Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Approfondire le Scritture smentisce anche dei luoghi comuni

La conoscenza superficiale delle Scritture ha portato attraverso i secoli a convinzioni equiparabili a veri e propri luoghi comuni.

Complice la scarsa precisione di chi evidentemente ha utilizzato il titolo o le citazioni dei testi senza particolare puntualizzazione, in una grande fetta di credenti si sono insinuate convinzioni errate, proliferando nel tempo e divenendo scontate.

Due tra i più macroscopici esempi sono l’Apocalisse e il Libro di Giobbe. La prima costituisce l’ultimo libro del Nuovo Testamento e chiude di fatto la Rivelazione, a cui nulla si può aggiungere. Il secondo risulta al momento il più antico tra i testi della Bibbia essendo stato datato nel periodo che intercorre tra il 1900 e il 1700 a.C.

Apocalisse

Apocalisse deve il suo titolo al termine greco ἀποκάλυψις (Apokalupsis) che significa Rivelazione. Si ritiene scritto da Giovanni apostolo, ma testualmente l’autore si cita all’interno dell’opera: si chiama in effetti Giovanni e si trova nell’isola di Patmos.

Si tratta di un testo difficile e complesso sia nella traduzione che nell’interpretazione proprio perché si identifica in un genere letterario specifico (appunto “apocalittico”) che comprende una vasta simbologia, una trasmissione di concetti per immagini.

Non parla di una catastrofe come lo si ritiene normalmente, tanto da far divenire il termine “apocalisse” sinonimo di immane sciagura, ma rivela in senso escatologico quanto avverrà alla fine dei tempi.

Alcune immagini sono forti e prepotentemente indicative, ma il significato complessivo porta ad un’espressione profetica e non certo negativa.

Libro di Giobbe

Quante volte noi stessi abbiamo pronunciato la frase “pazienza di Giobbe”? Ebbene, può sembrarci strano ma Giobbe fu paziente, ma non subì passivamente tutte le prove a cui fu sottoposto.

In realtà fu un uomo abbastanza sfortunato in quanto preso di mira dal demonio, dopo aver ottenuto per questo il consenso di Dio, a patto che il maligno non togliesse a Giobbe la vita.

Fu dunque sottoposto ad ogni genere di patimento sia fisico che psicologico che morale, e sopportò tutto pazientemente finché un giorno la sua rabbia esplose.

Giobbe, allora, se la prese un po’ con tutti, persino con Dio, e a nulla valsero neppure le raccomandazioni dell’Onnipotente che si presentò a lui dopo che Giobbe lo ebbe preteso.

Solo quando Dio lo mise di fronte alla sua condizione di “essere umano”, Giobbe prese coscienza del Timor di Dio e improvvisamente si tappò la bocca con le mani, per significare che a Dio non si deve e non si può replicare.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi …”

"E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi ..."

La profondità del Vangelo e la difficoltà di descriverla in parole umane

Dalla lettura del Vangelo traiamo infiniti spunti: è come una miniera inesauribile. E questa realtà risulta ancora più sorprendente se consideriamo che a parole non si riesce ad esprimere tutta la profondità del messaggio.

Le varie traduzioni dai testi antichi incontrano inoltre il problema di esprimere nei verbi delle lingue nazionali tutta la forza che il redattore ha voluto concentrare sui termini usati, i quali erano probabilmente a loro volta insufficienti in relazione alla potenza del messaggio.

Prendiamo ad esempio quello che è riconosciuto come uno degli inni più sublimi dell’intera letteratura mondiale: il Prologo al Vangelo di Giovanni.

A parte i primi tre versetti, che esprimono in poche ma dense parole la pre-esistenza di Cristo e introducono il pensiero trinitario, troviamo successivamente il motivo di constatare quanto si perda nel leggere le Scritture senza un’adeguata conoscenza di esse.

Nel versetto 14 del Prologo (Gv 1,14) vengono utilizzate espressioni verbali significative. In primis constatiamo che “il Verbo SI FECE carne”. Nessun intervento esterno: è il Logos stesso, del quale ci è stato detto al versetto 1,1 che è Dio, che di sua iniziativa si incarna. Generosamente e in piena libertà.

La traduzione “venne abitare in mezzo a noi”, invece, non rende interamente giustizia al significato, in quanto il redattore intendeva qualcosa di ancora più profondo. La formula usata non è infatti “venne ad abitare”, ma un verbo che nel Nuovo Testamento figura esclusivamente qui e in 4 altri versetti dell’Apocalisse: “Eskenosen”. Si tratta dell’auristo del verbo “piantare la tenda”. L’auristo è infatti un modo verbale greco che indica un’azione conclusa nel passato, ma che protrae le sue conseguenze ancora oggi.

