, o indebolisce, il rapporto con Dio. La paralisi del corpo esclude da una completa fruizione della vita di questo mondo, il peccato, come ci dice la prima lettura, può escluderci dalla vita eterna.

Oggi generalmente non si pensa che il peccato faccia male. Quando si dice che oggi si è perso il senso del peccato, si intende dire che abitualmente non pensiamo che non osservare gli insegnamenti che Dio ci ha dato sia qualcosa di negativo. Siamo abituati a pensare che il peccato non abbia conseguenze: «ognuno è libero di fare quello che vuole», si pensa generalmente. L’unico limite alla mia libertà è il rispetto della libertà altrui, ma una volta che non ledo i diritti degli altri, posso fare quello che voglio.

Non è così: il peccato fa male, e può uccidere. Non il corpo ma l’anima. Il peccato lieve (veniale) indebolisce la grazia di Dio in noi, il peccato grave (mortale) la uccide addirittura. E noi lo dobbiamo temere più di ogni altra cosa, perché non dobbiamo temere coloro che uccidono il corpo, ma colui che può far perire il corpo e l’anima (Mt 10,28).

Il Signore opera raramente una guarigione fisica, succede ma è raro. Egli invece ci guarisce dal peccato ogni volta che, pentiti e disposti a cambiare, glielo chiediamo. Anzi, ha istituito un rimedio semplice, facilmente fruibile per guarirci da quella malattia dell’anima che è il peccato: il sacramento della confessione. E per questo è opportuno farne uso, farne un uso serio e frequente.

Oggi in pochi si confessano, ancora meno sono coloro che si confessano bene. È una conseguenza della perdita del senso del peccato. Non crediamo di avere nulla da rimproverarci davanti a Dio. Ma questo non ci rende più liberi, più sereni. Anzi.

In modo direttamente proporzionale alla perdita del senso del peccato aumenta il senso di colpa. Senso del peccato e senso di colpa sono due cose diverse: il primo è la consapevolezza di avere mancato alla legge di Dio (ho bestemmiato, ho perso Messa alla domenica, ho mancato contro la purezza…), l’altro è il senso di insoddisfazione generico e inconcludente che nasce da un senso di inadeguatezza (non sono una buona madre, sono una cattiva persona…).

Il senso del peccato è positivo, ci aiuta a chiedere perdono, a migliorarci, a guarire. Il senso di colpa è negativo: ci rende ansiosi e insicuri. Quando in una persona viene meno il senso del peccato, ecco che generalmente aumenta il senso di colpa.

Perdere il senso del peccato non solo mette in pericolo la vita eterna, facendoci vivere abitualmente in peccato mortale, ma rovina la nostra esistenza terrena, rendendoci schiavi di inutili e distruttivi sensi di colpa.

L’incontro delle due madri

L'incontro delle due madri

Il suggello al compimento dell’Antico Testamento in Cristo

«Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo».
(Dalla liturgia)

La Visitazione di Maria Vergine a sant’Elisabetta è molto di più di un gesto di buona creanza, di un gesto che porta un aiuto materiale. Questa visita simboleggia con grande semplicità l’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Testamento.

Le due donne, entrambe incinte, rappresentano infatti l’attesa e l’Atteso. L’anziana Elisabetta simboleggia Israele che attende il Messia, mentre la giovane Maria porta in sé l’adempimento di tale attesa, a vantaggio di tutta l’umanità.

Nelle due donne si incontrano innanzitutto i frutti del loro grembi: Giovanni e il Cristo. L’esultanza di Giovanni nel grembo di Elisabetta è il segno del compimento dell’attesa: Giovanni esprime la sua gioia perché Dio è davvero venuto a visitare il suo popolo, non l’ha abbandonato alla schiavitù della morte. Nell’Annunciazione alla Vergine Maria l’angelo Gabriele aveva annunciato a Maria la gravidanza di Elisabetta, sterile e anziana, come segno dell’onnipotenza di Dio. La sterilità e l’età avanzata si erano trasformate in fertilità.

