Gesù che dorme nella tempesta indica i tempi di Dio

Gesù che dorme nella tempesta indica i tempi di Dio

La nostra natura limita la comprensione del disegno divino

Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva.
Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia.

(Dalla liturgia).

L’azione di Gesù ci mostra la potenza della sua divinità. Dio ha creato gli elementi naturali, ed è in grado di dominarli a suo piacimento.

Ma la scena di Gesù che dorme sulla barca mentre il mare è in tempesta ci mostra anche uno spaccato della nostra esistenza: talvolta sembra che la barca della nostra vita stia per affondare, che le difficoltà ci sovrastino, che non sappiamo più davvero cosa fare.

E allora ci viene spontaneo pensare: «Ma il Signore che fine ha fatto? Perché mi ha abbandonato?».

In quei momenti pensiamo a questo episodio. Gesù, sulla barca della nostra vita c’è e anche se talvolta sembra dormire è perché i suoi tempi non sono i nostri, e i suoi progetti su di noi sono diversi dai nostri.

Non perdiamo la speranza nei momenti difficili, e continuiamo a invocare il suo aiuto con fiducia. Prima o poi, quando riterrà che sia il momento giusto, farà cessare le tempeste attorno alla barca della nostra vita.

Essere cristiani significa aderire a uno stile di vita e di pensiero

Essere cristiani significa aderire a uno stile di vita e di pensiero

Non chi dice “Signore, Signore”

Avete inteso che fu detto: «Amerai il tuo prossimo, e odierai il tuo nemico». Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli.
(Dalla liturgia)

Se essere cristiani non incide sul nostro modo di pensare e di agire, è perfettamente inutile essere cristiani.

Se la nostra fede non fa sì che noi pensiamo ed agiamo in modo diverso da chi cristiano non è, significa che non abbiamo fede.

La fede ci deve spingere ad agire, a fare quello che se non avessimo fede non faremmo. La fede senza le opere è morta, ci dice la Lettera di San Giacomo.

Quando un cristiano, e ancor più chi ha una qualche autorità nella Chiesa, sui grandi temi della vita (si pensi per esempio all’esercizio della sessualità, alla difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, alla difesa della vita dal concepimento alla morte naturale) pensa, parla e agisce abitualmente come chi cristiano non è, dovrebbe seriamente interrogarsi sulla consistenza della propria fede.

Dio è verità, bontà, misericordia e quindi giustizia perfetta

Dio è verità, bontà, misericordia e quindi giustizia perfetta

Non va dimenticato neppure uno di questi aspetti

«Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno».
(Dalla liturgia)

L’insegnamento de Signore tocca la sostanza del nostro vivere quotidiano, vuole che incida nella nostra vita di ogni giorno.

La legge del Signore deve essere amata prima ancora di essere rispettata, deve essere osservata con il cuore. Non la si può applicare come una legge fiscale, che viene obbedita perché si è obbligati a farlo, ma si cerca di farlo nel modo meno oneroso possibile. Questa sarebbe la giustizia degli scribi e dei farisei, che non ci fa entrare nel regno dei cieli.

Gesù ci insegna come la giustizia di Dio illumina l’uso della parola: è troppo poco evitare gli spergiuri e la falsa testimonianza in tribunale. Occorre invece coltivare una lealtà interiore, un’abitudine al parlare schietto, dove sì vuol dire sì e no vuole dire no.

Il Signore ci da una legge morale non per aggiungere un peso alla nostra vita, che talvolta è già pesante di suo, ma per liberarci dal peso del peccato e guidarci ad una vita più giusta, più gioiosa. È una dottrina liberante, ma è anche impegnativa e totalitaria. Il Signore proprio perché ci stima e ci ama è anche esigente con noi. Sta a noi scegliere da che parte stare. Dice il libro del Siracide: «davanti agli uomini stanno la vita e la morte, il bene e il male: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17).

La nostra vita è una continua scelta tra il bene e il male, tra la giustizia e il peccato. La giustizia, nella Bibbia, è fare la volontà di Dio. Ciò che ci aspetta, la termine della nostra vita terrena, sarà conseguenza di ciò che avremo liberamente scelto in questa vita.

Le letture di oggi, in particolare il Vangelo, ci mettono davanti alla tremenda serietà di una vita terrena che altro non è che la breve preparazione alla vita vera, che può essere di infinita gioia, ma anche di infinita tragedia. È un richiamo alla misericordia, ma al contempo anche alla giustizia di Dio.

L’insistenza unilaterale che oggi spesso si fa sulla sola misericordia di Dio dimentica ciò che la Bibbia, e il magistero costante della Chiesa – il solo che interpreta la scrittura secondo verità – ci insegnano: cioè che Dio unisce all’infinita misericordia anche l’infinita giustizia. Dio è il Padre amoroso che ci aspetta a braccia aperte, al termine della nostra vita, ma nel contempo è il giusto giudice che peserà sulla sua infallibile bilancia il bene e il male delle nostre azioni. Nascondere uno di questi due aspetti di Dio non è cattolico, e soprattutto non è vero, in altre parole è falso.

Il paradiso ci attende, e il paradiso è un dono di Dio, ma non possiamo dimenticare che per poterlo avere non lo dobbiamo rifiutare, allontanandoci dalla via del bene che il Signore, con i suoi comandamenti ci indica.


La pace è dono di Dio

La pace è dono di Dio

Si ottiene gratuitamente, e gratuitamente va augurata

Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento.
(Dalla liturgia)

«Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi».

La pace, che è il primo dono del Signore risorto (ricordiamo il primo saluto del Risorto ai suoi discepoli, chiusi nel cenacolo: «pace a voi» Gv 20,19) non è un dono che siamo costretti ad accettare. Lo possiamo anche rifiutare. E lo rifiutiamo se viviamo una vita lontana dal Signore, lontana dalla sua grazia.

Il rischio di rifiutare la grazia del Signore è sempre presente nella nostra vita. Quando il Signore comanda di guarire gli infermi, resuscitare i morti e purificare i lebbrosi ha in mente anzitutto la guarigione dal peccato, che paralizza quanto di buono c’è in noi, uccide la grazia di Dio nella nostra anima.

Gesù ci purifica da quella lebbra – il peccato appunto – che sfigura la nostra anima creata ad immagine e somiglianza di Dio.

Non abbiamo timore a rivolgerci alla Chiesa, con la santa confessione, per chiedere perdono per i nostri peccati, e guarire così da questa malattia che ci fa perdere, anzitutto, quella pace interiore che è il primo dono che il Signore vuole farci.

L’amore che salva

L'amore che salva

Amare Dio, senza riserve, ci consente di amare profondamente il prossimo

Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».

(Dalla liturgia).

L’amore di Dio e l’amore del prossimo: Gesù ce li presenta strettamente legati. Non sono però la stessa cosa. Già il fatto che uno sia primo e uno secondo indica che una qualche differenza c’è.

L’amore per Dio è il fondamento, la base, il motivo di tutto. Dio deve essere amato per Sé stesso. Dio deve essere amato con tutto l’essere umano, senza riserve.

La parola «tutto» ricorre tre volte nella frase di Gesù. Dio, lo abbiamo detto altre volte, non vuole qualcosa, non vuole molto, vuole tutto. Non importa che sia tanto o che sia poco: Egli vuole tutto il nostro amore, la nostra dedizione, la nostra obbedienza. Come dice il libro del Deuteronomio, è un Dio geloso, non vuole dividerci con niente e con nessuno.

Dio solo deve essere amato per Se stesso, il prossimo deve essere amato perché si ama Dio, e non deve essere amato con tutto il mio essere.

L’amore del prossimo non deve travalicare quello per Dio. Ricordiamo le parole di Gesù: «chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37).

Ma l’amore per il prossimo non è qualcosa di facoltativo: è il mezzo per amare Dio, ed è la prova dell’amore di Dio. Ricordiamo le parole della prima lettera di San Giovanni: «chi non ama il prossimo che vede, non può amare Dio che non vede». (1Gv 4,20).

L’amore per Dio è il centro, la sorgente, il culmine, il senso della nostra vita. L’amore per il prossimo (anche quando il prossimo fa di tutto per non farsi amare) è il modo con cui noi possiamo rendere concreto l’amore per Dio.

Essere discepoli di Gesù significa soprattutto saper amare: saper amare Dio senza riserve, con tutto il nostro essere, e saper amare il prossimo, rendendolo partecipe del nostro amore per Dio.

Una laurea in Teologia non crea automaticamente un buon cristiano

Una laurea in Teologia non crea automaticamente un buon cristiano

Gesù parla alla mente, ma soprattutto al cuore dell’uomo

E, mentre egli camminava nel tempio, vennero da lui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?».
(Dalla liturgia).

Quando un cristiano mi parla di Dio e mi affascina, non gli rivolgo mai la domanda: “Dove hai conseguito la laurea in teologia?”. Ma gli chiedo: “Fai un cammino di fede?”. Per parlare di Dio con autorevolezza c’è solo bisogno di fare personalmente l’esperienza dell’amore e della salvezza che Egli ci ha donato in Gesù Cristo.

Dio non è una materia scolastica e la laurea in teologia non ti dà affatto l’autorevolezza di parlare di Dio.

Spesso mi accade di ascoltare cristiani che sono laureati in teologia che dicono cose su Dio ma non mi manifestano la santità e la bellezza di Dio sul loro volto e nella loro voce.

Riempire solo il cervello di nozioni teologiche e non riempire il cuore e la mente dello Spirito Santo non ti fa essere autorevole nell’evangelizzazione.

L’evangelizzatore autorevole è colui che ha una personale e vivente relazione con Dio. Quando l’evangelizzatore parla mosso dallo Spirito le sue parole non possono essere contraddette. Infatti i sacerdoti del tempio, messisi a disputare con Stefano, il diacono, non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava; perciò lo accusarono di aver pronunziato espressioni blasfeme contro Dio.

Si oppone ferocemente all’evangelizzatore ricolmo dello Spirito Santo l’uomo che odia la verità e lo fa con la calunnia.

L’uomo di fede adulta non ha paura della calunnia. Egli sa che il buio non può sconfiggere la luce, ma è la luce che sconfigge il buio.

La mia preghiera è che oggi, nella Chiesa, tra il clero ci sia più ambizione per diventare santi che per conseguire una laurea in teologia con lo scopo di fare carriera.

I manoscritti di Qumran

I manoscritti di Qumran

Di cosa si tratta e perché sono importanti

Nel 1947, secondo una ricostruzione, un giovane beduino, Muhàmmad ed-Dib (Maometto il Lupo), che appartenenva a una tribù Taamira che dalla Transgiordania si recava a Betlemme per motivi di commercio, inseguendo una capra, tirò un sasso in una delle molte caverne che si trovano in quei luoghi. La zona è quella della sorgente di Faschcha, nel Wadi Qumran.

Il sasso impatta in un oggetto di terracotta e il ragazzo sente il rumore della rottura, e incuriosito si addentra con un amico nella grotta che sarà successivamente classificata come 1Q: uno – Qumran.

Lo spettacolo che si presenta è d’altri tempi: appare una serie di giare cilindriche, con coperchio, e allineate in modo ordinato. Alcune sono infrante, altre rovesciate, ma tutte contenevano dei pacchi avvolti nel lino e ricoperti di pece o cera. Ogni pacco conteneva un rotolo manoscritto antichissimo.

Tra il 1947 e il 1955 furono ritrovati rotoli anche in molte grotte adiacenti, per un totale di circa 900 manoscritti che vengono fatti risalire al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

Si tratta di documenti che secondo gli esperti sono stati raccolti e alcuni anche scritti da una comunità essena che si sarebbe rifugiata a Qumran per protesta per l’elezione di un Sommo Sacerdote ebraico maccabeo (asmoneo) e quindi non saddocita. Questi documenti sono i testimoni originali più antichi dell’Antico Testamento: finora si faceva riferimento in questo senso al Codice di Leningrado che risalirebbe al X secolo d.C.

I testi possono essere così suddivisi:

  • Biblici (testi dei libri della Bibbia)
  • Halakici (da Halakà = Bibbia orale – interpretativi dell’Antico Testamento)
  • Escatologici (esempio: Rotolo della Guerra)
  • Pesharim (da Pesher = interpretazione attualizzata)
  • Inni poetici e preghiere
  • Letteratura enochica
  • Testi astronomici

I manoscritti biblici sono circa 200 e riguardano tutta l’Antico Testamento escluso il Libro di Ester.

Nello specifico abbiamo:

  • 39 manoscritti di Salmi
  • 31 del Deuteronomio
  • 22 di Isaia
  • 18 di Genesi e Esodo
  • 17 del Levitico

La maggior parte dei documenti sono in pergamena, solo pochi sono in papiro.

Oltre all’aspetto archeologico i documenti testimoniano la definizione dei testi biblici in epoca pre-cristiana, ma forniscono anche informazioni sugli studi e sul pensiero teologico dell’epoca.

Dalla lettura di alcuni testi settari (quindi scritti dagli appartenenti alla comunità essena, quali il rotolo 1QS, detto “Regole della Comunità”) affiora una visione dell’ingresso del male sulla terra che si lega a quella del Libro di Enoc e del Libro dei Giubilei, indicando chiaramente un dibattito in corso.

Dagli scritti emerge che la comunità di Qumran era predeterminista: si sarebbe salvato chi fosse entrato nella setta. Gli esseni di Qumran definivano se stessi “figli della luce” ed erano in lotta contro i “figli delle tenebre” o “della menzogna”.

Il demonio era prevalentemente indicato col nome di Belial.

Secondo Gabriele Bocaccini la comunità di Qumran era costituiota da un gruppo che si era staccato perché apocalittico.

Da notare che nel 31 a.C. vi fu un terremoto nella zona, che fu abbandonata per un breve periodo. Nel 68 d.C. la comunità cessò di esistere per la guerra che portò i Romani alla conquista di Gerusalemme nel 70 d.C.

I manoscritti di Qumran sono attualmente al centro di molti studi e costituiscono una miniera di informazioni.

Accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino

Accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino

L’immagine che Gesù evoca è quella della fiducia che nutre verso i genitori

Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
(Dalla liturgia).

«Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». Cosa hanno di così speciale i bambini? Non la generosità: sappiamo che i bambini non gradiscono condividere le loro cose con gli altri. Non la bontà: spesso i bambini sanno anche essere cattivi con chi è in difficoltà. Non la purezza: non c’è alcun merito ad essere puri quando non si ha ancora avuto lo sviluppo sessuale.

Quello che di particolare ha il bambino è che si fida dell’adulto. È questo che il Signore vuole da noi: che ci fidiamo di Lui. Non ciecamente, non stupidamente, ma ragionevolmente. Vuole che ci fidiamo di Dio con la fiducia che un bimbo ha verso suo papà.

L’affidamento a Maria e di Maria

L'affidamento a Maria e di Maria

Le ultime parole di Gesù hanno un senso ecclesiologico

Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

(Dalla liturgia).

Gesù in croce, prima di morire, affida il discepolo, affida ciascuno di noi, affida la Chiesa a sua madre. «Ecco tua madre».

Dopo la morte, un soldato, con un colpo di lancia, spezza il cuore di Gesù, e vi fuoriescono acqua e sangue, che i Padri hanno sempre visto come simbolo del Battesimo e dell’Eucaristia, più in generale dei sacramenti.

Gesù, quando stava per spirare e non poteva dilungarsi in dettagli, ci affida a sua madre, e affida sua madre a noi. La devozione, l’amore per Maria non è qualcosa di opzionale, di facoltativo: ci è stato comandato da Gesù nel suo ultimo fiato di vita terrena.

Noi siamo stati affidati a Maria: Ella ci introduce alla vita della Chiesa, ci accompagna ai sacramenti, ci aiuta nel ricevere la Grazia di Dio.

Maria è la strada per andare verso Gesù, unico salvatore del mondo. È attraverso di lei che Dio è venuto a noi, quando il Figlio di Dio si è fatto uomo, ed è attraverso di lei che vuole che noi andiamo verso Dio.

Maria, madre del Capo, Cristo, non può che essere anche madre del corpo, la Chiesa. Non abbiamo paura ad invocarla nei momenti di difficoltà, nei momenti in cui la nostra fede sembra venire meno. Una madre non abbandona i suoi figli.

Essere amici di Dio vuol dire essere realmente noi stessi

Essere amici di Dio vuol dire essere realmente noi stessi

Il significato della proposta d’amore di Gesù

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici».
(Dalla liturgia).

Oggi la Chiesa festeggia San Mattia, l’apostolo che ha preso il posto di Giuda dopo il tradimento e il suicidio.

Del vangelo di oggi consideriamo questa frase: «voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando». Non è un concetto di amicizia molto simpatico: sei mio amico se fai quello che dico io!

Certamente il nostro rapporto con Dio non è un rapporto tra eguali. Ma Dio ci vuole bene davvero, e ci vuole bene come a persone intelligenti, non come a degli stupidi. Infatti dice che non ci chiama più servi, ma amici.

Il servo riceve l’ordine del padrone senza una spiegazione: «fai questo; non fare quello». Cristo invece ci chiama amici perché a noi ha detto tutto: ci ha fatto conoscere tutto ciò che di Dio è possibile conoscere su questa terra alla nostra natura umana.

Dio ci ha dato una legge per il nostro bene. I comandi del Signore infatti non sono un peso inutile, un ulteriore gravame in una vita spesso già pesante di suo. Se il Signore ci comanda qualcosa lo fa perché noi possiamo vivere meglio: nella vita eterna ma anche in questa vita.

La legge di Dio, anche quando ci chiede sacrifici o rinunce, è fatta su misura per noi, perché noi possiamo vivere pienamente la nostra vita. Per questo Gesù ci chiede di rispettare la sua legge, anzi, ci dice che entriamo nella sua amicizia solo quando la osserviamo. Ed essere amici con Dio, per noi che siamo stati creati a sua immagine e somiglianza, significa essere veramente noi stessi. E quando ci allontaniamo da Dio con il peccato noi ci allontaniamo anche da noi stessi. E ci allontaniamo dalla possibilità di essere davvero felici.