“Piantare la tenda” richiama l’Antico Testamento, e precisamente il momento in cui Dio decise di frequentare con il segno esterno della nube, la tenda del convegno, e di guidare il popolo eletto verso la Terra Promessa.

Nella formula utilizzata da Giovanni c’è quindi l’intenzione di farci capire che con l’Incarnazione, Gesù-Dio ci guida direttamente verso verso la Vita Eterna. Da parte nostra però è necessaria l’accoglienza. La nube si posava sulla tenda, e il popolo si arrestava nel suo cammino per riposare. Quando la nube si innalzava, il popolo la seguiva docilmente.

Nel dirci che il Verbo ha piantato la tenda in mezzo a noi, si vuole anche spiegare che è necessario restare all’interno del percorso che Dio ha tracciato.

Credere è indispensabile, ma non basta

Credere è indispensabile, ma non basta

Cristo è venuto nel mondo affinché crediamo e mettiamo in pratica la sua Parola

«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate». (Dalla liturgia).

Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui. Per salvarci occorre credere in Lui.

Credere, lo sappiamo, non significa solo ritenere che alcune cose (ciò che diciamo nel Credo) siano vere. Questo sì, certamente è necessario. Ma non basta. Dobbiamo cercare di compiere ciò che il Signore ci comanda.

Conoscenza e azione sono legate tra loro. Dio ci manda la luce per farci capire ciò che è bene, per farci capire che Dio ci ama e ci è vicino, ma chi opera il male questa luce non la vuole, proprio perché mostra la malvagità della propria vita.

Non possiamo illuderci di credere in Dio e vivere nel male, lontani dalla sua grazia, in una condizione abituale di peccato mortale. In questo modo rifiutiamo la luce di Dio. E la rifiutiamo proprio perché mette in mostra la malvagità del nostro agire. Chiediamo al Signore di aiutarci a vivere come piace a Lui.

Dio non ha mandato il suo Figlio per condannarci ma per salvarci. Chiediamogli di aiutarci ad accogliere la sua luce nella nostra vita.

La logica del Regno

La logica del Regno

Le sue vie non sono le nostre vie

«In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
(Dalla liturgia).

«In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». L’affermazione di Gesù è espressa in modo molto solenne: «In verità, in verità io ti dico», è l’espressione che nei Vangeli è riservata alle grandi rivelazioni. E qual è questa rivelazione? Che per entrare nel regno di Dio occorre accogliere il modo di pensare (e quindi di agire) di Dio. C’è sicuramente un preciso riferimento al Battesimo («se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio»), ma il nascere dall’alto significa anche accogliere il modo di pensare di Dio. Il primo dei doni che lo Spirito Santo ci offre è quello della sapienza, che è il dono che ci permette di vedere la realtà con gli occhi di Dio. Per questo ci viene detto: «quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito», perché il ragionare e il vivere in base alle sole categorie di questo mondo non ci permette di entrare nel regno di Dio. Questo non è solamente riferito alla vita eterna, ma riguarda anche la vita di quaggiù: se non riusciamo a ragionare secondo la logica di Dio, e ci ostiniamo a pensare e a vivere secondo la logica del mondo, non riusciremo ad avere luce nella nostra vita, non riusciremo a capire il senso di ciò che ci accade, non riusciremo a vivere in pienezza la nostra esistenza, ma ci limiteremo a sopravvivere, passando la vita a rincorrere ciò che non può darci né la pace né la gioia.

La Fede non si vive solo con l’intelletto, ma col cuore

La Fede non si vive solo con l'intelletto, ma col cuore

Anche noi possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus

«Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.
(Dalla liturgia).

Facciamoci caso: i due discepoli di Emmaus, Cleopa e il suo compagno, conoscevano già tutto quando, amareggiati e rancorosi, si allontanavano da Gerusalemme per andare chissà dove.

L’incontro con il viandante (che poi si è rivelato essere Gesù) non ha dato loro qualche notizia nuova. Conoscevano già la testimonianza delle donne, la tomba vuota, persino la visione degli angeli che affermano che Gesù è vivo. Sapevano già tutto. Ma questa conoscenza è stata inutile finché non hanno fatto una vera esperienza del Signore risorto.

Allora tutto è cambiato. Gesù li ha prima istruiti sulle sacre scritture, facendo loro capire come ogni passo della Bibbia è indirizzato lì, alla morte e resurrezione del Figlio di Dio, e poi ha spezzato il pane. In sostanza ha celebrato la Messa nei suoi due momenti: la liturgia della parola e quella eucaristica.