Elisabetta, accogliendo Maria, riconosce che si sta realizzando la promessa fatta da Dio all’umanità, ed esclama: «Benedetta sei tu tra le donne e benedetto è il frutto del tuo grembo». Benedetta tu tra le donne è un’espressione che ci riporta a Giaele e a Giuditta, due donne dell’Antico Testamento, due donne guerriere che avevano combattuto per liberare il loro popolo dalla schiavitù. Adesso questa espressione è rivolta a Maria: Maria è una donna pacifica, ma anch’ella sta liberando il suo popolo e l’intera umanità da una schiavitù ancora più pesante: quella del peccato e della morte.

Giovanni Battista esulta nel seno della anziana madre. I Padri della Chiesa hanno visto in questo sussultare di Giovanni nel grembo di Elisabetta un riferimento alla danza che il Re Davide aveva fatto davanti all’Arca dell’Alleanza quando questa stava per entrare a Gerusalemme. L’arca dell’alleanza era un contenitore, una grossa scatola, in cui erano contenuti gli oggetti che ricordavano l’attenzione di Dio per il suo popolo: le Tavole della Legge, un po’ della manna raccolta nel deserto, e il bastone di Aronne.

Giovanni danza davanti a Maria, che è la vera, definitiva Arca dell’Alleanza: nel suo grembo non sono contenute cose che ricordano l’amore di Dio, ma è contenuto il Figlio di Dio.

La festa della Visitazione ci ricorda anzitutto questo: che il Signore viene a visitarci perché si prende cura di noi. E si prende cura di noi perché ci ama. La venuta di Cristo realizza non solo l’attesa dell’antico popolo di Israele, ma realizza anche l’attesa che ciascuno di noi ha nel suo cuore, il desiderio di una vita piena, gioiosa. Il desiderio che la nostra umanità sia pienamente realizzata. Il desiderio di una vita che vada oltre la morte. Tutto questo è venuto a realizzare Gesù nella sua venuta tra noi.

La festa di oggi ci riempie di speranza, proprio perché ci fa capire che il Signore non ci abbandona al male, e che la nostra vita non è un susseguirsi di eventi casuali, ma è lo svilupparsi di un progetto di amore. Maria è colei che è stata scelta per realizzare tutto questo.

Affidiamo a Maria i bisogni e le necessità della nostra vita: come si è presa cura dei bisogni della cugina Elisabetta così saprà prendersi cura delle necessità della nostra anima.

Questa Chiesa da amare e conoscere

Questa Chiesa da amare e conoscere

Prendendo spunto dal titolo del libro di Giuseppe Militello

Il titolo del libro del professor Don Giuseppe Militello, docente di Ecclesiologia, (“Questa Chiesa da amare e conoscere“) offre molti spunti di riflessione.

Se si ascoltano i numerosi commenti che la gente rilascia per strada, nelle discussioni, e soprattutto sui social, dove la “barriera” di schermo e tastiera garantisce uno “scudo” dietro cui sentirsi al riparo dall’essere osservati, emerge che l’idea che si ha della Chiesa è distorta ed è molto distante da quando potrebbe essere se la si conoscesse o la si frequentasse.

In genere si intende “Chiesa” l’edificio di mattoni o pietra, o in molti casi l’istituzione romana.

Queste convinzioni sono totalmente errate. Per capire veramente e in modo corretto cos’è la Chiesa occorre far riferimento al suo nome stesso, che deriva da ἐκκλησία (ekklēsìa) termine greco che si traduce in “assemblea”.

La Chiesa è dunque l’assemblea, ovvero la riunione dei fedeli, i quali svolgono il compito di adorare, ringraziare, pregare, invocare Dio, per compiere il percorso terreno in vista della soluzione escatologica (la vita eterna).

Tutte le critiche rivolte eventualmente a Papi, Vescovi, Sacerdoti o diaconi, sono personali, e quindi non intaccano il significato di Chiesa.