Gesù che torna al Padre ci indica che il nostro obiettivo non è qui

Gesù che torna al Padre ci indica che il nostro obiettivo non è qui

La gioia perfetta è un traguardo che raggiungeremo

«Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre».
(Dalla liturgia).

«Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena». Il Signore accoglie le nostre richieste se queste portano alla pienezza della gioia.

Spesso però non capiamo perché il Signore non ci concede quello che gli chiediamo, che tante volte sono cose obiettivamente giuste e gravi. È un mistero, qualcosa che non possiamo comprendere fino in fondo.

Dobbiamo però sempre ricordare che l’orizzonte di Dio non sono i giorni che trascorriamo su questa terra, ma la vita eterna. Ed è in questa prospettiva che dobbiamo ricordare che, come diceva il Manzoni, il Signore non permette mai che sia turbata la gioia dei suoi figli se non per darne loro una più certa e più grande.

Non lasciamoci scoraggiare dalle piccole o tante cose che non vanno. In questa nostra esistenza terrena è inevitabile.

Nei momenti più difficili ricordiamo sempre che l’amore del Signore non ci abbandona mai, e che siamo attesi a prendere parte alla felicità che non ha fine.

Lo Spirito Santo è Verità a cui nulla va tolto né modificato

Lo Spirito Santo è Verità a cui nulla va tolto né modificato

Gesù ci indica la pienezza del Dio Uno e Trino

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future
».
(Dalla liturgia).

«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità». Lo Spirito Santo ci guida alla verità, e specifica Gesù: «a tutta la verità».

La verità non può essere parziale, cioè dalla verità che Dio ci ha rivelato non si può togliere o modificare nulla, pena il perdere tutto.

Le eresie, che hanno turbato la vita della Chiesa sin dai primi tempi della sua esistenza fino ai nostri giorni, hanno questo di specifico: togliere o modificare qualche aspetto, anche apparentemente minuscolo o insignificante, di ciò che la rivelazione ci ha trasmesso.

L’insegnamento di Gesù è efficace, rende migliore la nostra vita e ci giova per la vita eterna, se lo accogliamo così com’è, senza aggiungere, togliere o modificare nulla. Altrimenti è qualcosa di inutile, quando non dannoso.

Un Cristianesimo «annacquato» è debole

Un Cristianesimo «annacquato» è debole

La nostra non è una fede faticosa, ma implica comunque degli sforzi

«Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia».
(Dalla liturgia).

«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me». Il cristiano non deve cercare di rendersi antipatico a tutti i costi, non avrebbe senso. Deve però insospettirsi quando il mondo parla troppo bene di lui.

Spesso il mondo parla bene del cristianesimo quando questo viene annacquato, quando all’annuncio cristiano viene tolto qualche aspetto particolarmente spigoloso, oppure viene aggiunto qualcosa per renderlo accettabile al modo normale di ragionare.

Rendere la fede cristiana più gradita ad una data epoca, ad una certa temperie culturale può suscitare qualche iniziale entusiasmo, ma è cosa destinata a durare poco. Ben presto questo annuncio depotenziato mostrerà i suoi limiti, e verrà dimenticato, facendo la fine del sale senza sapore, che viene gettato via e calpestato dagli uomini.

Ed è forse quello che sta capitando ai nostri giorni.

Entra in carica il nuovo Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici

Entra in carica il nuovo Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici

L’organismo parrocchiale nelle piene funzioni

Il Vicario Generale Don Bruno Scarpino, ha firmato il decreto che ufficializza nelle sue funzioni il nuovo Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici della Parrocchia dei Santi Nazario e Celso a Mendatica.

Il Vescovo ha accolto l’elenco dei membri proposto dal nostro Amministratore Parrocchiale Don Luciano.

Ecco i nomi dei componenti, in ordine alfabetico per cognome:

Nadia Bottero

Angelo Ferrari

Roberto Grasso

Simona Pelassa

Ornella Porro

Il CPAE è un organo consultivo a cui l’Amministratore Parrocchiale si rivolge per avere supporto nello svolgimento delle questioni economiche relative alla vita parrocchiale, e soggiace ovviamente alle esigenze pastorali, che a norma dei regolamenti centrali hanno la preminenza assoluta.

Le nomine ufficiali sono state consegnate durante la Santa Messa del 28 aprile.

La comunità parrocchiale di Mendatica si stringe attorno ai consiglieri e formula i più sinceri auguri affinché possano svolgere l’incarico con tutta la competenza di cui dispongono a beneficio di tutti.

Via, Verità e Vita: percorso e obiettivo

Via, Verità e Vita: percorso e obiettivo

Gesù, uomo e Dio, è l’unico mediatore

«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».
(Dalla liturgia).

«Io sono la via, la verità e la vita». Se dovessimo chiedere a più persone quale di queste tre affermazioni di Gesù sia la più importante, probabilmente quasi nessuno direbbe la via.

Si può pensare anzitutto alla vita, oppure alla verità. Ma nel contesto della frase l’affermazione più importante sembra proprio essere: «Io sono la via».

Perché questo? Perché solo attraverso Gesù possiamo giungere alla pace e alla gioia perfetta, piena ed eterna del paradiso («nessuno viene al Padre se non per mezzo di me»).

Ma non è tutto qui: è solo attraverso Gesù che noi possiamo vivere già su questa terra una vita piena di significato e comprendere il senso della nostra vita, e fare una esperienza, anche se parziale e limitata, della pace e della gioia che solo il Signore ci può dare.

Nasce la Commissione Parrocchiale per l’Arte Sacra

Nasce la Commissione Parrocchiale per la Cultura

Nominati da Don Luciano i componenti: i nomi

Domenica 14 aprile Don Luciano ha annunciato i membri della nuova commissione istituita nella nostra Parrocchia, che si occuperà di cultura in ambito di Arte Sacra e della conservazione dei beni artistici e culturali in dotazione alla comunità parrocchiale.

Don Luciano, che presta la sua opera presso l’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi di Albenga-Imperia, ha istituito questo organismo anche per tenere vive le antiche tradizioni di Mendatica, nonché per proteggere e divulgare il patrimonio di beni e ricordi che abbiamo ricevuto attraverso i secoli.

I membri della Commissione, annunciati al termine della Santa Messa di domenica scorsa, in ordine alfabetico per cognome, sono:

Celestino Lanteri, Emidia Lantrua e Paolo Ramella.

Si tratta della prima commissione di nuova nomina a cui, a detta del parroco, seguiranno altre.

Ai componenti vanno la preghiera, i complimenti e i ringraziamenti anticipati per il lavoro che svolgeranno, da parte di tutta la nostra comunità.

Mendatica, e in particolare la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, possiede un immenso patrimonio culturale, a partire e soprattutto nella sua storia e nella forte dedizione che chi ci ha preceduto ha voluto tramandare, anche con grande sacrificio e esperienza.

I membri della Commissione hanno tutti i requisiti per poter provvedere alla divulgazione, ma anche alla riscoperta dei valori che hanno caratterizzato il paese, il quale costituisce un antico insediamento che ha fortemente delineato l’attaccamento al territorio e alle inclinazioni cristiane della zona.

Storia, vicende, simboli, usi, costumi, devozioni, si accompagnano ai segni tangibili e materiali che la commissione saprà conservare, rinverdire e divulgare nei loro significati.

È in corso fra l’altro un censimento e verifica dei beni parrocchiali, anche quelli siti nelle Cappelle di competenza.

Buon lavoro e grazie, quindi, a Celestino, Emidia e Paolo, che con il loro impegno svolgeranno un compito fondamentale nella pastorale e nella crescit e formazione personale di ognuno di noi.

Il pane della vita nutre anima e corpo

Il pane della vita nutre anima e corpo

Eucarestia e Parola: il nutrimento per la vita eterna

«In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
(Dalla liturgia).

«Io sono il pane della vita». Cosa significa questa espressione di Gesù? Per capirlo basta porre mente a che cosa è il pane: un nutrimento, che da sostanza, che permette la vita, che da energia. Gesù ci nutre di Sé.

C’è un riferimento chiaro all’Eucaristia, ma non è solo questo. Gesù ci nutre, ci da sostanza ed energia. Con la sua parola, con il suo insegnamento, con il suo amore.

Ricambiando l’amore di Dio noi ci nutriamo di Lui, e riceviamo la sostanza per vivere. Ricambiare l’amore di Dio significa obbedire alla sua parola («chi mi ama osserva i miei comandamenti»).

Cercare di osservare i comandamenti di Dio è condizione necessaria per ricevere il nutrimento spirituale che il Signore vuole darci. E vuole darcelo perché noi possiamo vivere in pienezza, e non limitarci a sopravvivere.

Vita e fede si uniscono con la coerenza

Vita e fede si uniscono con la coerenza

«Non chi dice Signore, Signore …»

«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie».
(Dalla liturgia)

Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui. Per salvarci occorre credere in Lui.

Credere, lo sappiamo, non significa solo ritenere che alcune cose (ciò che diciamo nel Credo) siano vere. Questo sì, certamente è necessario. Ma non basta. Dobbiamo cercare di compiere ciò che il Signore ci comanda.

Conoscenza e azione sono legate tra loro. Dio ci manda la luce per farci capire ciò che è bene, per farci capire che Dio ci ama e ci è vicino, ma chi opera il male questa luce non la vuole, proprio perché mostra la malvagità della propria vita.

Non possiamo illuderci di credere in Dio e vivere nel male, lontani dalla sua grazia, in una condizione abituale di peccato mortale. In questo modo finiamo per rifiutare la luce di Dio. E la rifiutiamo proprio perché mette in mostra la malvagità del nostro agire.

Chiediamo al Signore di aiutarci a vivere come piace a Lui. Dio non ha mandato il suo Figlio per condannarci ma per salvarci. Chiediamogli di aiutarci ad accogliere la sua luce nella nostra vita.

I manoscritti di Qumran: cosa sono e perché sono importanti

I manoscritti di Qumran: cosa sono e perché sono importanti

Ritrovati nel 1947, risalgono al periodo dal II sec. a.C al 70 d.C.

Il nome di Qumran e spesso ripetuto nella cronaca in ambito di paleografia e studio dell’antichità, specialmente in ambito storico-religioso.

Vediamo però di cosa si parla con esattezza.

Nel 1947 e fino al 1956, nel Wadi-Qumran, furono ritrovati in 11 differenti grotte circa ben 900 documenti che riguardano prevalentemente la Bibbia ebraica.

Il luogo, che si trova sulla riva nord-occidentale del Mar Morto, in Cisgiordania, nelle adiacenze dell’antico insediamento di Khirbet Qumran, deve il suo nome anche alle condizioni ambientali. «Wadi» nelle lingue arabe indica una valle in cui scorreva un antico corso di fiume, che allo stato attuale risulta secco e potrebbe rinvigorirsi solo con abbondanti piogge.

È dunque un territorio desertico e arido, in cui le piogge fanno apparizione solo a lunghissimi intervalli di anni.

Circa 2000 anni fa, la zona era climaticamente meno ostile e fu sede di comunità di esseni, gruppo semita che viveva in modalità monacale. Erano assidui studiosi delle Sacre Scritture.

I manoscritti possono essere classificati in tre grandi categorie:

  • Manoscritti biblici (copie dei libri della Bibbia ebraica): circa il 40%.
  • Manoscritti pseudo-epigrafici o apocrifi: circa il 30%.
  • Manoscritti «settari»: circa il 30%.

I documenti pseudo-epigrafici o classificati come apocrifi, sono quelli che non sono stati introdotti nel canone ebraico, ma alcuni di essi accettati dalla Bibbia dei Settanta o utilizzati dalla tradizione rabbinica (per esempio: Libro del Siracide, Libro di Enoch, Libro dei Giubilei, Libro di Tobia,, salmi esclusi dal canone)

Per «settari» si intendono invece gli scritti relativi a quelle credenze e regole praticate da gruppi minoritari della antica comunità ebraica, come erano gli esseni stessi.

L’importanza di questi documenti è enorme soprattutto perché consentono una maggiore precisione nell’ambito della critica testuale. Se si pensa infatti che i documenti più antichi sui quali si basava la ricerca sulla Bibbia in ebraico erano quelli masoretici, e in particolare il Codice di Leningrado del X secolo, e quelli in greco sono tuttora il Codice Vaticano e il Codice Sinaitico risalenti al IV secolo, si ha la misura di quanto possono essere utili.

I frammenti ritrovati riguardano quasi tutti i libri compresi nel codice masoretico, e contribuiscono quindi a dare una visione di insieme fondamentale.

In alcuni manoscritti si trovano alcuni principi morali e etici che sono stati ripresi dalle lettere paoline e che quindi si armonizzano con la mentalità dell’epoca.

Attraverso differenti sistemi di datazione, tra cui quello paleografico e in alcuni casi anche con radiocarbonio e spettrometria di massa, si è determinata l’epoca di composizione tra il 250 a.C. e il 68/70 d.C., quest’ultima fu la data della distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme da parte dei Romani. I periodi paleografici coperti sono dunque l’Arcaico, l’Asmoneo e l’Erodiano.

I documenti, che di fatto si propongono come una ricca miniera di informazioni, sono ancora oggetto di studio e del vaglio degli esperti.

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

Gesù sulla croce non dubitò del Padre, come la frase potrebbe farci pensare

Sia Marco che Matteo riportano la frase pronunciata da Gesù quando sulla croce la vita stava per lasciarlo: «Eloì, Eloi, lamà sabachtani» («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»).

Ci sono alcune note che sembrano stonate nei brani evangelici che narrano queste vicende. La prima e che gli ebrei più vicini al luogo del martirio pensarono che stesse invocando Elia per essere soccorso, mentre la seconda risiede nella perplessità che il Figlio di Dio potesse mettere in dubbio la vicinanza del Padre in quel momento tragico.

Vediamo allora di dare le risposte a queste perplessità.

In realtà la frase che Gesù urlò fa parte dell’incipit del Salmo 21, il canto del servo giusto sofferente. Era usanza infatti recitare a voce alta le primissime righe dei salmi, per poi proseguire a bassa voce.

Gesù recitò quindi il Salmo 21, che termina in una profonda coscienza di fiducia in Dio, nonostante le prove siano faticose e sembrino insostenibili, proprio per evidenziare la sua missione di servo sofferente annunciata da Isaia.

Al tempo, nell’attuale Palestina, le lingue parlate erano quattro: il Greco (lingua dei dotti e della cultura), il Latino (idioma dei dominatori, e dunque lingua giuridica e delle istituzioni), l’Ebraico (utilizzato esclusivamente nei riti e nelle funzioni religiose) e l’Aramaico, la lingua corrente entrata nel popolo dopo la deportazione a Babilonia e il ritorno in patria circa 70 anni più tardi.

La frase (אלהי אלהי למה שבקתני = Eloì, Eloì, lamà sabachtani) è in aramaico «ebraicizzato», e ne abbiamo la prova perché «lamà» col significato di «perché» veniva utilizzato solo nell’Aramaico parlato nell’attuale Terrasanta.

Le prime due parole («Eloì, Eloì» – oppure «Elì, Elì» secondo Matteo), indicano indiscutibilmente un dei modi con cui gli ebrei indicavano Dio, ovvero Elohim. Gli altri due erano «Adonai» (letteralmente: «Signore») o il tetragramma sacro che però era impronunciabile per religione. Pronunciando la frase in Aramaico, Gesù la rese diversa da quella in ebraico che veniva ripetuta nelle Sinagoghe, per cui la confusione, la somiglianza con il nome di Elia, e la rimembranza che il Messia sarebbe stato preceduto dal ritorno del profeta, generarono il dubbio.

Dunque la frase fu opportuna al Cristo per confermare la sua fiducia nei confronti del Padre (altra persona della Trinità insieme a Lui stesso e allo Spirito Santo), ma anche a ricordarci, attraverso la cattiva interpretazione degli Ebrei presenti, che il profeta che precedette il Messia era Giovanni il Battista, novello Elia.

La «necessità» della Croce

La «necessità» della Croce

L’amore di Dio per ognuno di noi è eterno come Lui

Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
(Dalla liturgia).

Dopo aver ascoltato la narrazione della passione e della morte di Gesù viene da chiederci: ma perché è stato necessario tutto questo? Perché il Figlio di Dio ha patito ed è morto sulla croce?

Sappiamo bene che è la natura umana di Gesù che ha sofferto ed è morta, quella natura umana creata ed assunta dalla persona divina del Figlio, generato e non creato della stessa sostanza del Padre. Dio non può né soffrire né morire. D’accordo. Questo è vero. Ma Gesù, nella sua natura umana, ha sofferto nel suo corpo, è stato oltraggiato, vilipeso nella sua dignità, ed è morto nel fiore degli anni, all’apice del successo, quando un uomo normale e sano non ha proprio voglia di morire!

Perché Gesù ha accettato una fine così tragica? Lo sappiamo: per riconciliarci con Dio, offeso dal peccato dei progenitori e da tutti i peccati degli uomini. Ma, ci viene da chiederci, era proprio necessario tutto questo? Che razza di Dio è un Dio che per placare la propria sete di giustizia pretende un sacrificio umano, la morte di una persona innocente, il sacrificio, peraltro, del proprio Figlio unigenito, generato e non creato della stessa sua sostanza, e che se non ha sofferto come Dio, come uomo ha patito eccome?

È stato necessario per due motivi: il primo è che ogni peccato è anzitutto un atto contro Dio, ed è pertanto necessario che per eliminarne le conseguenze intervenga Dio stesso. Riflettiamo su questo noi che con colpevole superficialità infrangiamo tanto spesso quella legge che il Signore, nella sua misericordia, si è degnato di darci!

Il secondo motivo è che nulla più della croce manifesta la giustizia, la misericordia e l’amore di Dio: anzitutto la giustizia, perché il peccato dei progenitori e tutti i peccati degli uomini sono stati espiati attraverso la morte dolorosa e infamante di un uomo; la misericordia, perché Dio ha caricato Se stesso della punizione che gli uomini si erano meritati; l’amore, perché non c’è amore più grande di chi dona la vita per i propri amici.

Anche nei momenti più difficili, penosi e dolorosi della vita guardiamo il crocifisso: è la dimostrazione più vera che Dio ci ama e che siamo davvero importanti per Lui.