Avendo fatto una vera esperienza del Signore il cuore deluso ha ricominciato ad ardere nel petto, le loro menti si sono illuminate e i loro occhi si sono aperti, facendo loro comprendere quella realtà che era già chiara davanti a loro, ma che essi, prima di fare questa esperienza, non erano in grado di riconoscere.

Anche noi possiamo fare questa esperienza. Noi difficilmente incontreremo Gesù che cammina per strada, ma questo non è necessario. Anche noi possiamo fare un’esperienza viva e vitale del Signore innanzitutto partecipando bene alla Messa.

Se pensiamo di vivere la fede in modo soltanto intellettuale, limitandoci a ragionare su di essa, non arriveremo a nulla, ci porterà solo alla delusione e all’amarezza, come è successo ai due discepoli prima di incontrare Gesù. Ma se faremo una vera esperienza di Lui, amando Dio e i fratelli, con una vita ricca di preghiera, con una vita morale ordinata, ricevendo bene e con frequenza i sacramenti, allora anche il nostro cuore arderà nel petto e i nostri occhi si apriranno, permettendoci di comprendere il senso della nostra vita e di essere, pur nei dolori e nelle difficoltà della vita, nella pace e nella gioia di Dio.

Gesù, figlio di David

Gesù, figlio di David

Perché Gesù è chiamato così? Le genealogie di Matteo e Luca

Tra i tanti appellativi con cui viene indicato Gesù c’è anche quello di “Figlio di David”.

La discendenza da questo re è importantissima per gli ebrei in quanto definirebbe il Messia, e a maggior ragione lo è per noi cristiani.

David, successore del re Is-Baàl e predecessore di Salomone, nacque a Betlemme nel 1040 a.C. circa, e rappresenta una chiave fondamentale in quanto da lui deve discendere l’atteso Messia. Questo legame è evidenziato dalla profezia che troviamo in Isaia 11, che anticipa che dalle radici di Iesse nascerà un virgulto su cui si poserà lo Spirito del Signore.

Nel Vangelo di Matteo si traccia una genealogia teologica di Gesù, che si compone di 3 tappe, ciascuna delle quali conta 14 generazioni. È evidente la sottolineatura dell’evangelista in relazione al significato che i numeri 3 e 7 (quest’ultimo sottomultiplo di 14) rivestono nella mentalità ebraica. Il 3 richiama la perfezione, e per noi cristiani anche la Santa Trinità, mentre il 7 è indice di completezza.

Perché allora Matteo fa riferimento al numero 14? Occorre ricordare anche il rilievo che per gli ebrei assume la simbologia numerica. La numerazione ebraica viene espressa con le prime lettere dell’alfabeto. Il nome David (דָּוִד) in ebraico, lingua consonantica, è composto dalle lettere daleth (d), vau (v) e ancora daleth, le quali esprimono anche i numeri 4, 6 e 4, la cui somma dà 14. Ripetendo per tre volte il numero quattordici l’evangelista afferma in modo imperativo un legame indiscutibile tra i due nati a Betlemme. Matteo dunque cita 42 generazioni tra David e Gesù. Di fatto abbiamo 14 generazioni tra Abramo e Davide, 14 generazioni tra Davide e Ieconia (Yehoaqim) figlio di Giosia, e infine 14 generazioni, dopo l’esilio, tra Ieconia e Gesù.

Questo ricorso alla simbologia che ricorre col numero 14 si trova anche nella genealogia di Luca, il quale si sforza di dare alla sequenza delle generazioni una forza storica oltre che teologica. In questo caso le generazioni citate sono 77, ovvero 7 volte 11. Le generazioni nominate da Luca infatti non si fermano a David ma arrivano fino ad Adamo e a Dio.

Da notare che Luca specifica col suo elenco che la discendenza di Gesù da David non passa attraverso i primogeniti, in quanto il Figlio di Dio avrebbe come progenitore Natham, ovvero uno dei figli di David, ma non da Salomone. Questa distinzione è importante perché risulta che Gesù non discende da re di Israele che sacrificarono agli idoli.

I Vangeli danno dunque testimonianza della legittimità dei titoli di re, sacerdote e profeta che sono i requisiti del vero Messia.

Un altro aspetto teologico interessante che rileviamo nella genealogia elencata da Matteo, è che in soli quattro casi si cita la moglie con cui un discendente ha generato il proprio figlio in linea dinastica. Tamar, Racab, Rut e Betsabea (quest’ultima citata come moglie di Salomone ed ex moglie di Urìa, ma non menzionata) erano donne straniere. È una evidente indicazione al fatto che la salvezza portata da Gesù è per tutti i popoli.