Il Papa è il Vicario di Cristo, successore dell’apostolo Pietro a cui Gesù ha affidato la custodia della Chiesa e della Fede, ma non ha accezioni divine. In quanto uomo il Papa può sbagliare, ma gli eventuali errori non vanno attribuiti alla “assemblea” dei fedeli, e quindi alla Chiesa.

Gesù non ha abbandonato la sua “assemblea”, ma ha promesso che avrebbe mandato lo Spirito Santo, e lo ha fatto.

Confondere quindi la Chiesa con opere degli uomini, soprattutto quando non capiamo i motivi di certe scelte delle istituzioni, è un grave errore e di riflesso mette in dubbio l’opera dello Spirito Santo.

L’incarico dato da Cristo alla Chiesa non è affatto banale, e la responsabilità dei Papi è pesante. La Chiesa deve convogliare verso Cristo le richieste umane di mediazione, in quanto con l’Incarnazione, Gesù è l’unico mediatore di Salvezza.

Questo è il fondamentale: indirizzare verso la Salvezza. Non è saggio dunque fermarsi a discutere su come l’istituzione vaticana intende svolgere questo compito, ma è importante invece concentrarsi sull’obiettivo.

Un’altra accusa che viene rivolta alla Chiesa è quella inerente a certi comportamenti deprecabili e a volte anche imperdonabili di qualche suo membro istituzionale. Fermo restando che il peccato perpetrato da chi dovrebbe essere da esempio è più grave che altri, questo resta un peccato fatto da un uomo. Sarebbe assurdo contestare l’idea per colpa dell’uomo. Sarebbe come ripudiare la democrazia nel caso in cui un Presidente o un Re fossero infedeli.

Il libro di Militello spiega attraverso l’approfondimento della Lumen Gentium la bellezza della Chiesa, e invita soprattutto a conoscerla. Non si può amare senza conoscere, ma è altrettanto vero che senza conoscere è stupido il rifiutare.

Alla base di molte critiche e fraintendimenti c’è proprio la scarsa conoscenza, o, peggio, l’impressione di conoscere solo attraverso luoghi comuni o apparenza. Parlare bene o male, elogiare o criticare qualcosa che non si conosce non è saggio, non è corretto e forse neppure intelligente.

Amare è conoscere

Amare è conoscere

Conoscere Dio è seguire la Sua parola, e significa amarlo

«Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse».
(Dalla liturgia)

La vita eterna consiste dunque nel conoscere Dio? E’ solo un’operazione dell’intelletto? No. Nel linguaggio della Bibbia la conoscenza e l’amore sono legati a doppio filo: si può amare solo ciò che si conosce, e si conosce veramente solo ciò che si ama.

La conoscenza e l’amore sono due facce della stessa medaglia, tanto che per definire l’unione coniugale, che è l’unione più stretta che ci può essere tra due esseri umani, si usa la parola «conoscere».

Il nostro sforzo, in questa vita terrena, deve dunque essere duplice: conoscere Dio, attraverso la sua parola, il catechismo, e tutto ciò che ci fortifica in una sana conoscenza delle cose del Signore, e amare Dio. Come? Facendo la sua volontà: «Chi mi ama osserva i miei comandamenti». Così potremo avere, già in questa vita, un assaggio della pace e della gioia di Dio, e potremo un giorno essere accolti nella beatitudine eterna.

Maternità è collaborazione con Dio, auguri a tutte le mamme

Maternità è collaborazione con Dio, auguri a tutte le mamme

La vita come bene più prezioso

Che la vita sia un bene prezioso è una frase che non incontra contestazioni, ma che purtroppo ai nostri giorni è soggetto ad una retorica pericolosa.

Le contraddizioni che intercorrono tra considerare la vita sacra e accamparsi il diritto di scegliere se far nascere oppure no un bambino, è evidente e ricorrente.

In realtà il concetto fondante di maternità viene spesso sminuito, mentre dovrebbe facilmente essere considerato il valore più alto in assoluto presente su questa terra.