Scienza e Fede, l’eterno dibattito

Scienza e Fede, l'eterno dibattito

Filosofia e Metafisica intervengono nel dialogo

Del rapporto tra Scienza e Fede si sono occupati praticamente tutti i Papi nonché i maggiori scienziati e pensatori. Alcuni ricercatori scientifici hanno liquidato l’argomento fermandosi in superficie e definendo incompatibili i due mondi. La maggior parte però ha affrontato la questione arrivando a conclusioni spesso diversificate.

Una risposta circa la compatibilità richiede un’analisi abbastanza articolata e tira in campo altre due importanti discipline, ovvero Filosofia e Metafisica.

Nell’Antichità la Filosofia era definita dapprima l’unica scienza, per poi essere ritenuta la «vera» scienza. L’uomo cercava di raggiungere la piena consapevolezza della propria essenza iniziando a comprendere di avere capacità diverse rispetto a tutti gli altri esseri viventi. La capacità di pensare è infatti di tutti gli esseri, ma quella di riflettere è propria dell’uomo.

La Filosofia, ovvero philia e sophia, amore per la conoscenza, non poteva che assurgere in qualità di scienza.

Con il mondo moderno si affermò invece un affidamento cieco solo a quanto potesse essere dimostrato, attraverso misurazioni e ripetizioni in laboratorio del fenomeno osservato: nacque il metodo empirico.

Da allora l’etichetta di scienza è stata esclusivamente applicata a quelle discipline che rispondevano ai canoni della sperimentazione.

Questo pensiero è stato esasperato fino a generare il fenomeno dello scientismo, cioè quella scuola di pensiero che ritiene la scienza infallibile, elevandola in sostanza a divinità.

Il metodo empirico ha fatto in modo da far credere che il termine «scientifico» possa essere usato esclusivamente per alcune discipline quali Fisica, Matematica, Chimica e poche altre.

Restavano dunque, a rigore di logica, escluse alcune altre discipline le quali devono affidarsi esclusivamente alle deduzioni, quali Medicina (almeno nella Diagnostica), Psicologia, Psichiatria, e tutte le scienze umane o umanistiche.

Il sistema denunciava quindi delle lacune che furono colmate con l’avvento della Fisica Quantistica e dal pensiero di diversi filosofi contemporanei, il cui capofila può essere ritenuto Karl Popper.

La Fisica Quantistica ha messo in crisi il metodo empirico evidenziando aspetti della natura, nella fattispecie delle particelle chiamate quanti, che di fatto non possono essere misurate e neppure localizzate in modo stabile. Cadde dunque la possibilità di avere una prova empirica e di conseguenza tutto viene ridotto a teoria.

Popper individuò una ulteriore insufficienza nel sistema empirico, che si può sintetizzare con il famoso esempio dei cigni: se vediamo solo cigni bianchi, non possiamo asserire con certezza che tutti i cigni siano bianchi: basterebbe incontrare un cigno nero e la teoria verrebbe smentita. Si tratta della constatazione che l’uomo non può vedere o sapere tutto quanto esiste in natura, e deve dunque sempre lasciare la porta aperta ad una eventuale prova contraria. Popper diede a questo principio il nome di «Falsificabilità». Diviene dunque scientifico ciò che è falsificabile dall’esperienza.

Queste riflessioni aprono il campo all’importanza della Metafisica. Essa è attaccata in modo feroce dagli scientisti, i quali vorrebbero che fosse addirittura abolita.

Escludere la Metafisica, però, significa mutilare in modo irreparabile le potenzialità intellettive umane. Se la Fisica indaga infatti su ciò che è nell’universo, la Metafisica ci invita a scrutare con la nostra capacità di riflessione anche a quello che potrebbe esistere seguendo una logica stringente. Troviamo dunque anche qui l’ammissione che l’uomo non conosce ancora tutte le leggi dell’universo.

Nell’ambito di queste considerazioni prende corpo l’importanza della Teologia e delle Scienze Religiose. Sono gli strumenti indispensabili per avvicinare la scienza e la fede attraverso una ricerca che può a buona ragione ritenersi scientifica.

Teologia e Scienze Religiose si appoggiano a tutte le altre scienze, comprese quelle che fino a ieri erano ritenute «la sola scienza», ma che oggi possono correttamente definirsi «scienze esatte» perché confermate in modo empirico.

Ecco dunque che scienza e fede divengono complementari perché la prima cerca di spiegare come avvengono i fenomeni, e la seconda indaga sul perché avvengono.

La ricerca del «come» e quella del «perché» non possono essere ritenute incompatibili, ma assolutamente entrambe necessarie se si ha la buona fede di ricercare la Verità.

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Secondo la Lettera di Aristea, questa versione fu prodotta da 72 rabbini

La Bibbia detta «Septuaginta», o come più spesso viene ricordata, la Bibbia dei 70, è una versione tradotta in greco dell’Antico Testamento dall’ebraico.

Si tratta di una versione importante, e ancora oggi è liturgica per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca.

Il riferimento storico, oggi oggetto di valutazione, è un documento, la «Lettera di Aristea», citato dallo storico Giuseppe Flavio, inviata da Aristea, sedicente praticante la religione olimpica, a suo fratello Filocrate.

Aristea si dichiara anche appartenente alla corte di Tolomeo II Filadelfo, della dinastia dei Tolomei di chiara origine ellenica e dunque ellenista, che fu faraone d’Egitto dal 281 al 246 a.C.

La lettera riporta che Tolomeo II, visto il crescere della popolazione ebraica nel suo regno, fu consigliato di indagare e prendere conoscenza della religione praticata dagli ebrei.

La Bibbia dei LXX non è l’unica versione in greco che viene tenuta in considerazione dagli studiosi, ma ad essa si aggiungono le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione, che sono fra l’altro citate da Origene nel suo Exapla. La Bibbia dei Settanta è però molto spesso indicata come OG, ovvero Old Greek, riconoscendone l’antichità.

Secondo la Lettera di Aristea, dunque, Tolomeo II chiamò i rabbini più autorevoli di Gerusalemme affinché producessero una traduzione in Greco. Da Gerusalemme partirono verso Alessandria 72 rabbini, 6 per ognuna delle 12 tribù di Israele.

In Egitto i 72 rabbini provvidero a tradurre una versione a testa in lingua greca, che miracolosamente non differivano l’una dall’altra neppure di una virgola.

Storicamente si ritiene che il lavoro di traduzione durò dal 250 a.C circa fino addirittura al I secolo dopo Cristo.

Nella Bibbia dei LXX troviamo delle interpretazioni che si staccano dalla semplice traduzione letterale di alcune parti del testo ebraico. I rabbini di Gerusalemme volevano probabilmente rendere esplicite le riflessioni teologiche che avrebbero potuto essere ostiche alla comprensione egiziana e greca. Di fatto quindi, l’esigenza di una ricerca al testo originale fu presto avvertita.

Nei secoli successivi si è arrivati a formulare due teorie circa la composizione della Bibbia dei Settanta, che hanno preso in considerazione esclusivamente le risultanze storiche certe, tanto più che la Lettera di Aristea è stata col tempo considerata epigrafica: si parla infatti di pseudo-Aristea.

L’indagine sul documento attribuito a Aristea ha subito una svolta importante con la ricerca effettuata da Luis Vives (filosofo e umanista spagnolo nato nel 1493 e deceduto nel 1540), e da Humprey Hody (teologo, 1659-1707), i quali dimostrarono che La Lettera di Aristea fu scritta da un ebreo alessandrino tra il 170 e il 130 a.C. e dunque da 80 a 120 anni dopo il regno di Tolomeo II.

Le teorie di formazione della traduzione della Septuaginta, sono due e diametralmente opposte.

La prima, formulata da Paul Kahle, sostiene che si formò nelle Sinagoghe come il Talmud, mettendo insieme diverse tradizioni distinte in un unica traduzione.

La seconda, sostenuta da Paul de Lagarde e Alfred Rahlfs, considera invece un’origine unitaria: la versione sarebbe dunque una compilazione originaria. Questa teoria trova conferma nei ritrovamenti di Qumran che testimonierebbero a favore della presenza consolidata della traduzione già in tempi antichi.

Successivamente vi furono però vari tentativi di riportare la traduzione al testo originale in senso letterale, come dimostrerebbe un rotolo dei 12 profeti minori ritrovato negli anni ’50 a Nachal Hever.

La Bibbia dei LXX, al di là di ogni considerazione, è uno strumento importante per l’approfondimento della teologia biblica, nonché dello studio delle varie forme di approccio e della storia dei libri biblici.

Gesù si rivela ma non viene accolto

Gesù si rivela ma non viene accolto

«… e il verbo era presso Dio …»

Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono».
Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio
(Dalla liturgia).

“Chi credi di essere?” chiedono sprezzanti i Giudei a Gesù. La risposta di Gesù è netta: “prima che Abramo fosse, Io Sono”.

Le pietre cadute dalle mani degli accusatori della donna adultera, disarmati dalla parola di Gesù, ora sono scagliate contro Gesù…

I Giudei dimenticano che essere figli di Abramo non è “possesso” ma dono, toccati dall’iniziativa di Dio che trasforma la vita di un popolo in una promessa, un cammino e non un privilegio…

Gesù riaffermando il suo “io sono” ricorda che a partire da lui il cammino di Abramo riprende e giunge a pienezza: ora ci è aperta la strada per essere figli di Abramo, eredi della promessa.

Quando nella notte di Pasqua rinnoveremo le nostre promesse battesimali in realtà ci viene detto e ricordato che viviamo di una vita che è il compimento di tutte le promesse. È donata in noi una vita di pienezza, di comunione con il Padre.

L’”io sono” di Gesù risuona e si riflette in noi. Abramo ha raggiunto la terra della promessa!

Gesù non condanna: ama. Il nostro impegno è di non peccare più

Gesù non condanna: ama. Il nostro impegno è di non peccare più

L’accusa all’adultera serviva anche per mettere in difficoltà il messaggio di misericordia di Gesù

Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Dalla liturgia).

La scena di questo brano di Vangelo si apre nel tempio di Gerusalemme. Gesù sta insegnando quando, all’improvviso, compare un gruppo di scalmanati: sono scribi e farisei che hanno trovato una donna mentre stava tradendo il marito, e non sembra loro vero di poterla usare per mettere in difficoltà Gesù. Questa donna si trova in grave imbarazzo: evidentemente è colpevole, viene umiliata, messa in mezzo. Si trova in una situazione di grave disagio.

Dicevamo che scribi e farisei approfittano di questa donna per mettere in difficoltà Gesù. Perché lo mettono in difficoltà? Perché se Gesù avesse affermato che era giusto lapidarla, come previsto dalla legge di Mosè, allora si sarebbe potuto dire: «dov’è tutta la tua misericordia, il tuo amore per i peccatori?». Se invece avesse detto di lasciarla andare, allora sarebbe stato facile accusarlo di aver trasgredito la legge di Mosè.

Gesù ribalta la situazione: non risponde subito. Scrive per terra. Cosa scrive? Il Vangelo non lo dice. Alcuni commentatori dicevano che scrivesse i peccati di quegli scribi e farisei che gli avevano portato la donna. Forse invece era solo un modo per non mettere in ulteriore imbarazzo la donna, guardandola in faccia. Fatto sta che non risponde, ma rilancia l’accusa a scribi e farisei: «chi è senza peccato scagli la prima pietra».

Tutti hanno peccato, non solo quella donna, e tutti hanno bisogno della misericordia del Signore. Infatti nessuno lancia la pietra, ma se ne vanno, a cominciare dai più vecchi, forse perché avevano più peccati.

Il Signore non ha approfittato della situazione per fare una catechesi sul peccato. Ha cercato anzitutto il bene di quella donna. Per prima cosa l’ha salvata dalla lapidazione, e poi l’ha congedata senza umiliarla, senza accusarla, ma facendole comunque capire che il peccato è un male che rovina la vita a noi e agli altri, e per questo va evitato: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

«Neanch’io ti condanno». Il Signore non ci condanna quando pecchiamo, cerca in tutti i modi di recuperarci, finché ci è dato tempo per farlo. Il Signore vuole salvarci, non vuole che ci perdiamo nella dannazione eterna. Per questo non ci condanna. Ma per questo ci fa anche capire che dobbiamo sforzarci di cambiare, di non peccare più. «Vai e non peccare più».

Il peccato fa male, a noi, agli altri e a Dio. Uccide la grazia di Dio in noi, quel flusso d’amore e di vita che il Padre ci dona. Per questo è necessario cercare, con l’aiuto di Dio, di non peccare. Ma è necessario soprattutto stare attenti a non fare come quegli scribi e i farisei che hanno trascinato la donna da Gesù: pensare cioè che i peccatori siano solo gli altri, che noi in fondo non facciamo niente di male. Se noi pensiamo così (e noi spesso, per non dire quasi sempre, pensiamo così!) non riusciamo a pentirci e a migliorare, ma ci limitiamo a considerare i peccati degli altri senza pensare ai nostri.

Gesù ci ammonisce: non solo di non tirare le pietre, cioè di non giudicare gli altri, ma ci invita a ricordare di essere peccatori, di tenerlo presente. Non ritenersi giusti, capire che abbiamo sbagliato è il primo passo per convertirci, per cambiare, per mettere il Signore nelle condizioni di perdonarci.

La natura e i compiti degli organismi ecclesiali

La natura e i compiti degli organismi ecclesiali

Il nuovo libro di Don Giuseppe Militello indica le funzioni degli uffici della Chiesa

Spesso parliamo di eventi e circostanze che riguardano il funzionamento strutturale della Chiesa, ma pochi scrittori hanno pensato di spiegare in termini semplici e sintetici in che cosa consistano i vari uffici ecclesiali, e quel è il loro scopo.

Ci ha pensato Don Giuseppe Militello, Parroco a Finale Ligure, prolifico scrittore in temi ecclesiologici e teologici, nonché docente di Ecclesiologia presso l’ISSRL aggregato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano.

Il libro, edito da Paoline, è stato voluto dall’autore in forma semplice, facilmente leggibile e molto scorrevole, e non si accontenta però «solo» di spiegare (e lo fa molto bene) le funzioni degli organismi, ma si preoccupa di trasmettere il significato e i motivi della loro esistenza, i quali vengono poi riassunti nella missione evangelizzatrice della Chiesa.

Questo legame forte tra istituzione e scopo, traspare in modo netto e Militello lo fa emergere in una logica stringente.

Ecco dunque che questa opera si colloca di diritto all’interno della disciplina ecclesiologica, ma strizza fortemente l’occhio a contenuti teologici e pastorali.

Si tratta di un libro da non perdere se si vuole essere edotti in materia di competenze, per evitare di fraintendere motivazioni e scelte della Chiesa, la quale opera sempre al fine di ottenere uno scopo congruo per la sua missione.

Giuseppe Militello, Natura e compiti degli organismi ecclesiastici. Le strutture a servizio della comunione. Edizioni Paoline, 2023. €. 10,00

Anche preghiera e altre cose buone possono vanificarsi con la superbia

Anche preghiera e altre cose buone possono vanificarsi con la superbia

Un atteggiamento di autocompiacimento rende sterile la preghiera

«Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Dalla liturgia).

Il fariseo prega, ed è una cosa buona.

Prega nel tempio, nel luogo stabilito da Dio, nel luogo della preghiera pubblica, e anche questa è una cosa buona, non si affida a una religiosità «fai da te».

Ringrazia: è molto bello che nel suo cuore vi sia un sentimento di gratitudine verso Dio.

Dov’è che la preghiera del fariseo comincia a fare acqua? Quando comincia a fare paragoni e a giudicare gli altri uomini, gli altri uomini in generale e (peggio ancora!) l’altro uomo in particolare, presente accanto a lui nel tempio.

Soprattutto la preghiera del fariseo ha un grosso difetto: finge di glorificare Dio ed invece è tesa ad esaltare se stesso, in particolare paragonandosi ad altre persone e dando giudizi pesanti su di loro.

È come se una ragazza si mettesse allo specchio e dicesse: «Signore ti ringrazio perché sono davvero bella, non come le mie amiche!».

La preghiera è vera, è buona, ci fa bene, se mette al cento il Signore.

Anche la liturgia è vera, è buona e ci fa bene se celebra il Signore, e se lo celebra come Lui vuole essere celebrato.

Quando invece la preghiera, anche la preghiera della liturgia, celebra noi, celebra la nostra persona, celebra la nostra comunità, non è più preghiera, e non ci rende migliori.

Chiesa, annuncio e aggiornamento

Chiesa, annuncio e aggiornamento

Aggiornare non significa abbandonare la tradizione

La priorità massima della Chiesa e di ogni singolo battezzato è l’evangelizzazione. Il messaggio di Gesù è chiaro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

C’è dunque un’appartenenza a Dio con insita la partecipazione alla Comunione con Lui e con i fratelli, in cui anche i laici hanno parte.

Ciò che emerge dunque è la necessità di trovare il modo più incisivo di comunicazione, e questa deve essere una delle preoccupazioni più significative per il cristiano.

Già Papa Paolo VI ne aveva fatto oggetto della sua esortazione “Evangeli Nuntiandi”, e Papa Francesco è rimasto nella scia del suo santo predecessore con l’esortazione “Evangeli Gaudium”. Insieme questi due documenti magisteriali sanciscono la necessità e la gioia della evangelizzazione. L’espressione utilizzata dai due Pontefici è stata «confortante gioia di evangelizzare».

Il bisogno di annunciare e di essere chiari in ciò che si esprime si accompagna ad una difficoltà, che è quella del riferirsi in modo chiaro, intelleggibile e scevro da possibilità di equivoci, in un mondo che presenta diverse sfaccettature culturali e di apprendimento.

Ecco dunque l’obbligatorietà di un aggiornamento dei metodi e delle espressioni.

Spesso questa necessaria accezione viene accolta con diffidenza da chi intende in modo errato il significato di «tradizione».

La Traditio, ovvero la tradizione a cui si deve fare riferimento è esclusivamente quella apostolica. Con la morte dell’ultimo dei testimoni oculari del Cristo, che si ritiene a stretto rigore di logica e di risultanze storico-letterarie l’apostolo Giovanni, la Rivelazione si è chiusa definitivamente.