L’Altare della Reposizione

L'Altare della Reposizione

Perché viene allestito, le tradizioni e il significato quello che comunemente si chiama “il Sepolcro”

L’Altare della Reposizione, comunemente chiamato dai fedeli “sepolcro” è il luogo dove viene conservata l’Eucarestia dopo la Santa Messa vespertina del giovedì, chiamata “in Coena Domini” in ricordo dell'”ultima cena” consumata da Gesù insieme agli Apostoli, prima della Passione.

Secondo la Liturgia l’Altare della Reposizione non deve coincidere con l’Altare Maggiore e viene addobbato in modo solenne per permettere ai fedeli l’Adorazione.

Il “Sepolcro” viene disallestito al pomeriggio del Venerdì Santo, in quanto si riprende la distribuzione l’Eucarestia, che dalla sera del giovedì è sospesa.

Attorno ai “Sepolcri” sono sorte numerose pie tradizioni, come ad esempio l’uso di visitare 7 Altari della Riposizione in 7 chiese diverse. Il numero 7, oltre a richiamare il concetto di “infinito” per la tradizione ebraica, è in questo caso utilizzato in ricordo dei “7 Dolori della Santa Vergine”.

Nella tradizione ligure sono vivi i “cartelami”, ovvero cartoni che raffigurano pie scene e personaggi biblici. In Italia Centro-meridionale invece si è soliti riempire alcune ciotole (“lavureddi”) di semi di grano o legumi, che vengono poste al buio e innaffiati in modo che al Giovedì Santo presentino filamenti di tutti i colori.

Per i fedeli l’Altare della Reposizione è un modo che aiuta l’Adorazione del Cristo Risorto e la meditazione. Spontaneamente, in molte occasioni, i visitatori lasciano offerte sul luogo dell’allestimento e accendono candele per ottenere le Grazie.

Sicuramente il “Sepolcro” avvicina il cuore dei fedeli a quello di Gesù, col ricordo della sua Passione e del Sacrificio di Salvezza.

Nella foto è illustrato l’Altare della Reposizione allestito dai fedeli mendaighini presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso a Mendatica.

Al centro è posta una croce creata con spighe di grano, che simboleggia il Sacrificio di Nostro Signore, ma anche il suo farsi cibo di Vita Eterna per noi.

Sulla sinistra si nota una corona di spine. La Passione di Gesù è stata reale, e Lui l’ha voluta vivere interamente come uomo. Non a caso però, la corona è collocata sopra un telo bianco che rappresenta il sudario.

Nella tradizione ebraica del tempo, il corpo di un defunto veniva avvolto in un lungo telo che ne ricopriva l’intero corpo sia nella parte anteriore che posteriore, come mostra chiaramente la Sacra Sindone. La corona di spine, segno di sofferenza terrena, viene a contatto con la divinità di Gesù-Dio: il sudario afflosciato è il segno della Resurrezione. Con la Resurrezione, Gesù Uomo-Dio sale alla destra del Padre nel mistero della Trinità Unico Dio. La sua ascesa è rappresentata dalla forma della radice d’albero che tende verso il cielo.

Alla base della Croce c’è un altro cestino che questa volta contiene una sacchetta aperta dalla quale fuoriescono i 30 denari del triste prezzo a cui Giuda ha venduto il Salvatore del mondo.

Accanto alla Croce, in un cestino, troviamo il pane, il grano e l’uva, che ricordano l’Eucarestia. È proprio col grano macinato e con l’uva schiacciata, ovvero due alimenti triturati e sacrificati, che si ottengono il Pane e il Vino destinati a diventare il Corpo di Cristo.

Avere fiducia in Dio

Avere fiducia in Dio

Credere significa ascoltare e mettere in pratica

«Disse allora Gesù: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato”» (dalla liturgia).

«Morirete nel vostro peccato», «morirete nei vostri peccati». Per due volte Gesù ripete questa frase, che ha un qualcosa di definitivo. Come se per quei giudei non vi fosse più possibilità di redenzione.

La prima volta parla di peccato al singolare, la seconda volta al plurale. Certamente le forme di peccato sono molteplici, di diversa natura e gravità, ma tutte hanno in comune la radice: non credere nell’Io Sono del Signore Gesù, cioè non credere che Egli è Dio, e la sua parola, se ascoltata e messa in pratica, può darci la salvezza, può darci cioè la pace e la gioia nelle difficoltà di questa vita, può illuminare il senso di questa nostra esistenza terrena, e può aprirci le porte della vita eterna.