Di fatto costituisce l’esempio più chiaro e esplicito della collaborazione tra Dio e l’Umanità. La donna è stata scelta per essere la più stretta collaboratrice della volontà di Dio, che esprime di fatto nella continuazione della specie umana.

Sebbene la Chiesa abbia giustamente affiancato alla procreazione l’amore tra i coniugi, come fondamento del matrimonio cristiano, essa ricopre un ruolo fondamentale nell’universo.

Si tratta della partecipazione con consapevolezza alla prosecuzione della presenza dell’uomo sulla terra: una responsabilità che innalza l’essere umano a doveri sublimi. È di fatto l’atto che sancisce la maturazione dell’Uomo.

Un uomo e una donna maturi e consapevoli conoscono i propri doveri e li accettano.

La donna è elevata al più alto grado di considerazione e assume una posizione preminente.

Le leggi naturali che Dio ha consegnato all’Uomo assegnano alla donna il ruolo fondamentale che determina la vita, ad immagine della Santa Vergine, Mamma di tutte le mamme, che portò in grembo il Figlio di Dio pur sapendo che una spada gli avrebbe “trapassato l’anima”.

Per questo e per mille altri motivi gli auguri a tutte le mamme del mondo giungano con l’amore più sentito.

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Approfondire le Scritture smentisce anche dei luoghi comuni

La conoscenza superficiale delle Scritture ha portato attraverso i secoli a convinzioni equiparabili a veri e propri luoghi comuni.

Complice la scarsa precisione di chi evidentemente ha utilizzato il titolo o le citazioni dei testi senza particolare puntualizzazione, in una grande fetta di credenti si sono insinuate convinzioni errate, proliferando nel tempo e divenendo scontate.

Due tra i più macroscopici esempi sono l’Apocalisse e il Libro di Giobbe. La prima costituisce l’ultimo libro del Nuovo Testamento e chiude di fatto la Rivelazione, a cui nulla si può aggiungere. Il secondo risulta al momento il più antico tra i testi della Bibbia essendo stato datato nel periodo che intercorre tra il 1900 e il 1700 a.C.

Apocalisse

Apocalisse deve il suo titolo al termine greco ἀποκάλυψις (Apokalupsis) che significa Rivelazione. Si ritiene scritto da Giovanni apostolo, ma testualmente l’autore si cita all’interno dell’opera: si chiama in effetti Giovanni e si trova nell’isola di Patmos.

Si tratta di un testo difficile e complesso sia nella traduzione che nell’interpretazione proprio perché si identifica in un genere letterario specifico (appunto “apocalittico”) che comprende una vasta simbologia, una trasmissione di concetti per immagini.

Non parla di una catastrofe come lo si ritiene normalmente, tanto da far divenire il termine “apocalisse” sinonimo di immane sciagura, ma rivela in senso escatologico quanto avverrà alla fine dei tempi.

Alcune immagini sono forti e prepotentemente indicative, ma il significato complessivo porta ad un’espressione profetica e non certo negativa.

Libro di Giobbe

Quante volte noi stessi abbiamo pronunciato la frase “pazienza di Giobbe”? Ebbene, può sembrarci strano ma Giobbe fu paziente, ma non subì passivamente tutte le prove a cui fu sottoposto.

In realtà fu un uomo abbastanza sfortunato in quanto preso di mira dal demonio, dopo aver ottenuto per questo il consenso di Dio, a patto che il maligno non togliesse a Giobbe la vita.

Fu dunque sottoposto ad ogni genere di patimento sia fisico che psicologico che morale, e sopportò tutto pazientemente finché un giorno la sua rabbia esplose.

Giobbe, allora, se la prese un po’ con tutti, persino con Dio, e a nulla valsero neppure le raccomandazioni dell’Onnipotente che si presentò a lui dopo che Giobbe lo ebbe preteso.

Solo quando Dio lo mise di fronte alla sua condizione di “essere umano”, Giobbe prese coscienza del Timor di Dio e improvvisamente si tappò la bocca con le mani, per significare che a Dio non si deve e non si può replicare.