Sono passati da quel momento ormai più di 1900 anni, e nulla può e deve essere aggiunto. E nulla si è manifestato mai come papabile per un’aggiunta. E mai sarà.

Tutto ciò che è stato creato come riti, liturgia, pia manifestazione, preghiera, e altro, è stato di legittima competenza della Chiesa al fine di svolgere il mandato affidato da Cristo. Tutto quindi deve essere ricondotto ad una modalità che può essere legittimamente modificata. Ciò che invece deve restare immutato è il contenuto della Rivelazione, il quale può essere approfondito al fine di una migliore comprensione, ma assolutamente non cambiato nella sua forma essenziale.

Santa Messa in latino o in lingua locale, modalità di celebrazione, preghiere, e altri aspetti sono solo soggetti all’opportunità di una migliore trasmissione del kerygma, e non devo creare nostalgie di sorta, sane o malate, in quanto sono esclusivamente dei mezzi e degli strumenti.

L’aggiornamento dei mezzi diviene quindi non solo un’opzione, ma addirittura un obbligo se porta ad un miglioramento della comprensione della Parola.

Attaccarsi sentimentalmente a uno strumento può essere compreso sotto l’aspetto umano, ma deve essere un fatto da superare consapevolmente da parte di un cristiano maturo che ha veramente a cuore l’evangelizzazione.

I modo di supplire ai cambiamenti ci sono. Recuperare una spiritualità che si ritiene personalmente indebolita da una variazione di rito o di preghiera, può essere rimediata con la partecipazione sentita e spirituale alle celebrazioni, ma anche da una meditazione attenta di un qualsiasi brano della Bibbia.

Si tratta dunque di operare un salto culturale che rientra pienamente in ciò che Gesù ha affidato alla Chiesa, ovvero una dimensione di corresponsabilità volta al servizio della comunione e della missione.

A questo proposito la Chiesa si è incamminata in un percorso sinodale. Il Sinodo prevede una fase narrativa, con la quale si indaga sulla storia dell’evangelizzazione e dei suoi sistemi, a cui segue una fase sapienziale, per arrivare infine a quella profetica.

Il modello profetico non va inteso con l’accezione della preveggenza, ma su come venne inteso dal popolo ebraico: il profeta è colui che pone i binari per restare sulla strada del Signore, e interviene quando la direzione prende una via estranea al progetto di Dio.

L’obiettivo è quello di fondare una vera vita di comunità dando il giusto primato a Dio.

Perdono e pace tra fratelli: il giudizio sarà quello che usiamo noi

Perdono e pace tra fratelli: il giudizio sarà quello che usiamo noi

«Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Dalla liturgia).

L’atteggiamento benevolo verso gli altri uomini, il dovere di perdonare chi ci ha fatto e chi ci fa del male non nasce dal fatto che gli altri, in particolare chi ci fa del male, meritino qualcosa di buono da noi.

Spesso chi ci offende non merita proprio il nostro perdono né la nostra benevolenza.

Dobbiamo perdonare gli altri perché Dio perdona noi. Il motivo è solo questo.

Se noi non riusciamo a capire che Dio ci perdona, perché pensiamo di non avere mai fatto nulla di grave, perché pensiamo che i peccatori siano solo gli altri (e questo oggi è un modo di pensare molto diffuso) allora non riusciremo a perdonare chi ci fa del male. Ma non riusciremo a gustare nemmeno il perdono del Signore, perché abbiamo perso il senso del peccato (quantomeno il senso del nostro peccato, perché il senso del peccato degli altri in noi è sempre vivo!) e pensiamo, a torto, di non avere nulla da farci perdonare.

Ricordiamo questo quando qualcuno ci fa qualche torto: il Signore nel giudicarci userà con noi lo stesso metro che usiamo con i nostri fratelli.

Prendere la propria croce non implica solo sofferenza

Prendere la propria croce non implica solo sofferenza

Seguire Gesù vuol dire dare gioia e pienezza alla nostra vita

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Dalla liturgia).

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».

Prendere la propria croce non significa cercare la sofferenza. Il Signore non ce lo chiede.

Prendere la propria croce significa accettare di fare nella nostra vita la volontà di Dio, anche quando significa accettare sacrifici e rinunce.

Accettare di fare la volontà di Dio spesso ci da fastidio perché noi siamo portati a voler essere autosufficienti, a non dipendere da nessuno, neanche da Dio. Non ci piace che la nostra vita sia nelle mani di un altro, fosse anche Dio.

Ma è invece accettando la volontà di Dio che la nostra vita verrà salvata, cioè potremo vivere pienamente la nostra esistenza terrena, nella pace e nella gioia, pur con tutte le limitazioni e le sofferenze che questa nostra vita talvolta ci riserva, e soprattutto potremo essere accolti nella gioia piena ed eterna del Paradiso.

Il pane dato da Gesù è eterno

Il pane dato da Gesù è eterno

Dio trasforma in bene ogni male

«Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Dodici». «E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». E disse loro: «Non comprendete ancora?» (Dalla liturgia).

«Non comprendete ancora?». Il Signore rimane amareggiato dall’ottusità dei discepoli, che non riescono a vedere la mano della Provvidenza in ciò che accade nella loro vita. Sono piegati sul loro problema contingente (c’è poco pane), non riescono a vedere più in là, ad un palmo del loro naso. Gesù da una parte e i discepoli dall’altra sembra che parlino con due vocabolari diversi, che non riescano proprio ad intendersi.

Anche noi tante, troppe volte, facciamo così. Siamo talmente presi dai nostri problemi quotidiani che non vediamo negli avvenimenti della nostra vita l’agire di Dio, quando sarebbe agevole accorgercene, se solo riuscissimo ad usare bene la nostra ragione! Pensiamo spesso che Dio sia lontano, che non si curi di noi. E non ci accorgiamo invece di quanto ci sia vicino, di quanto si prenda cura della nostra vita.

Anche quando viviamo situazioni difficili, magari situazioni di grande dolore, Dio ci è vicino. Può essere che non faccia quello che gli chiediamo, ma possiamo essere certi che Egli si prende cura di noi. Perché ci ama e ci vuole felici, non necessariamente in questa nostra esistenza terrena, ma certamente e per sempre nella vita eterna.

La salvezza non si ottiene per magia ma per volontà

La salvezza non si ottiene per magia ma per volontà

Gesù ci ha insegnato che per salvarci occorre entrare in contatto con Lui

«E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati». (Dalla liturgia)

«Quanti lo toccavano venivano salvati». Non c’è nulla di automatico nell’agire di Gesù. Né tantomeno di magico.

Le persone che riuscivano a toccarlo, magari anche solo un lembo del mantello, venivano salvate. Ma non venivano salvate per qualche energia particolare o per qualche potenza magica che veniva sprigionata da Gesù o dal mantello, ma per la fede con la quale si erano decisi ad entrare in contatto con Lui.

Queste persone credevano che Gesù aveva veramente la possibilità di aiutarle, e la loro fede è stata ripagata. Nulla come la fede muove la potenza di Dio.

Dio non vuole agire senza il nostro desiderio, aspetta che noi davvero vogliamo ciò che gli chiediamo, e crediamo che davvero Egli ce lo possa dare.

Il nostro interesse ci chiude gli occhi dinnanzi al male

Il nostro interesse ci chiude gli occhi dinnanzi al male

La cruda verità emerge da un esorcismo di Gesù

Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» (Dalla liturgia).
«I mandriani si misero a pregarlo che lasciasse il loro territorio». C’è da restare stupiti del comportamento di queste persone. Gesù ha liberato un uomo gravemente vessato dal demonio, e i mandriani (che senz’altro non potevano non conoscere la situazione di questa persona) lo pregano di andarsene.

Il fatto è che Gesù ha permesso ai demoni di entrare in una grande mandria di porci, e questo ha fatto sì che i maiali annegassero, causando, evidentemente, un danno economico.

Noi spesso chiediamo l’aiuto di Dio per le vicende della nostra vita, ma quando si tratta di rinunciare a qualcosa di nostro, oppure di cambiare qualcosa nel modo di vivere, nelle nostre abitudini, ecco che dell’aiuto di Dio facciamo volentieri a meno.

Chiediamo al Signore di darci la grazia di comprendere quale sia la bellezza della sua proposta d’amore per noi, e allora non avremo paura di dover affrontare qualche sacrificio o qualche rinuncia pur di ottenere quello che Egli ci vuole donare.

«Non chi dice Signore, Signore …»

«Non chi dice Signore, Signore ...»

Per comprendere la Parola occorre viverla

«A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Dalla liturgia).

Perché questo brano ci dice che se non capiamo questa parabola non capiremo neppure le altre? Perché questa parabola ci insegna a rapportarci in modo corretto, e quindi fruttuoso, alla parola di Dio, e all’insegnamento autentico della Chiesa che la interpreta in modo autorevole.

Se noi non sappiamo trarre frutto da quello che Dio ci insegna, cioè se non mettiamo in pratica la sua parola, tutto l’insegnamento del Vangelo, tutte le pratiche religiose diventano una cosa inutile, un inutile parlare e un vuoto ritualismo che non aiuta la nostra vita e non ci giova a salvezza.

Dio ci ha dato la sua parola perché noi la prendiamo sul serio per quello che è: parola di Dio, che genera in noi la vita, che porta frutti di bene per noi e per gli altri se cerchiamo, con il suo aiuto, di metterla in pratica.

San Sebastiano, militare, tribuno e martire

San Sebastiano, militare, tribuno e martire

La storia di uno dei Santi protettori della Valle Arroscia

Nella Valle Arroscia è fervida la devozione a San Sebastiano, illustre martire. Vediamo quindi la sua storia che è ricca di fatti che non tutti conoscono.

Sebastiano nacque a Narbona nel 256, e fu cresciuto a Milano e avviato alla fede cristiana. Si trasferì poi a Roma e si arruolò nell’esercito romano.

Per le sue capacità divenne ufficiale e fu poi posto al servizio diretto dell’imperatore, entrando nell’ambito delle guardie predisposte alla sicurezza del monarca. Arrivò ad essere tribuno della prima corte pretoria, a stretto contatto con Diocleziano, il quale era molto ostile ai cristiani perché non volevano eseguire i sacrifici rituali a beneficio dell’imperatore.

In questa qualità proseguì a seguire coraggiosamente la sua fede in modo operoso, dando sepoltura ai martiri cristiani, sostenendo quelli incarcerati e diffondento il messaggio cristiano a corte.

Avvenne che furono arrestati due fratelli cristiani, Marco e Marcelliano, figli di tale Tranquillino. Il padre ottenne un rinvio dell’esecuzione della condanna a morte per poter convincere i figli a effettuare il rito sacrificale. Quando i due stavano per cedere, intervenne Sebastiano il quale li indusse a perseverare nella fede con un discorso così accorato e ispirato che rese radioso il suo volto. Sta di fatto che le persone presenti al suo sermone, come ad esempio Zoe col marito Nicostrato, che era capo della Cancelleria Imperiale, il cognato Castorio, Tranquillino, il prefetto romano Cromazio e suo figlio Tiburzio, Castulo e Marzia, si convertirono al Cristianesimo. In particolare Zoe divenne muta e riacquistò la parola solo dopo 6 mesi dopo che Sebastiano le toccò le labbra e la segnò col Segno della Croce. Tutti i presenti inoltre subirono successivamente il martirio piuttosto che rinnegare la Fede.

Quando Diocleziano scoprì che Sebastiano era cristiano lo condannò a morte: fu legato a un palo e fu sottoposto al lancio di frecce da parte dei suoi commilitoni.

Creduto morto, il corpo di Sebastiano fu lasciato legato al palo affinché fosse cibo per le fiere. Ma Santa Irene lo recuperò e scoprendolo ancora vivo lo ricoverò a casa sua sul Palatino.

Guarito prodigiosamente, Sebastiano si recò con coraggio da Diocleziano mentre questo stava celebrando le funzioni in omaggio al Sol Invictus, e lo rimproverò pubblicamente.

Diocleziano allora lo condannò nuovamente attraverso flagellazione sui gradini di Elagabalo (gradus Helagabali) fino al giungere della morte (20 gennaio 288), e fece gettare poi il corpo nella Cloaca Maxima, ovvero nella fogna romana. Il corpo però che fu trasportato verso il Tevere si impigliò nei pressi della Chiesa di San Giorgio al Velabro. Fu recuperato da Lucina, una matrona romana cristiana, la quale lo fece portare nelle catacombe che ora portano il nome del Santo, sulla Via Appia. 

Il nome di San Sebastiano figura nella Depositio martyrum, ovvero il più antico calendario della Chiesa di Roma, che risale al 354.

San Sebastiano è venerato dalla Chiesa Cattolica e dalla Chiesa Ortodossa. La sua ricorrenza cade in corrispondenza della data della sua morte, il 20 gennaio.

Per accogliere Gesù occorre la «circoncisione del cuore»

Per accogliere Gesù occorre la «circoncisione del cuore»

Nessun miracolo può portarci a credere se non purifichiamo il cuore

«Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”» (Dalla liturgia).

Natanaele (chiamato anche Bartolomeo) era una persona onesta. La sua naturale sincerità, la sua rettitudine di vita lo rendeva naturalmente aperto alla rivelazione del Signore. È bastato poco («ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi», gli aveva detto il Signore) per riconoscere in Gesù il Figlio di Dio e il Re di Israele.

Se pensiamo che i capi dei Giudei hanno deciso definitivamente di uccidere Gesù dopo un miracolo clamoroso, avvenuto pubblicamente, dopo cioè che Egli aveva fatto risorgere Lazzaro già da quattro giorni cadavere, questo ci fa capire che nessun segno del Cielo può illuminare la nostra mente né riscaldare il nostro cuore se non abbiamo un animo ben disposto ad accoglierlo.

Maria Santissima, arca dell’alleanza

Maria Santissima, arca dell'alleanza

Perché la Santa Vergine è invocata con questo titolo

Tra le invocazioni che rivolgiamo alla Madre di Dio, Maria Santissima, troviamo anche l’appellativo di «arca dell’alleanza».

Il motivo è semplice da dedurre: si tratta di colei che ha accolto in sé la divinità, il Logos.

Non tutti però ricordano che c’è un’anticipazione antica nel libro dell’Esodo e precisamente nel capitolo 40, quello conclusivo.

Dopo aver adempiuto correttamente a quanto Dio aveva comandato, di Mosè è scritto che «terminò il lavoro».

Questo sta a significare che da quel momento sul «lavoro» compiuto da Mosè sarebbe intervenuto Dio stesso.

L’arca dell’alleanza, o meglio, come è scritto sul testo ebraico, l’arca della testimonianza, venne collocata all’interno della tenda del convegno, ovvero nel luogo in cui avrebbe dimorato il Signore durante gli spostamenti nel Sinai.

Il libro dell’esodo ci riferisce che una colonna di fumo precedeva gli ebrei nel cammino, e durante le soste, una nube copriva la tenda rendendola inaccessibile agli uomini.

Se ci pensiamo, anche nell’Annunciazione abbiamo questa immagine. L’arcangelo Gabriele nel rispondere alla domanda di Maria di come potesse avvenire il suo concepimento verginale, risponde che «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo» (Lc 1,35).

Questa analogia non è un caso ma la vera profezia annunciata nel libro dell’Esodo riguardo a Maria Santissima, che è arca che ha custodito Dio.

La libertà dei figli adottivi di Dio

La libertà dei figli adottivi di Dio

L’amore di Dio va oltre ogni confine, come la libertà che ci ha donato.

«Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Dalla liturgia).

«Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». Il Signore non impone il suo insegnamento in modo autoritario.

Le parole di Cristo sono spirito e vita, si impongono da sé, perché sono parole di verità.

Gesù insegna, non dà consigli. Ci invita sì ad imparare da Lui, ma non lo fa con durezza del comando che obbliga, bensì con la dolcezza della persuasione che convince.

Accogliere l’insegnamento di Gesù non significa piegarsi ad un’autorità che vuole imporci la sua legge, ma ricevere una parola di verità che, se accolta ed obbedita, rende la vita migliore.

Non conta la linea di sangue, ma la Fede

Non conta la linea di sangue, ma la Fede

La salvezza è per tutti

«Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente». Gli disse: «Verrò e lo guarirò».
Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito
» (Dalla liturgia).

Il miracolo di Gesù beneficia il servo del centurione. Il centurione è un romano, un pagano, probabilmente simpatizza per la religione del Dio di Israele, ma è comunque un estraneo al popolo eletto. Eppure Gesù lo beneficia, gli fa avere quello che vuole.

Con Gesù cade la barriera tra il popolo eletto di Dio e gli altri: la salvezza è per tutti. Ciò che fa la differenza non è la stirpe, neanche il culto: è la fede.

Il discorso del centurione è un discorso fatto da uno che ha fede: come io comando ai miei subalterni, e ottengo ciò che comando perché ho il potere di farlo, così Tu puoi fare tutto quello che vuoi, perché hai il potere di farlo.

Il centurione esprime una fede solida, piena, nella divinità di Gesù, anche se probabilmente non l’ha ancora compreso del tutto. Ma sa che Gesù può, e si fida di Lui. E quando la potenza di Dio incontra la fede dell’uomo – ci dicono i padri della Chiesa – i risultati non tardano a mostrarsi.

Farisei? Lo siamo quando chiudiamo il cuore

Farisei? Lo sLo siamo quando chiudiamo il cuore

Gesù disse : “Fate ciò che dicono, ma non fate ciò che fanno”.

Nel parlare ai farisei della sua epoca, Gesù intendeva rivolgersi a tutti gli uomini.

Sappiamo chi erano i farisei: gente molto osservante, austera scrupolosa, che era certa di fare nulla di male e contro le Scritture.

Purtroppo questo atteggiamento è comune anche ai nostri giorni, con cristiani che dicono: «Io non rubo, non uccido, quindi sono un a brava persona e non ho bisogno della Chiesa».

Questo è un modo di pensare che addirittura è peggiore di quello dei farisei, che almeno osservavano i precetti. Si crea dunque una sorta di moderno fariseismo, che rifiuta anche la forma, oltre che la sostanza, lasciando viva solo l’apparenza.