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Chiarezza su quattro termini che spesso vengono confusi

Nel discorrere comune, spesso si fa confusione fra tre termini che in realtà indicano cose diverse. Vediamo dunque di fare un minimo di chiarezza tra le parole sacerdote, frate e monaco.

Il Sacerdote

È un chierico che viene consacrato al secondo grado della Ordinazione Sacerdotale, che prevede i livelli di Diacono, Presbitero e Vescovo. Sono sacerdoti dunque tutti coloro che ricevono questo Sacramento, e sono ordinati alle celebrazioni. Possono celebrare l’Eucarestia, confessare e svolgere tutte le mansioni che sono loro affidate dal Vescovo, unico grado che possiede la pienezza del sacerdozio quale successore degli Apostoli.

Possono essere ordinati sacerdoti gli uomini in stato di celibato o vedovanza, dopo aver ottenuto l’approvazione del Vescovo ed avere superato un periodo adeguato di studi.

Ci si rivolge al Sacerdote con l’appellativo di Don che precede il suo nome.

Il Monaco

Si tratta di un termine che risale al basso medioevo e deriva dalla contrazione nel latino monachus dei termini monos (solo) e achos (dolore).

Appartiene a una comunità monastica e vive in un convento, dedito alla preghiera e alla penitenza. È consacrato e formula i voti di castità, povertà e obbedienza, ma può essere o anche non essere sacerdote.

La figura del monaco è profondamente cambiata dalle origini medioevali, in cui si identificava con l’anacoreta, che viveva solo e distante dalle comunità.

Oggi i monaci vivono infatti in conventi che seguono una regola propria della loro istituzione.

In senso stretto e in via generale, il Monaco che è Sacerdote, celebra all’interno della sua comunità.

Al Monaco ci si rivolge antecedendo al suo nome l’appellativo di Frà, e spesso di Padre

Il Frate

Il termine deriva dal provenzale fraire (fratello) e ha le sue origini nel medioevo in conseguenza alla profonda riforma della vita religiosa provocata da San Benedetto e da San Francesco d’Assisi.

Anche i frati sono consacrati, fanno voto di povertà, obbedienza e castità, e vivono in convento. Rispetto ai monaci hanno però la caratteristica di svolgere una vita attiva nella solidarietà e nell’apostolato.

Il frate può essere sacerdote, oppure rimanere allo stato di semplice consacrato che comunque vive le regole interne della sua comunità.

Viene chiamato, come il Monaco, antecedendo al nome l’appellativo di Frà o spesso di Padre.

I frati possono essere anche, con il permesso del proprio superiore, essere chiamati dal Vescovo a amministrare una parrocchia.

In virtù di un decreto di Papa Francesco, del febbraio 2022, anche un frate non sacerdote potrà essere nominato Superiore Maggiore del proprio ordine.

Il Canonico Regolare

Quando un sacerdote viene delegato dal Vescovo a reggere una Parrocchia che è distinta dal termine di Canonica, assume il titolo di Canonico.

Solitamente le Parrocchie Canoniche sono a capo di Collegiate. Il titolo viene mantenuto solo in virtù e per la durata dell’incarico.

Alcuni sacerdoti, però, decidono di vivere seguendo una Regola assunta da qualche comunità autorizzata. In questo caso si ha il Canonico Regolare, ovvero il Canonico che segue una determinata regola.

È una figura poco nota, che ha vissuto momenti di diffusione altalenanti, e che fu percorsa dalla Comunità di San Vittore nel medioevo.

I Canonici Regolari sono Sacerdoti e formalmente vestono in bianco.

Nelle parole del Battista il legame tra Natale e Pasqua

Nelle parole del Battista il legame tra Natale e Pasqua

Ogni volta che nominiamo Gesù come Agnello di Dio, ne indichiamo nascita, morte e resurrezione.

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”».
(Dalla liturgia).

L’espressione usata dal Battista, «agnello di Dio», è un espressione molto famosa. Ma qual è il suo vero significato?

L’agnello era la vittima sacrificale, l’animale usato per i sacrifici di espiazione. È l’innocente che paga per i peccati di altri. Le parole del Battista ci portano sul Calvario: Gesù è l’Innocente che, senza peccati, paga per le colpe di noi tutti.

Siamo nel tempo di Natale, e questa immagine ci riporta al Venerdì Santo.

Che senso ha tutto questo? In realtà il Natale rimanda alla Pasqua, le fasce in cui Maria ha avvolto Gesù richiamano il gesto con cui il corpo morto di Gesù deposto dalla croce è stato avvolto nella Sindone, Maria che depone il Figlio nella mangiatoia richiama la deposizione nella tomba. Nella Pasqua trova compimento ciò che nel Natale si è cominciato.