Ma nelle parole di Gesù ci sono significati ancora più profondi che accusano l’ipocrisia.

I farisei erano duri con i peccatori, non tolleravano alcuna mancanza, ed erano molto propensi (forti della convinzione di essere buoni) che non vedevano neppure «la trave» nei loro stessi occhi.

Siamo così anche noi quando confondiamo la misericordia con la condanna del peccato.

La realtà cristiana prevede che il peccato sia sempre condannato, ma occorre essere misericordiosi col peccatore. Gesù ha infatti detto chiaramente che non spetta a noi separare la zizzania dal grano. Non usando misericordia nei confronti dei peccatori noi compiamo il peccato più grande: metterci al posto di Dio Giudice, ripetendo il peccato originale.

Non spetta a noi giudicare per non essere a nostra volta giudicati. Saremo giudicati col nostro metro: siamo noi stessi a chiederlo a Dio tutte le volte che recitiamo il Padre Nostro («… rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori …»).

Le regole vanno osservate: i Sacramenti si ricevono in stato di grazia. Ma il giudizio sul peccatore spetta solo a Dio.

Ecco perché Gesù avvisa spesso i farisei e noi allo stesso tempo: non siate sepolcri imbiancati e usate misericordia.

Perché il Natale è festeggiato il 25 dicembre?

Perché il Natale è festeggiato il 25 dicembre?

Una data che ha anche una tradizione pagana

Oggi a parlare di «inculturazione» si rischia di non essere compresi, perché ci si scandalizza quando si cerca di far crescere una persona portandola gradualmente ad una scoperta di Fede.

Mi riferisco a tutti quelli che per scarsa conoscenza strumentalizzano le note «preghiere» alla Patchamama.

Anticamente l’inculturazione era uno dei mezzi usati più frequentemente, ed era, come oggi, considerato uno strumento intelligente.

Il 25 dicembre era una data che rappresentava per la società romana un giorno importante sia dal punto di vista religioso che da quello civile.

Va ricordato infatti che la «religione» dei Romani, era molto utilitaristica. Non si pretendeva che si credesse negli dei, ma era sufficiente praticare i riti per non farli arrabbiare, allo scopo unico di proteggere Roma.

I Romani, verso la fine di quello che oggi noi chiamiamo dicembre, festeggiavano i Saturnali, ovvero i giorni dedicati al Sol Invictus, il Sole invincibile. Nello specifico, il 25 dicembre, proprio nel cuore delle festività, era detto Dies Natalis Sol Invictus.

Era di fatto l’immagine del Dio che con la sua apparizione e la sua luce sfolgorante vince le tenebre.

Questo significato fu assunto dai Cristiani, i quali comprendevano tra le tenebre anche le divinità pagane. Non vi era quindi alcuna difficoltà nel sostituire la festa pagana e dargli un significato cristiano che spiegasse una delle funzioni del Cristo, ovvero l’illuminazione delle genti.

Questa «sostituzione» avvenne in modo praticamente automatico: si trattava infatti del festeggiamento della nascita del Dio che illumina. Non vi fu quindi alcun documento ad attestarlo, e di preciso non si sa neppure esattamente quando il 25 dicembre divenne una festa «completamente» cristiana.

Benedetto XVI, durante un’udienza disse: «Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204».

Prima di allora si è sempre fatto riferimento unicamente al documento «Cronografo del 354» dal quale si desume che la nascita di Cristo fosse festeggiata già prima del 336.

Si è trattato dunque di un’acquisizione graduale che è sempre stata considerata simbolica.

È curioso però constatare che dagli incroci delle risultanze dei documenti antichi, alcuni studiosi non escludano che in effetti gli eventi evangelici della nascita di Gesù di Nazareth possano essere accaduti proprio verso la fine di dicembre.

La collocazione del giorno della nascita di Cristo non è però oggetto di fede e resta una magnifica attestazione di significato. Non a caso la data del Natale è considerato una giornata di felicità e augurio di pace per ogni cultura.

Gesù richiama la fermezza

Gesù richiama la fermezza

La misericordia non esclude la giustizia e la coerenza

«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Dalla liturgia).

Oggi, molto spesso, siamo tentati di proporre un cristianesimo riveduto, addolcito, politicamente corretto, che non è nemmeno una brutta copia di quello vero.

Una caratteristica di questo pseudo-cristianesimo, di questa religione così diversa da quella del Vangelo, è immaginare che il cristiano – sul piano dei principi – possa e debba andare d’accordo con tutti. Anche con coloro che esplicitamente rifiutano il messaggio di Gesù e hanno una concezione della vita assolutamente diversa.

L’importante, si sente talvolta dire, è evitare le polemiche, le discussioni, i disaccordi, le lotte. L’importante è non passare per intolleranti, per fanatici, per retrogradi. L’importante, si dice, è cercare ciò che ci unisce, non sottolineare ciò che ci divide. L’importante è la pace, a qualunque costo, anche a costo di rinunciare alle nostre convinzioni o di nasconderle.

Gesù, dal Vangelo di oggi, sembra pensarla in maniera diversa. Ci dice infatti: «pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No vi dico. Sono venuto a portare la divisione». Il destino della verità è questo: da qualcuno è abbracciata e difesa, da qualcun altro è respinta e combattuta.

Il cristiano che in tutte le questioni che contano, in tutti i problemi etici e sociali, la pensa come con chi cristiano non è, che si trova molto spesso d’accordo anche con chi combatte la nostra religione, deve chiedersi seriamente se sia davvero un discepolo del Signore.

Se il denaro è il centro di interesse si perde di vista l’essenziale

Se il denaro è il centro di interesse si perde di vista l'essenziale

L’obiettivo è il Regno di Dio

Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio (Dalla liturgia).


Il brano del Vangelo di oggi ci parla di una vicenda di una lite per un’eredità. È una cosa purtroppo molto comune, spesso gli eredi litigano per le questioni legate alla successione di un defunto. Per questo la legge di Mosè, al pari delle moderne legislazioni, regolamentava nel dettaglio le questioni ereditarie, ed era normale che le persone si rivolgessero agli esperti della legge, ai rabbì, per avere luce su questi affari.

Dunque un uomo si avvicina a Gesù e gli dice che il fratello non vuole dividere con lui l’eredità. E Gesù gli risponde: «Cosa vuoi da me? Non mi interessa». Come? A Gesù non interessa la giustizia? Non gli interessa aiutare una persona che ha subito un sopruso? Non gli sta a cuore la sorte di chi è stato derubato dall’egoismo degli altri? No, certo che no. Ma senz’altro a Gesù sta più a cuore che non si facciano confusioni, gli sta a cuore che si capisca che il suo messaggio è innanzitutto l’annuncio del Regno di Dio, e non la sistemazione delle cose di questo mondo.

Pesca miracolosa: perché Giovanni specifica che i pesci furono 153?

Pesca miracolosa: perché Giovanni specifica che i pesci furono 153?

153 era il numero dei popoli conosciuti, un’indicazione derivante dalla numerologia ebraica, o altro?

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù risorto esorta Pietro a gettare le reti, e ne scaturisce una pesca miracolosa. La narrazione di questo evento, però, specifica addirittura che il numero di pesci che gli apostoli portarono sulla barca fu 153.

Perché Giovanni ci tiene tanto a far sapere questo dettaglio che potrebbe essere interpretato come banale?

Sappiamo che nelle Scrittura nulla è banale, tanto è vero che da millenni ogni parola viene analizzata e produce fonti inesauribili di interpretazioni calzanti.

Alcuni esegeti spiegano semplicemente che Giovanni volesse in questo modo attestare la propria presenza all’evento, tanto da essere in grado di riferire un dettaglio così particolare. Ma incuriosisce la particolarità che questo numero assume.

Altri studiosi sostengono che 153 fosse il numero delle popolazioni allora conosciute (opinione accademica molto accreditata). In questo caso il significato oltrepasserebbe l’aspetto informativo. Il riferimento passerebbe chiaramente ad essere l’evangelizzazione in tutto il mondo, superando le barriere costituite dalla convinzione giudaica circa il “popolo eletto”.

Abbiamo diverse testimonianze circa gli studi effettuati su questo argomento, alcune delle quali coinvolgono dei giganti del pensiero cristiano.

San Girolamo, per esempio, era convinto che le specie ittiche esistenti fossero proprio 153. Ma ad onor del vero occorre dire che il numero delle specie marine, secondo altri autori, potesse essere anche differente.

La riflessione di Sant’Agostino ricorse alla matematica. Il numero 153 è una cifra “triangolare” con la base costituita dal 17 (non a caso corrispondenti a 10 + 7, per gli ebrei rispettivamente moltitudine e totalità. Di conseguenza il messaggio sarebbe quello di presentazione della pienezza della Chiesa.

Cirillo di Alessandria individua invece il significato nella somma tra: 100 (i Gentili), 50 (gli ebrei) e 3 (la Trinità).

I tentativi di interpretazione non si fermano però qui.

Il biblista tedesco Heinz Kruse fece ricorso al valore numerico delle parole ebraiche e scoprì che 153 è la somma delle lettere che formano la frase “Chiesa dell’amore” (כנסיית האהבה). Le lettere ebraiche corrispondono a: “qhl h’hbh“.

Vi fu poi il teologo anglicano John A. Emerton, il quale vide un nesso con Ezechiele 47,10, verso che descrive i pescatori compresi tra le località sulle rive del Mar Morto, Enghedi ed EnEglaim. L’analogia viene colta perché stranamente anche i valori numerici dei nomi di queste località offre come risultato il numero 153.

È un profilo molto particolare della storicità dei Vangeli. Certo, essi non ignorano che gli eventi riguardanti Gesù hanno una dimensione profonda e trascendente che va oltre la realtà immediata delle cose. Tuttavia, sono anche convinti che il loro messaggio nasce da una vicenda storica, verificabile e documentabile attraverso la testimonianza diretta. Così ha fatto Giovanni a proposito del sangue e dell’acqua usciti dal costato del Cristo crocifisso (19,35) e delle vesti funebri lasciate nel sepolcro dal Cristo risorto (20,7). Il numero elevato si presterà poi a celebrare simbolicamente l’abbondanza dei frutti della missione dei discepoli, “pescatori di uomini”.

Nel 2014 Famigliacristiana.it pubblicò un interessante articolo a questo riguardo, dal quale è stato attinto molto per questo post.

La potenza del Santo Rosario

La potenza del Santo Rosario

Una preghiera che porta vantaggi immensi

Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
(Dalla liturgia).

Celebriamo oggi la festa della Madonna del Rosario. La liturgia della Chiesa ci fa meditare la pagina dell’Annunciazione dell’Angelo a Maria Vergine. Questo episodio (che è poi il primo dei misteri del Rosario) segna l’inizio della nostra redenzione.

Il Rosario è questo: contemplare, con gli occhi della Vergine Maria, i misteri della redenzione. La continua ripetizione della preghiera aiuta ad entrare nel mistero che si contempla.

L’Ave Maria si compone di tre parti: una prima parte riprende proprio le parole dell’Angelo alla Vergine, che abbiamo appena ascoltato, la seconda parte si compone delle parole che S. Elisabetta ha rivolto a Maria nell’episodio della Visitazione, e l’ultima parte inizia ricordando il primo dei dogmi mariani, quando invochiamo Maria come «Madre di Dio», e termina chiedendole di pregare per noi, nella nostra triste condizione di peccatori, adesso e in quel momento fondamentale per la vita di ciascuno che è quello della morte.

Tutti i misteri cominciano con la preghiera del Signore, il Padre Nostro, e terminano con l’invocazione alla Trinità eterna nel Gloria.

Il Rosario è sì una preghiera rivolta a Maria, ma è anzitutto una preghiera rivolta a Cristo, contemplando gli eventi della sua vita, morte e resurrezione. L’importanza e l’efficacia straordinaria di questa preghiera sono state ricordate da molti santi, che anche dalla preghiera del Rosario hanno tratto la forza di camminare con decisione sulla via indicata dal Signore, e dalla stessa Vergine Maria, a Fatima.

È una preghiera pensata per le persone normalmente impegnate nel lavoro e nella famiglia, una preghiera che si può recitare a pezzi, oppure anche mentre si svolge qualche altra attività. Se abbiamo la buona abitudine di recitare il Santo Rosario nella giornata, manteniamola. Se invece non l’abbiamo cominciamo a farlo, magari con una decina. Non è un impegno tanto gravoso, e i suoi vantaggi possono essere immensi.

La 100.a Santa Messa di Don Luciano in parrocchia

La 100.a Santa Messa di Don Luciano in parrocchia

Il nostro vicario parrocchiale taglia un traguardo simbolico importante

Con la Santa Messa celebrata questa mattina presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, a Mendatica, Don Luciano supera il traguardo delle 100 Messe in parrocchia.

Tutta la comunità gli si stringe attorno nella speranza di collaborare con lui per la vita religiosa (e non solo) del nostro paese.

Tanti auguri e grazie di cuore, Don Luciano. Ad maiora.

Si evangelizza solo attraverso la Parola di Dio

Si evangelizza solo attraverso la Parola di Dio

Un discepolo di Gesù non è tale se usa la logica degli uomini o le proprie interpretazioni personali

«Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche. In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite. Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro».
(Dalla liturgia).

Gesù da tre compiti ai suoi apostoli: liberare dal demonio, guarire dalle malattie e annunciare il regno di Dio. I compiti che Gesù ha dato ai suoi inviati sono i medesimi che Egli stesso ha realizzato.

L’apostolo ha Gesù come modello, la missione non è qualcosa che ha assunto di sua iniziativa, è obbedienza a un comando (è Gesù che manda), e anche il contenuto della missione è vincolato dalla parola del Signore.

L’apostolo non è mai un libero professionista: è legato ad un comando e ad una parola. Il cristiano che pensa di agire di testa propria, di annunciare un vangelo diverso, magari adattato alle proprie idee o a quelle del mondo, cessa di essere apostolo, non annuncia più Gesù ma annuncia solo se stesso. E la parola che annuncia non potrà avere efficacia, non potrà liberare dal demonio e guarire dal male, perché non è parola di Dio ma solo parola di uomini. E come tale non ha alcun potere.

L’uomo deve scegliere dentro di sé ciò che è buono

L'uomo deve scegliere dentro di sé ciò che è buono

Un insegnamento antropologico che indica la via di salvezza

«L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda». (Dalla liturgia)

Nel paragone dei due alberi, l’albero buono che porta frutti buoni e l’albero cattivo che da frutti cattivi, sembra che Gesù stia parlando delle opere: l’albero si giudica dai frutti, quindi, se volete essere credibili come discepoli, cercate di essere coerenti nelle vostre azioni. Sarete giudicati non dal messaggio che date, ma dalla coerenza della vostra vita.

In realtà non è proprio così. Le parole di Gesù ci dicono che le nostre azioni dipendono dal nostro cuore, come i frutti dipendono dalla sostanza dell’albero. È il cuore che determina la bontà del nostro agire. È dall’interno che arrivano le azioni buone e quelle cattive. Ciò che è necessario, per essere buoni, è purificare la sorgente, il nostro cuore. Il cuore, nel linguaggio della Bibbia, non è solo il centro delle emozioni, dei sentimenti, ma è il centro di tutto l’essere umano: la sua intelligenza, la sua volontà.

Gesù ci invita, prima ancora che a seguire ciò che il cuore ci invita a fare, a purificarlo. «Vai dove ti porta il cuore» è un modo di dire che ben conosciamo. Ma se il cuore ci suggerisce qualcosa di sbagliato, seguendolo rischiamo di fare sciocchezze, anche grosse. Per cui è necessario che il cuore, cioè l’intelligenza, la volontà, tutto il nostro essere, sia in grado di comprendere e volere ciò che è giusto. Per fare questo è necessario che il cuore sia purificato continuamente.

Facciamo un semplice esempio: se in un mulino noi mettiamo del buon grano, la farina che otteniamo sarà buona. Se mettiamo del grano scadente la farina sarà cattiva. Se i discorsi che ascoltiamo e facciamo, se le nostre letture, ciò che guardiamo alla televisione e sul computer sono cose buone, il nostro cuore sarà puro e in grado di suggerirci le cose migliori. Se abitualmente invece ci perdiamo in discorsi inutili o grossolani, se ciò che leggiamo o ascoltiamo non sono cose buone, il nostro cuore non sarà in grado di indirizzarci verso il bene, ma ci porterà a fare del male, a noi e agli altri.

Il Signore ci vuole felici, per questo ci da questi suggerimenti: perché noi possiamo essere in grado di riconoscere ciò che è bene e ciò che è male, non basandoci su quello che pensa il mondo, ma basandoci solo sull’insegnamento del Signore, perché solo in esso troviamo ciò che ci serve per avere pace e gioia.

Nel nome di Maria troviamo la necessità del dogma dell’Immacolata

Nel nome di Maria troviamo la necessità del dogma dell'Immacolata

Per gli ebrei nel nome stanno le caratteristiche personali

«In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli».
(Dalla liturgia).

La festa del santo nome di Maria fu concessa da Roma, nel 1513, ad una diocesi della Spagna, Cuenca. Fu soppressa dal papa san Pio V, ripristinata da papa Sisto V e poi estesa nel 1671 al Regno di Napoli e a Milano.

Il 12 settembre 1683, avendo Giovanni III Sobieski con i suoi Polacchi sconfitto i Turchi che assediavano Vienna e minacciavano la Cristianità, il beato papa Innocenzo XI, come ringraziamento, estese la festa a tutta la Chiesa, e fissò la data nella domenica compresa nell’Ottava della Natività di Maria. Il santo papa Pio X riportò la data al 12 settembre.
È una festa particolarmente legata alla Natività di Maria, che si festeggia il giorno 8 settembre.

Cosa significa celebrare il Nome di Maria? Il nome, nella Bibbia, indica le caratteristiche proprie della persona. Maria nella lingua ebraica ha diversi significati. Ma il vero nome di Maria lo ha pronunciato l’arcangelo Gabriele quando le ha portato l’annuncio: «piena di grazia». È questo l’appellativo con cui l’Arcangelo si è rivolto a Maria, e le ha causato l’iniziale turbamento.

Piena di grazia: significa piena dell’amore di Dio. Il verbo greco (la lingua in cui sono scritti i Vangeli) indica una pienezza completa, straboccante, in cui non può proprio entrare nient’altro. E in Maria non è entrato nulla che ha potuto inquinare o anche solo annacquare la Grazia di Dio. In Maria non è mai entrato il peccato, né quello originale né quelli personali. Per questo è piena dell’amore di Dio.

Essendo piena dell’amore di Dio è la creatura umana meglio riuscita: vivere nell’amore di Dio non mortifica la nostra umanità, ma la esalta, la porta a perfezione. Vivere lontano dal peccato non significa condurre un’esistenza un po’ triste, mortificata, ma vivere bene, pienamente, la nostra vita.

Celebrare il nome di Maria significa celebrare Maria, e celebrare Maria significa ricordare che è attraverso di Lei che Dio si è fatto uomo ed è venuto a salvarci, e che è attraverso di Lei che Dio vuole che andiamo a Lui.
Non stanchiamoci di chiedere l’aiuto di Maria, nelle difficoltà materiali ma soprattutto in quelle spirituali. Ricorriamo a Lei e chiediamole di aiutarci a vivere in grazia di Dio, di aiutarci a fare la sua volontà. Perché solo nella sua volontà è la nostra pace.

Gesù si rivela nella carne e nello Spirito

Gesù si rivela nella carne e nello Spirito

Distinguere ciò che è umano da ciò che è eterno

Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (dalla liturgia).

Gesù dice chiaramente ai suoi concittadini che il brano del profeta Isaia che stava leggendo è riferito proprio a Lui. Che è Lui che porterà a compimento le promesse di Dio.

Per dare un senso a queste parole dobbiamo però considerare quale sia stato lo scopo principale della sua incarnazione: Gesù non si è fatto uomo per risolvere i problemi pratici del vivere, per cancellare il male e l’ingiustizia dalla terra. Se così fosse non potremmo che concludere, a duemila anni di distanza, che ha miseramente fallito.

Lo scopo della venuta del Signore è quello di liberarci dalla schiavitù del peccato, e dalla dannazione eterna che del peccato è la conseguenza, e riconquistarci l’amicizia con Dio, e quindi con i fratelli. Se leggiamo il brano in quest’ottica, le parole di Gesù diventano comprensibili, e vere. I veri poveri siamo noi: quando decidiamo di vivere nel peccato.

Il peccato ci rende poveri, ci priva della cosa più importante della vita: la grazia di Dio, cioè la vita interiore che Dio continuamente ci trasmette, e la promessa della vita eterna. Il peccato poi ci rende prigionieri, prigionieri di noi stessi, nel senso che ci ingabbia e ci rende difficile fare a meno di esso. Ci rende oppressi, perché ci toglie la gioia di vivere, e spesso ci priva di un atteggiamento di vera carità verso i nostri fratelli. Ci rende ciechi, non fisicamente, ma nel senso che chi vive nel peccato in maniera abituale perde di vista il senso della vita, non capisce più cosa sia al mondo a fare, vive nella confusione, in un tourbillon di cose inutili, perdendo di vista ciò che per cui vale davvero la pena di vivere.

Proclamare l’anno di grazia. Cos’è questo anno di grazia? È il tempo che stiamo vivendo, dopo che Gesù, con il suo sacrificio, ci ha riconciliati con il Padre e ci ha permesso di uscire dalla schiavitù del demonio, ci ha strappato dalla dannazione riaprendoci la strada per la vita eterna.

In questo tempo di grazia e di misericordia noi siamo chiamati a vivere, amando Dio e il prossimo, osservando i comandamenti del Signore, abbeverandoci a quella fonte di grazia che sono i sacramenti (in particolare la Confessione e l’Eucaristia), cercando con il suo aiuto di non perdere l’appuntamento più importante della nostra vita: la felicità piena ed eterna del paradiso.

L’ipocrisia impedisce di far emergere la sostanza

L'ipocrisia impedisce di far emergere la sostanza

L’accusa ai farisei è straordinariamente attuale

«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare». (Dalla liturgia).

La ragione principale di queste pesanti critiche di Gesù ai farisei è l’ipocrisia. Nel mondo antico ipocrita era la parola che definiva gli attori, che nel teatro recitavano con il volto coperto da pesanti maschere di cartapesta. L’ipocrita in sostanza è uno che finge.

Farisei e dottori della legge fingevano, attraverso abili stratagemmi, di osservare fedelmente la legge di Dio. In realtà ne osservavano con scrupolo i minimi dettagli riuscendo abilmente a trasgredire i precetti fondamentali: la giustizia e la carità. Una religiosità simile non avvicina a Dio, non cambia il cuore.

Anche noi cristiani spesso ci comportiamo così: siamo attenti alle forme ma trascuriamo del tutto la sostanza.

Un simile modo di accostarsi alle cose di Dio offende gravemente il Signore, perché alla fin fine si concretizza in una presa in giro nei suoi confronti.

Chiediamo a Dio di darci un cuore semplice, pulito, che sappia amarlo e obbedirlo in modo puro e onesto, così da permettergli di riversare nella nostra vita i suoi doni di amore e di misericordia.

Essere lontani da Dio è tristezza

Essere lontani da Dio è tristezza

Il brano sul giovane ricco non si fonda sui beni materiali, ma sulla vera gioia

«Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».
(Dalla liturgia).

Molti di noi pensano che il centro di questa pagina evangelica sia: «vendi quello che possiedi, dallo ai poveri». Invece, probabilmente, al centro di questo brano sta la parola «triste».

Gesù non chiede a tutti di disfarsi dei propri beni per seguirlo. Lo chiede a qualcuno, per esempio ai religiosi, ma alla maggior parte dei cristiani non lo chiede.

Per piacere al Signore non è obbligatorio disfarsi dei propri beni e vivere una vita di speciale consacrazione. Al giovane ricco il Signore però lo ha chiesto come condizione per seguirlo. E il giovane ricco ha rifiutato. Ma questo lo ha reso triste.

Perché se ne è andato triste? Era giovane, era ricco: due ottimi motivi per non essere triste! Era anche una brava persona; osservava i comandamenti. E allora? Eppure se ne va via triste.

Quando si perde il Signore si perde la gioia. Questo brano ci mette in guardia dalla tentazione di credere che la ricchezza, le cose di questo mondo, ci possano rendere felici, o almeno soddisfatti. Noi ci illudiamo che i beni materiali possano riempire il nostro cuore. Per questo a un ricco è particolarmente difficile entrare nel regno di Dio: perché crede di avere già quello che gli serve per poter vivere bene, di bastare a se stesso, di non aver bisogno di Dio.

Ma è solo un’illusione: il nostro cuore, come dice Sant’Agostino, è inquieto finché non riposa in Dio, e niente meno di Dio può dargli pace e gioia.

Dogma, un termine che spesso spaventa

Dogma, un termine che spesso spaventa

È un principio fondamentale con basi filosofiche e dottrinali inoppugnabili

Nella prossimità della solennità dell’Assunzione di Maria Santissima al cielo, che celebra l’ascesa in paradiso della Madre di Dio in corpo e anima, dogma della Chiesa Cattolica, soffermiamoci sul significato di questo termine che continua in molti a generare perplessità dovute anche alla scarsa conoscenza del termine.

Stando alla definizione del Vocabolario Treccani, il dogma ( = domma) è: «[dal lat. dogma -ătis, gr. δόγμα -ατος «decreto, decisione», der. di δοκέω «mi sembra»] (pl. -i). – Principio fondamentale, verità universale e indiscutibile o affermata come tale: d. filosofici, politici; i d. della scienza; d. giuridico, principio teorico di un istituto giuridico, del quale costituisce il sostrato fondamentale».

Analizziamo dunque da vicino. È dogma un principio fondamentale (quindi senza il quale si perderebbe fondamento), verità decretata in modo ampio da ritenersi indiscutibile all’interno di una dottrina, che viene affermata (e di conseguenza riconosciuta) da un’analisi filosofica, teologica (in ambito religioso), ma anche politico, scientifico e giuridico in altri campi.

Un dogma non è perciò un qualcosa che dobbiamo capire a tutti i costi, ma accettare per fede dopo che è stato vagliato attentamente e soppesato in ogni suo aspetto, e senza il quale non potrebbero essere tutti gli altri aspetti delle fede che invece hanno un riscontro evidente.

In altre parole, il Papa, decretando ad esempio il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima, non l’ha fatto per devozione, ma perché senza riconoscere la sua ascesa in questo modo, non potremmo neanche credere che essa sia la Madre del Figlio di Dio.

Ne deriva che se crediamo nella Madonna, la conseguenza è quella di non mettere in dubbio la sua Assunzione.

Credere e dare credibilità a un dogma non è altro che essere Cristiani. Se non riconoscessimo Maria come Madre di Gesù non riconosceremmo neppure che Egli è il Figlio di Dio, e dunque non saremmo Cristiani.

Il dogma è allora facile da definire: esso è «verità soprannaturale contenuta, in modo implicito e esplicito, nella Rivelazione, e proposta dalla Chiesa come verità di fede, oggettiva e immutabile» (Vocabolario Treccani).

Un dogma è anche quello della Trinità, o anche della Immacolata Concezione, tutti concetti profondi e inesplorabili dalle capacità umane, ma che si raggiungono nella percezione attraverso una logica stringente e di apertura alla fede.

È curioso infatti vedere come molti fedeli o semplici praticanti non si pongano il problema della Trinità, molto più complesso, e si fissino invece sulla figura di Maria, dimenticando un tratto fondamentale per ogni credente in qualsiasi dottrina: «nulla è impossibile a Dio».

Pietro cammina sulle acque per fede e affonda per paura

Pietro cammina sulle acque per fede e affonda per paura

I limiti che poniamo a noi stessi

Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
(Dalla liturgia).

Pietro, scendendo dalla barca e mettendosi a camminare sul mare, passa dall’entusiasmo spavaldo alla paura insensata. Il suo desiderio di essere vicino al Signore lo porta a fare un atto superiore non solo alle proprie forze, ma anche alla propria fede.

E il Signore lo lascia fare, non pone limiti alle sue aspirazioni. Lo aiuta a rendersi conto della sua debolezza e di basarsi con umiltà non sulle proprie capacità ma sull’aiuto del Signore.

Ci riconosciamo un po’ tutti in Pietro. La nostra vita e la nostra fede conoscono l’alternarsi della sicurezza e dell’inquietudine e della paura, specialmente quando le cose non vanno bene, specialmente quando ci troviamo, come i discepoli, in mezzo a qualche tempesta. Ma non dobbiamo temere: la mano del Signore c’è anche per noi. Non dubitiamo del suo aiuto e della sua attenzione per noi.

Egli non ci abbandona mai, anche quando tutto sembra perduto. Ricordiamoci delle parole che Gesù ha rivolto a Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Non ci spaventiamo se la nostra fede è fragile e inconsistente. Il Signore è pronto, se lo vogliamo, a tendere la sua mano perché possiamo rialzarci.

Gesù spiega la parabola del seminatore

Gesù spiega la parabola del seminatore

Il bene e il male sono nel mondo, ma anche in noi

«Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli» (Dalla liturgia).

La spiegazione della parabola della zizzania è chiarissima: non servono commenti per interpretarla.

È necessario ed urgente invece prendere sul serio questa parola di Gesù: nella realtà di questo mondo, così come lo conosciamo, il bene e il male coesistono. E, se vogliamo essere sinceri, nel cuore di ciascuno di noi trovano posto sia il bene che il male.

Nel mondo di là non sarà così: male e bene saranno divisi per sempre, in Paradiso non c’è posto per il dolore, la tristezza, la cattiveria, nell’Inferno non si trova alcuna forma di bene, ma solo rabbia, malvagità, disperazione.

La scelta spetta solo a noi.

Venerdì 28 luglio la nostra comunità in festa

Venerdì 28 luglio la nostra comunità in festa

Festa patronale e Sante Cresime impartite da Mons. Vescovo Borghetti

Quest’anno la nostra festa patronale, che ricorda i potenti patroni di Mendatica, Santi Nazario e Celso, sarà celebrata con una coincidenza di eventi significativi.

Per Camilla Bianchi, Aurora Gelso e Francesco Bianchi, sarà il giorno della Sacra Confermazione, in cui dalle mani di S. E. Monsignor Guglielmo Borghetti riceveranno il Sacramento della Cresima.

La funzione sarà integrata nella Santa Messa solenne che avrà inizio alle ore 10.30 celebrata appunto dal Vescovo, e concelebrata dal Parroco Don Enrico Giovannini, dal Vice Parroco Don Luciano Massaferro e dal Parroco di Santo Stefano di Villanova d’Albenga, Don Giancarlo Aprosio.

Alle ore 17.30 la recita del Vespro presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, cui seguirà la processione alla quale parteciperà la Confraternita di Santa Caterina Vergine e Martire di Mendatica. È prevista la partecipazione di almeno 11 altre confraternite della zona e l’animazione da parte della banda.

Al termine ci si ritroverà tutti in piazza per un momento di gioia e convivialità.

La nostra comunità si stringe quindi attorno al suo Vescovo, ai suoi pastori e in questo giorno di felicità soprattutto ai cari Aurora, Camilla e Francesco.

Anna e Gioacchino, i Santi del quotidiano

Anna e Gioacchino, i Santi del quotidiano

I nonni di Gesù danno all’Incarnazione il connotato storico e pratico: Cristo è uomo

«Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
(Dalla liturgia).

I nomi dei genitori di Maria non sono ricordati nei vangeli canonici, in quelli che la Chiesa ci insegna essere stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ma da un vangelo apocrifo.

Diversamente dai quattro vangeli canonici, i vangeli apocrifi sono opere scritte più tardi, più lontane quindi dagli avvenimenti della vita di Gesù, e spesso raccontano vicende storicamente non attendibili, e comunque di essi la Chiesa non ci garantisce l’attendibilità. La tradizione dei nomi dei genitori di Maria è comunque molto antica, risale ad un’opera di circa diciannove secoli fa.

In ogni caso, più che sulla certezza sul nome dei genitori della Vergine Maria e sui racconti legati ai loro nomi, possiamo chiederci perché la Chiesa ci fa celebrare la festa dei genitori di Maria, e quindi dei nonni di Gesù.

Celebrare la festa dei nonni di Gesù significa inserire la storia di Gesù, l’incarnazione di Dio, nella storia concreta di una famiglia umana, di una genealogia. L’incarnazione di Dio che si fa uomo passa attraverso la storia degli uomini.

L’incarnazione non è un qualcosa di astratto, ma si è realizzata sul serio, per mezzo di persone che, come noi, hanno un nome e un cognome. È una storia di uomini, ma è anche una storia di Dio.

Attraverso le normali vicende di un’ordinaria famiglia arriva il dono di Dio che supera ogni pensiero e ogni aspettativa. Maria è stata concepita dai suoi genitori come è stato concepito ogni essere umano, ma Dio, sin da quell’istante, la ha preservata da ogni macchia di peccato, in previsione dei futuri meriti di Cristo.

I genitori di Maria, si chiamassero Anna o Gioachino o meno, sono considerati santi tanto dalla Chiesa d’Occidente che da quella d’Oriente. Essi vissero santamente la loro normale esistenza, ma sicuramente non pensavano di concepire una figlia preservata dal peccato originale, e di diventare poi i nonni di Gesù, vero uomo e vero Dio. Hanno vissuto nella santità quotidiana la loro esistenza, non cercando cose eccezionali, ma cercando di fare la volontà di Dio nelle vicende di ogni giorno.

Cosa ci insegna questa vicenda? Cerchiamo di vivere nelle nostre giornate in grazia di Dio, evitando il peccato e cercando di fare la sua volontà. Il resto lo fa Lui, e spesso sono cose tanto belle e tanto grandi che neppure riusciamo ad immaginarle, perché l’agire e il pensare di Dio è molto più grande di ciò che possiamo aspettarci ed immaginare.

Fede e conoscenza: il Timor di Dio

Fede e conoscenza: il Timor di Dio

Dobbiamo impegnarci a conoscere le verità di fede, ma riconoscere i nostri limiti umani

«Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”».
(Dalla liturgia)

Questo Vangelo sembra dirci che meno ne sappiamo, delle cose di Dio, e meglio è. Qualcuno potrebbe intendere che Gesù dica: «restate ignoranti che capirete meglio! ». È paradossale.

Pensandoci bene il sistema di chi vuole dominare sugli altri è quello di lasciare ignorante il popolo. Santi e beati nella Chiesa ci hanno sempre detto il contrario: è un male che i Cristiani non conoscano le cose più importanti della fede.

Come è dunque possibile pensare che il Signore Gesù ci chieda di rimanere ignoranti, in materia di fede? Il Signore non ci chiede di rimanere ignoranti, l’ignoranza è sempre un male. Ci chiede di essere piccoli, cioè di riconoscere in Qualcuno di più grande Colui che ci guida, che ci insegna la verità, che ci da una legge morale che ci serve a vivere bene con Dio, e vivendo bene con Dio ci aiuta a vivere bene con noi stessi, con gli altri e con il mondo.

L’errore non è certo quello di impegnarsi a cercare la verità nelle cose di Dio, l’errore è quello di voler fare tutto da soli, di voler fare a meno della Rivelazione di Cristo, della sacra scrittura, della tradizione della Chiesa, del magistero autentico della Chiesa che le interpreta e le rende applicabili alle situazioni sempre nuove che la vita propone. L’errore è quello di voler fare a meno di Dio nella ricerca della verità, nel voler fare a meno di Dio nella propria vita. È il desiderio di autosufficienza da Dio, quel desiderio che ha portato Lucifero alla ribellione e i progenitori a dare ascolto al sibilo del serpente anziché alla voce di Dio.

Il Signore le sue cose le rivela ai semplici, cioè a coloro che accettano di lasciarsi guidare da Dio attraverso la Chiesa. Invece le nasconde a quelli che si credono sapienti, che pensano di conoscere già tutto. Quando Dio nasconde la sua verità la vita diventa confusa, arida, priva di significato. Magari agli occhi del mondo è una vita di successo, ma lascia a lungo andare il cuore vuoto e un senso generale di insoddisfazione.

Lasciamoci guidare da Dio, attraverso la sacra scrittura e il magistero autentico della Chiesa, che la interpreta in modo corretto. Allora la nostra vita, anche in mezzo alle difficoltà di ogni giorno, sarà luminosa, perché la luce della verità di Dio ci mostra il senso della nostra esistenza e ci scalda il cuore anche nei momenti più difficili.

Avere il cuore duro è non mettere in pratica il messaggio di Gesù

Avere il cuore duro è non mettere in pratica il messaggio di Gesù

Un atteggiamento che spesso attribuiamo agli altri, ma che è responsabilità per i cristiani

«Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore» (Cf. Sal 94 (95), 8ab) (Dalla liturgia)

La parola di Dio è per tutti, sempre. Ma ci sono alcuni passi della Bibbia che toccano alcune persone in modo particolare. Il brano di oggi sembra proprio riguardare chi è più vicino alla vita di fede, ai sacramenti, alle pratiche di pietà.

Molto spesso noi, che giustamente pratichiamo e ci diciamo cristiani, pensiamo e viviamo come chi cristiano non è, come se la preghiera, la pratica cristiana, la lettura e la meditazione di testi religiosi non avessero alcuna influenza sulla nostra vita concreta, sul modo di gestire i nostri affetti, il nostro lavoro, i nostri affari, il modo in cui trascorriamo il tempo libero.

Gesù ci ammonisce: nel giorno del giudizio saremo trattati peggio degli altri.

La pratica cristiana è cosa buona, necessaria e doverosa, ma non deve essere un qualcosa di bello, che ci riempie il cuore in qualche momento, ma che rimane staccato dalle cose normali della vita.

La fede, i sacramenti, la preghiera devono influire sul nostro normale modo di vivere e di pensare, aiutandoci a pensare e a vivere come piace a Dio. Altrimenti è cosa del tutto inutile.

L’odio e il male, perché?

L'odio e il male, perché?

Il male ha mille sfaccettature, ma il denominatore comune è il comportamento dell’uomo

«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe».
(Dalla liturgia)

Questo brano di vangelo sembra tratto dalle cronache dei nostri giorni. Anche oggi – nel silenzio complice dei giornali e delle televisioni – centinaia, migliaia di cristiani vengono perseguitati e anche uccisi per la fede. «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome».

Com’è possibile che il Dio dell’amore susciti odio nelle persone? È possibile, perché molti uomini non si lasciano illuminare dal tranquillo splendore della verità di Cristo, è possibile perché molti uomini non accettano di lasciarsi amare da Dio.

La testimonianza del Vangelo suscita spesso l’odio anche nelle persone più care perché il modo di pensare e di vivere secondo Cristo non è il modo di pensare e di vivere secondo il mondo, tanto che un cristiano dovrebbe farsi qualche domanda se il suo modo di pensare e di agire – specie sui grandi temi della difesa della vita, dell’educazione, della sessualità – è simile al modo di pensare e di agire di chi cristiano non è.

E se è una persona in vista dovrebbe insospettirsi quando chi non è cristiano parla troppo bene di lui. Forse è perché piace più al mondo che a Dio.

Rabbì, insegnaci a pregare

Rabbì, insegnaci a pregare

Vedendo pregare Gesù, gli apostoli si accorgono che c’è un modo particolare di parlare con Dio

«Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Dalla liturgia).

Il Vangelo di oggi ci parla della preghiera. Può sembrare un aspetto non tanto rilevante della nostra vita: ci sono molte altre cose che ci sembrano più importanti! In realtà Gesù non la pensa così. Per lui la preghiera è un aspetto fondamentale della sua vita, senza preghiera la sua vita non potrebbe essere come è.

I discepoli, vedendolo pregare, vedendo il suo rapporto di intimità vitale con il Padre, gli chiedono di insegnarlo anche a loro: pregare è contagioso, è un’attività benefica che fa del bene non solo a noi, ma anche a chi ci circonda.

Gesù non insegna ai suoi discepoli (e a noi) una nuova formula da aggiungere ad altre formule di preghiera. Piuttosto ci insegna uno stile, una modalità, che va bene per ogni tipo di preghiera. Infatti Gesù esordisce dicendo. «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole».

Cosa fanno i pagani di così negativo? I pagani hanno paura delle divinità, per cui si inventano delle formule per tenersele buone. Si prega dio (o gli dei che siano) per propiziarselo, un po’ come si farebbe con una persona potente e temuta, con la quale è bene mantenere buoni rapporti. Ma è un rapporto solo esteriore, di convenienza. È come se si dicesse alla divinità: «adesso ti faccio un sacrificio, una preghiera, di do qualcosa, non farmi succedere qualcosa di negativo e lasciami vivere in pace, che la mia vita me la gestisco io».

Ma le religioni pagane sono solo invenzioni di uomini. I loro dei non esistono, sono creazioni della fantasia. Solo Gesù ci mostra la verità sull’unico Dio vivo e vero. E ci dice chi è Dio: anzitutto è Padre. Ci vuole bene, e vuole essere presente nella nostra vita. Vuole che noi lo amiamo, lo onoriamo e ci fidiamo di Lui. Per questo la preghiera all’unico vero Dio deve essere anzitutto una preghiera di lode e di affidamento. Anche di richiesta, certo, ma è la richiesta fatta da un figlio a un papà, non da un suddito a un sovrano potente e capriccioso.

La preghiera del Padre Nostro è una preghiera di amore e di fiducia. Sono questi i sentimenti che Gesù ci insegna a coltivare nei nostri rapporti con Dio.

La crisi ambientale è connessa a quella umana

La crisi ambientale è connessa a quella umana

Papa Francesco, ecologia e cultura dello scarto

Più volte e a tutti i livelli, Papa Francesco si è dimostrato preoccupato circa le condizioni del nostro pianeta e di conseguenza dell’habitat in cui l’uomo vive.

La denuncia è stata portata anche all’ONU e dunque all’attenzione dei potenti della Terra.

Nelle riflessioni del Papa emerge una stretta attinenza anche con l’aspetto spirituale e religioso. Bergoglio ha rilevato infatti quello che nella sua enciclica Laudato Sì traspare come “Vangelo della creazione”.

In Genesi, ricorda il Papa, i protagonisti della creazione sono tre: Dio, l’uomo e la terra. Le constatazioni oggettive sono due:

  1. Dio è stato escluso, e non figura né nei progetti né nelle considerazioni progettuali
  2. Il rapporto tra uomo e ambiente è divenuto conflittuale.

Si è affermato un utilitarismo dalla vista corta, ovvero poco attento alle implicazioni future, che mira esclusivamente al tornaconto immediato.

C’è inoltre da rilevare che questo “tornaconto” coincide con quello dei potenti, i quali, grazie alle disponibilità economiche possono pilotare scelte politiche, sociali e, naturalmente economiche.

Lo scienziato John Freeman Dyson ebbe a dire, tra il provocatorio e l’amaro, che la scienza sta diventando il produttore di giocattoli per ricchi, e che invece di soddisfare i bisogni, li crea. Un esempio? I viaggi su Marte per turisti.

Nel rapporto conflittuale tra uomo e natura si verificano delle situazioni innaturali. Le risorse (il nome dovrebbe evocare fattori positivi) sono divenute (invece) un problema. Si è affermata la “Cultura dello scarto”, la quale non si limita a gettare risorse, ma viene applicata anche agli uomini: chi non ha voce (feto, malati, disabili, anziani, ecc.) viene soffocato all’altare di un utilitarismo egoista. La vita diviene un accessorio da indossare o dismettere come meglio si crede.

Le soluzioni che vengono proposte, non comprendendo Dio, si basano pesantemente sulla denatalità. Si pensa infatti di risolvere tutto cercando di restare in pochi.

Questa mentalità è pericolosamente contraria ad ogni espressione di libertà e di fratellanza, e di conseguenza (in politica) mina anche l’aspetto democratico.

Il Papa ha anche invocato più volte il ricorso alla sussidiarietà. Lo sviluppo, e ancor più uno sviluppo che sia anche sostenibile, è necessario, ma non può oggettivamente essere imposto. La strada è dunque quella della sussiedarietà, ovvero il mettere in grado tutti di potersi gestire in modo autonomo.

In questo tipo di futuro sostenibile, devono entrare tutti, perché lo squilibrio nella società favorisce anche lo squilibrio in natura, e quest’ultimo distrugge l’ambiente.

Aiutare i popoli a raggiungere la capacità di sviluppo, con spirito cristiano e recuperando Dio, non è elemosina, ma una convenienza per tutti.

Il miracolo è sempre funzionale a qualcosa di più importante

Il miracolo è sempre funzionale a qualcosa di più importante

Le sue vie non sono le nostre vie: il corpo come mezzo di per giungere alla vita eterna

«Non avete letto questa Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?». (Dalla liturgia).

Se chiedessimo ad un certo numero di persone quale è il beneficio maggiore ricevuto dal paralitico del brano di vangelo che abbiamo appena ascoltato, possiamo essere sicuri che la quasi totalità direbbe che è stata la guarigione fisica. Dalla lettura del brano però Gesù sembra non pensarla così.

La prima cosa che fa, quando vede il paralitico, è dire: «ti sono rimessi i tuoi peccati». Gesù ha operato la guarigione fisica solo dopo, e specifica che è stata operata per dimostrare che Egli ha il potere di rimettere i peccati.

Non è la guarigione fisica il primo pensiero di Gesù. Egli ritiene la liberazione del peccato la cosa più importante. La paralisi del corpo impedisce il normale svolgersi della vita, interrompe o indebolisce i rapporti tra gli arti e il cervello, ma il peccato è qualcosa di peggio, che paralizza la vita dello spirito, che interrompe, o indebolisce, il rapporto con Dio. La paralisi del corpo esclude da una completa fruizione della vita di questo mondo, il peccato, come ci dice la prima lettura, può escluderci dalla vita eterna.

Oggi generalmente non si pensa che il peccato faccia male. Quando si dice che oggi si è perso il senso del peccato, si intende dire che abitualmente non pensiamo che non osservare gli insegnamenti che Dio ci ha dato sia qualcosa di negativo. Siamo abituati a pensare che il peccato non abbia conseguenze: «ognuno è libero di fare quello che vuole», si pensa generalmente. L’unico limite alla mia libertà è il rispetto della libertà altrui, ma una volta che non ledo i diritti degli altri, posso fare quello che voglio.

Non è così: il peccato fa male, e può uccidere. Non il corpo ma l’anima. Il peccato lieve (veniale) indebolisce la grazia di Dio in noi, il peccato grave (mortale) la uccide addirittura. E noi lo dobbiamo temere più di ogni altra cosa, perché non dobbiamo temere coloro che uccidono il corpo, ma colui che può far perire il corpo e l’anima (Mt 10,28).

Il Signore opera raramente una guarigione fisica, succede ma è raro. Egli invece ci guarisce dal peccato ogni volta che, pentiti e disposti a cambiare, glielo chiediamo. Anzi, ha istituito un rimedio semplice, facilmente fruibile per guarirci da quella malattia dell’anima che è il peccato: il sacramento della confessione. E per questo è opportuno farne uso, farne un uso serio e frequente.

Oggi in pochi si confessano, ancora meno sono coloro che si confessano bene. È una conseguenza della perdita del senso del peccato. Non crediamo di avere nulla da rimproverarci davanti a Dio. Ma questo non ci rende più liberi, più sereni. Anzi.

In modo direttamente proporzionale alla perdita del senso del peccato aumenta il senso di colpa. Senso del peccato e senso di colpa sono due cose diverse: il primo è la consapevolezza di avere mancato alla legge di Dio (ho bestemmiato, ho perso Messa alla domenica, ho mancato contro la purezza…), l’altro è il senso di insoddisfazione generico e inconcludente che nasce da un senso di inadeguatezza (non sono una buona madre, sono una cattiva persona…).

Il senso del peccato è positivo, ci aiuta a chiedere perdono, a migliorarci, a guarire. Il senso di colpa è negativo: ci rende ansiosi e insicuri. Quando in una persona viene meno il senso del peccato, ecco che generalmente aumenta il senso di colpa.

Perdere il senso del peccato non solo mette in pericolo la vita eterna, facendoci vivere abitualmente in peccato mortale, ma rovina la nostra esistenza terrena, rendendoci schiavi di inutili e distruttivi sensi di colpa.

L’incontro delle due madri

L'incontro delle due madri

Il suggello al compimento dell’Antico Testamento in Cristo

«Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo».
(Dalla liturgia)

La Visitazione di Maria Vergine a sant’Elisabetta è molto di più di un gesto di buona creanza, di un gesto che porta un aiuto materiale. Questa visita simboleggia con grande semplicità l’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Testamento.

Le due donne, entrambe incinte, rappresentano infatti l’attesa e l’Atteso. L’anziana Elisabetta simboleggia Israele che attende il Messia, mentre la giovane Maria porta in sé l’adempimento di tale attesa, a vantaggio di tutta l’umanità.

Nelle due donne si incontrano innanzitutto i frutti del loro grembi: Giovanni e il Cristo. L’esultanza di Giovanni nel grembo di Elisabetta è il segno del compimento dell’attesa: Giovanni esprime la sua gioia perché Dio è davvero venuto a visitare il suo popolo, non l’ha abbandonato alla schiavitù della morte. Nell’Annunciazione alla Vergine Maria l’angelo Gabriele aveva annunciato a Maria la gravidanza di Elisabetta, sterile e anziana, come segno dell’onnipotenza di Dio. La sterilità e l’età avanzata si erano trasformate in fertilità.

Elisabetta, accogliendo Maria, riconosce che si sta realizzando la promessa fatta da Dio all’umanità, ed esclama: «Benedetta sei tu tra le donne e benedetto è il frutto del tuo grembo». Benedetta tu tra le donne è un’espressione che ci riporta a Giaele e a Giuditta, due donne dell’Antico Testamento, due donne guerriere che avevano combattuto per liberare il loro popolo dalla schiavitù. Adesso questa espressione è rivolta a Maria: Maria è una donna pacifica, ma anch’ella sta liberando il suo popolo e l’intera umanità da una schiavitù ancora più pesante: quella del peccato e della morte.

Giovanni Battista esulta nel seno della anziana madre. I Padri della Chiesa hanno visto in questo sussultare di Giovanni nel grembo di Elisabetta un riferimento alla danza che il Re Davide aveva fatto davanti all’Arca dell’Alleanza quando questa stava per entrare a Gerusalemme. L’arca dell’alleanza era un contenitore, una grossa scatola, in cui erano contenuti gli oggetti che ricordavano l’attenzione di Dio per il suo popolo: le Tavole della Legge, un po’ della manna raccolta nel deserto, e il bastone di Aronne.

Giovanni danza davanti a Maria, che è la vera, definitiva Arca dell’Alleanza: nel suo grembo non sono contenute cose che ricordano l’amore di Dio, ma è contenuto il Figlio di Dio.

La festa della Visitazione ci ricorda anzitutto questo: che il Signore viene a visitarci perché si prende cura di noi. E si prende cura di noi perché ci ama. La venuta di Cristo realizza non solo l’attesa dell’antico popolo di Israele, ma realizza anche l’attesa che ciascuno di noi ha nel suo cuore, il desiderio di una vita piena, gioiosa. Il desiderio che la nostra umanità sia pienamente realizzata. Il desiderio di una vita che vada oltre la morte. Tutto questo è venuto a realizzare Gesù nella sua venuta tra noi.

La festa di oggi ci riempie di speranza, proprio perché ci fa capire che il Signore non ci abbandona al male, e che la nostra vita non è un susseguirsi di eventi casuali, ma è lo svilupparsi di un progetto di amore. Maria è colei che è stata scelta per realizzare tutto questo.

Affidiamo a Maria i bisogni e le necessità della nostra vita: come si è presa cura dei bisogni della cugina Elisabetta così saprà prendersi cura delle necessità della nostra anima.

Questa Chiesa da amare e conoscere

Questa Chiesa da amare e conoscere

Prendendo spunto dal titolo del libro di Giuseppe Militello

Il titolo del libro del professor Don Giuseppe Militello, docente di Ecclesiologia, (“Questa Chiesa da amare e conoscere“) offre molti spunti di riflessione.

Se si ascoltano i numerosi commenti che la gente rilascia per strada, nelle discussioni, e soprattutto sui social, dove la “barriera” di schermo e tastiera garantisce uno “scudo” dietro cui sentirsi al riparo dall’essere osservati, emerge che l’idea che si ha della Chiesa è distorta ed è molto distante da quando potrebbe essere se la si conoscesse o la si frequentasse.

In genere si intende “Chiesa” l’edificio di mattoni o pietra, o in molti casi l’istituzione romana.

Queste convinzioni sono totalmente errate. Per capire veramente e in modo corretto cos’è la Chiesa occorre far riferimento al suo nome stesso, che deriva da ἐκκλησία (ekklēsìa) termine greco che si traduce in “assemblea”.

La Chiesa è dunque l’assemblea, ovvero la riunione dei fedeli, i quali svolgono il compito di adorare, ringraziare, pregare, invocare Dio, per compiere il percorso terreno in vista della soluzione escatologica (la vita eterna).

Tutte le critiche rivolte eventualmente a Papi, Vescovi, Sacerdoti o diaconi, sono personali, e quindi non intaccano il significato di Chiesa.

Il Papa è il Vicario di Cristo, successore dell’apostolo Pietro a cui Gesù ha affidato la custodia della Chiesa e della Fede, ma non ha accezioni divine. In quanto uomo il Papa può sbagliare, ma gli eventuali errori non vanno attribuiti alla “assemblea” dei fedeli, e quindi alla Chiesa.

Gesù non ha abbandonato la sua “assemblea”, ma ha promesso che avrebbe mandato lo Spirito Santo, e lo ha fatto.

Confondere quindi la Chiesa con opere degli uomini, soprattutto quando non capiamo i motivi di certe scelte delle istituzioni, è un grave errore e di riflesso mette in dubbio l’opera dello Spirito Santo.

L’incarico dato da Cristo alla Chiesa non è affatto banale, e la responsabilità dei Papi è pesante. La Chiesa deve convogliare verso Cristo le richieste umane di mediazione, in quanto con l’Incarnazione, Gesù è l’unico mediatore di Salvezza.

Questo è il fondamentale: indirizzare verso la Salvezza. Non è saggio dunque fermarsi a discutere su come l’istituzione vaticana intende svolgere questo compito, ma è importante invece concentrarsi sull’obiettivo.

Un’altra accusa che viene rivolta alla Chiesa è quella inerente a certi comportamenti deprecabili e a volte anche imperdonabili di qualche suo membro istituzionale. Fermo restando che il peccato perpetrato da chi dovrebbe essere da esempio è più grave che altri, questo resta un peccato fatto da un uomo. Sarebbe assurdo contestare l’idea per colpa dell’uomo. Sarebbe come ripudiare la democrazia nel caso in cui un Presidente o un Re fossero infedeli.

Il libro di Militello spiega attraverso l’approfondimento della Lumen Gentium la bellezza della Chiesa, e invita soprattutto a conoscerla. Non si può amare senza conoscere, ma è altrettanto vero che senza conoscere è stupido il rifiutare.

Alla base di molte critiche e fraintendimenti c’è proprio la scarsa conoscenza, o, peggio, l’impressione di conoscere solo attraverso luoghi comuni o apparenza. Parlare bene o male, elogiare o criticare qualcosa che non si conosce non è saggio, non è corretto e forse neppure intelligente.

Amare è conoscere

Amare è conoscere

Conoscere Dio è seguire la Sua parola, e significa amarlo

«Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse».
(Dalla liturgia)

La vita eterna consiste dunque nel conoscere Dio? E’ solo un’operazione dell’intelletto? No. Nel linguaggio della Bibbia la conoscenza e l’amore sono legati a doppio filo: si può amare solo ciò che si conosce, e si conosce veramente solo ciò che si ama.

La conoscenza e l’amore sono due facce della stessa medaglia, tanto che per definire l’unione coniugale, che è l’unione più stretta che ci può essere tra due esseri umani, si usa la parola «conoscere».

Il nostro sforzo, in questa vita terrena, deve dunque essere duplice: conoscere Dio, attraverso la sua parola, il catechismo, e tutto ciò che ci fortifica in una sana conoscenza delle cose del Signore, e amare Dio. Come? Facendo la sua volontà: «Chi mi ama osserva i miei comandamenti». Così potremo avere, già in questa vita, un assaggio della pace e della gioia di Dio, e potremo un giorno essere accolti nella beatitudine eterna.

Maternità è collaborazione con Dio, auguri a tutte le mamme

Maternità è collaborazione con Dio, auguri a tutte le mamme

La vita come bene più prezioso

Che la vita sia un bene prezioso è una frase che non incontra contestazioni, ma che purtroppo ai nostri giorni è soggetto ad una retorica pericolosa.

Le contraddizioni che intercorrono tra considerare la vita sacra e accamparsi il diritto di scegliere se far nascere oppure no un bambino, è evidente e ricorrente.

In realtà il concetto fondante di maternità viene spesso sminuito, mentre dovrebbe facilmente essere considerato il valore più alto in assoluto presente su questa terra.

Di fatto costituisce l’esempio più chiaro e esplicito della collaborazione tra Dio e l’Umanità. La donna è stata scelta per essere la più stretta collaboratrice della volontà di Dio, che esprime di fatto nella continuazione della specie umana.

Sebbene la Chiesa abbia giustamente affiancato alla procreazione l’amore tra i coniugi, come fondamento del matrimonio cristiano, essa ricopre un ruolo fondamentale nell’universo.

Si tratta della partecipazione con consapevolezza alla prosecuzione della presenza dell’uomo sulla terra: una responsabilità che innalza l’essere umano a doveri sublimi. È di fatto l’atto che sancisce la maturazione dell’Uomo.

Un uomo e una donna maturi e consapevoli conoscono i propri doveri e li accettano.

La donna è elevata al più alto grado di considerazione e assume una posizione preminente.

Le leggi naturali che Dio ha consegnato all’Uomo assegnano alla donna il ruolo fondamentale che determina la vita, ad immagine della Santa Vergine, Mamma di tutte le mamme, che portò in grembo il Figlio di Dio pur sapendo che una spada gli avrebbe “trapassato l’anima”.

Per questo e per mille altri motivi gli auguri a tutte le mamme del mondo giungano con l’amore più sentito.

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Approfondire le Scritture smentisce anche dei luoghi comuni

La conoscenza superficiale delle Scritture ha portato attraverso i secoli a convinzioni equiparabili a veri e propri luoghi comuni.

Complice la scarsa precisione di chi evidentemente ha utilizzato il titolo o le citazioni dei testi senza particolare puntualizzazione, in una grande fetta di credenti si sono insinuate convinzioni errate, proliferando nel tempo e divenendo scontate.

Due tra i più macroscopici esempi sono l’Apocalisse e il Libro di Giobbe. La prima costituisce l’ultimo libro del Nuovo Testamento e chiude di fatto la Rivelazione, a cui nulla si può aggiungere. Il secondo risulta al momento il più antico tra i testi della Bibbia essendo stato datato nel periodo che intercorre tra il 1900 e il 1700 a.C.

Apocalisse

Apocalisse deve il suo titolo al termine greco ἀποκάλυψις (Apokalupsis) che significa Rivelazione. Si ritiene scritto da Giovanni apostolo, ma testualmente l’autore si cita all’interno dell’opera: si chiama in effetti Giovanni e si trova nell’isola di Patmos.

Si tratta di un testo difficile e complesso sia nella traduzione che nell’interpretazione proprio perché si identifica in un genere letterario specifico (appunto “apocalittico”) che comprende una vasta simbologia, una trasmissione di concetti per immagini.

Non parla di una catastrofe come lo si ritiene normalmente, tanto da far divenire il termine “apocalisse” sinonimo di immane sciagura, ma rivela in senso escatologico quanto avverrà alla fine dei tempi.

Alcune immagini sono forti e prepotentemente indicative, ma il significato complessivo porta ad un’espressione profetica e non certo negativa.

Libro di Giobbe

Quante volte noi stessi abbiamo pronunciato la frase “pazienza di Giobbe”? Ebbene, può sembrarci strano ma Giobbe fu paziente, ma non subì passivamente tutte le prove a cui fu sottoposto.

In realtà fu un uomo abbastanza sfortunato in quanto preso di mira dal demonio, dopo aver ottenuto per questo il consenso di Dio, a patto che il maligno non togliesse a Giobbe la vita.

Fu dunque sottoposto ad ogni genere di patimento sia fisico che psicologico che morale, e sopportò tutto pazientemente finché un giorno la sua rabbia esplose.

Giobbe, allora, se la prese un po’ con tutti, persino con Dio, e a nulla valsero neppure le raccomandazioni dell’Onnipotente che si presentò a lui dopo che Giobbe lo ebbe preteso.

Solo quando Dio lo mise di fronte alla sua condizione di “essere umano”, Giobbe prese coscienza del Timor di Dio e improvvisamente si tappò la bocca con le mani, per significare che a Dio non si deve e non si può replicare.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi …”

"E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi ..."

La profondità del Vangelo e la difficoltà di descriverla in parole umane

Dalla lettura del Vangelo traiamo infiniti spunti: è come una miniera inesauribile. E questa realtà risulta ancora più sorprendente se consideriamo che a parole non si riesce ad esprimere tutta la profondità del messaggio.

Le varie traduzioni dai testi antichi incontrano inoltre il problema di esprimere nei verbi delle lingue nazionali tutta la forza che il redattore ha voluto concentrare sui termini usati, i quali erano probabilmente a loro volta insufficienti in relazione alla potenza del messaggio.

Prendiamo ad esempio quello che è riconosciuto come uno degli inni più sublimi dell’intera letteratura mondiale: il Prologo al Vangelo di Giovanni.

A parte i primi tre versetti, che esprimono in poche ma dense parole la pre-esistenza di Cristo e introducono il pensiero trinitario, troviamo successivamente il motivo di constatare quanto si perda nel leggere le Scritture senza un’adeguata conoscenza di esse.

Nel versetto 14 del Prologo (Gv 1,14) vengono utilizzate espressioni verbali significative. In primis constatiamo che “il Verbo SI FECE carne”. Nessun intervento esterno: è il Logos stesso, del quale ci è stato detto al versetto 1,1 che è Dio, che di sua iniziativa si incarna. Generosamente e in piena libertà.

La traduzione “venne abitare in mezzo a noi”, invece, non rende interamente giustizia al significato, in quanto il redattore intendeva qualcosa di ancora più profondo. La formula usata non è infatti “venne ad abitare”, ma un verbo che nel Nuovo Testamento figura esclusivamente qui e in 4 altri versetti dell’Apocalisse: “Eskenosen”. Si tratta dell’auristo del verbo “piantare la tenda”. L’auristo è infatti un modo verbale greco che indica un’azione conclusa nel passato, ma che protrae le sue conseguenze ancora oggi.

“Piantare la tenda” richiama l’Antico Testamento, e precisamente il momento in cui Dio decise di frequentare con il segno esterno della nube, la tenda del convegno, e di guidare il popolo eletto verso la Terra Promessa.

Nella formula utilizzata da Giovanni c’è quindi l’intenzione di farci capire che con l’Incarnazione, Gesù-Dio ci guida direttamente verso verso la Vita Eterna. Da parte nostra però è necessaria l’accoglienza. La nube si posava sulla tenda, e il popolo si arrestava nel suo cammino per riposare. Quando la nube si innalzava, il popolo la seguiva docilmente.

Nel dirci che il Verbo ha piantato la tenda in mezzo a noi, si vuole anche spiegare che è necessario restare all’interno del percorso che Dio ha tracciato.

Credere è indispensabile, ma non basta

Credere è indispensabile, ma non basta

Cristo è venuto nel mondo affinché crediamo e mettiamo in pratica la sua Parola

«E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate». (Dalla liturgia).

Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui. Per salvarci occorre credere in Lui.

Credere, lo sappiamo, non significa solo ritenere che alcune cose (ciò che diciamo nel Credo) siano vere. Questo sì, certamente è necessario. Ma non basta. Dobbiamo cercare di compiere ciò che il Signore ci comanda.

Conoscenza e azione sono legate tra loro. Dio ci manda la luce per farci capire ciò che è bene, per farci capire che Dio ci ama e ci è vicino, ma chi opera il male questa luce non la vuole, proprio perché mostra la malvagità della propria vita.

Non possiamo illuderci di credere in Dio e vivere nel male, lontani dalla sua grazia, in una condizione abituale di peccato mortale. In questo modo rifiutiamo la luce di Dio. E la rifiutiamo proprio perché mette in mostra la malvagità del nostro agire. Chiediamo al Signore di aiutarci a vivere come piace a Lui.

Dio non ha mandato il suo Figlio per condannarci ma per salvarci. Chiediamogli di aiutarci ad accogliere la sua luce nella nostra vita.

La logica del Regno

La logica del Regno

Le sue vie non sono le nostre vie

«In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
(Dalla liturgia).

«In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». L’affermazione di Gesù è espressa in modo molto solenne: «In verità, in verità io ti dico», è l’espressione che nei Vangeli è riservata alle grandi rivelazioni. E qual è questa rivelazione? Che per entrare nel regno di Dio occorre accogliere il modo di pensare (e quindi di agire) di Dio. C’è sicuramente un preciso riferimento al Battesimo («se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio»), ma il nascere dall’alto significa anche accogliere il modo di pensare di Dio. Il primo dei doni che lo Spirito Santo ci offre è quello della sapienza, che è il dono che ci permette di vedere la realtà con gli occhi di Dio. Per questo ci viene detto: «quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito», perché il ragionare e il vivere in base alle sole categorie di questo mondo non ci permette di entrare nel regno di Dio. Questo non è solamente riferito alla vita eterna, ma riguarda anche la vita di quaggiù: se non riusciamo a ragionare secondo la logica di Dio, e ci ostiniamo a pensare e a vivere secondo la logica del mondo, non riusciremo ad avere luce nella nostra vita, non riusciremo a capire il senso di ciò che ci accade, non riusciremo a vivere in pienezza la nostra esistenza, ma ci limiteremo a sopravvivere, passando la vita a rincorrere ciò che non può darci né la pace né la gioia.

La Fede non si vive solo con l’intelletto, ma col cuore

La Fede non si vive solo con l'intelletto, ma col cuore

Anche noi possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus

«Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero.
(Dalla liturgia).

Facciamoci caso: i due discepoli di Emmaus, Cleopa e il suo compagno, conoscevano già tutto quando, amareggiati e rancorosi, si allontanavano da Gerusalemme per andare chissà dove.

L’incontro con il viandante (che poi si è rivelato essere Gesù) non ha dato loro qualche notizia nuova. Conoscevano già la testimonianza delle donne, la tomba vuota, persino la visione degli angeli che affermano che Gesù è vivo. Sapevano già tutto. Ma questa conoscenza è stata inutile finché non hanno fatto una vera esperienza del Signore risorto.

Allora tutto è cambiato. Gesù li ha prima istruiti sulle sacre scritture, facendo loro capire come ogni passo della Bibbia è indirizzato lì, alla morte e resurrezione del Figlio di Dio, e poi ha spezzato il pane. In sostanza ha celebrato la Messa nei suoi due momenti: la liturgia della parola e quella eucaristica.

Avendo fatto una vera esperienza del Signore il cuore deluso ha ricominciato ad ardere nel petto, le loro menti si sono illuminate e i loro occhi si sono aperti, facendo loro comprendere quella realtà che era già chiara davanti a loro, ma che essi, prima di fare questa esperienza, non erano in grado di riconoscere.

Anche noi possiamo fare questa esperienza. Noi difficilmente incontreremo Gesù che cammina per strada, ma questo non è necessario. Anche noi possiamo fare un’esperienza viva e vitale del Signore innanzitutto partecipando bene alla Messa.

Se pensiamo di vivere la fede in modo soltanto intellettuale, limitandoci a ragionare su di essa, non arriveremo a nulla, ci porterà solo alla delusione e all’amarezza, come è successo ai due discepoli prima di incontrare Gesù. Ma se faremo una vera esperienza di Lui, amando Dio e i fratelli, con una vita ricca di preghiera, con una vita morale ordinata, ricevendo bene e con frequenza i sacramenti, allora anche il nostro cuore arderà nel petto e i nostri occhi si apriranno, permettendoci di comprendere il senso della nostra vita e di essere, pur nei dolori e nelle difficoltà della vita, nella pace e nella gioia di Dio.

Gesù, figlio di David

Gesù, figlio di David

Perché Gesù è chiamato così? Le genealogie di Matteo e Luca

Tra i tanti appellativi con cui viene indicato Gesù c’è anche quello di “Figlio di David”.

La discendenza da questo re è importantissima per gli ebrei in quanto definirebbe il Messia, e a maggior ragione lo è per noi cristiani.

David, successore del re Is-Baàl e predecessore di Salomone, nacque a Betlemme nel 1040 a.C. circa, e rappresenta una chiave fondamentale in quanto da lui deve discendere l’atteso Messia. Questo legame è evidenziato dalla profezia che troviamo in Isaia 11, che anticipa che dalle radici di Iesse nascerà un virgulto su cui si poserà lo Spirito del Signore.

Nel Vangelo di Matteo si traccia una genealogia teologica di Gesù, che si compone di 3 tappe, ciascuna delle quali conta 14 generazioni. È evidente la sottolineatura dell’evangelista in relazione al significato che i numeri 3 e 7 (quest’ultimo sottomultiplo di 14) rivestono nella mentalità ebraica. Il 3 richiama la perfezione, e per noi cristiani anche la Santa Trinità, mentre il 7 è indice di completezza.

Perché allora Matteo fa riferimento al numero 14? Occorre ricordare anche il rilievo che per gli ebrei assume la simbologia numerica. La numerazione ebraica viene espressa con le prime lettere dell’alfabeto. Il nome David (דָּוִד) in ebraico, lingua consonantica, è composto dalle lettere daleth (d), vau (v) e ancora daleth, le quali esprimono anche i numeri 4, 6 e 4, la cui somma dà 14. Ripetendo per tre volte il numero quattordici l’evangelista afferma in modo imperativo un legame indiscutibile tra i due nati a Betlemme. Matteo dunque cita 42 generazioni tra David e Gesù. Di fatto abbiamo 14 generazioni tra Abramo e Davide, 14 generazioni tra Davide e Ieconia (Yehoaqim) figlio di Giosia, e infine 14 generazioni, dopo l’esilio, tra Ieconia e Gesù.

Questo ricorso alla simbologia che ricorre col numero 14 si trova anche nella genealogia di Luca, il quale si sforza di dare alla sequenza delle generazioni una forza storica oltre che teologica. In questo caso le generazioni citate sono 77, ovvero 7 volte 11. Le generazioni nominate da Luca infatti non si fermano a David ma arrivano fino ad Adamo e a Dio.

Da notare che Luca specifica col suo elenco che la discendenza di Gesù da David non passa attraverso i primogeniti, in quanto il Figlio di Dio avrebbe come progenitore Natham, ovvero uno dei figli di David, ma non da Salomone. Questa distinzione è importante perché risulta che Gesù non discende da re di Israele che sacrificarono agli idoli.

I Vangeli danno dunque testimonianza della legittimità dei titoli di re, sacerdote e profeta che sono i requisiti del vero Messia.

Un altro aspetto teologico interessante che rileviamo nella genealogia elencata da Matteo, è che in soli quattro casi si cita la moglie con cui un discendente ha generato il proprio figlio in linea dinastica. Tamar, Racab, Rut e Betsabea (quest’ultima citata come moglie di Salomone ed ex moglie di Urìa, ma non menzionata) erano donne straniere. È una evidente indicazione al fatto che la salvezza portata da Gesù è per tutti i popoli.

L’Altare della Reposizione

L'Altare della Reposizione

Perché viene allestito, le tradizioni e il significato quello che comunemente si chiama “il Sepolcro”

L’Altare della Reposizione, comunemente chiamato dai fedeli “sepolcro” è il luogo dove viene conservata l’Eucarestia dopo la Santa Messa vespertina del giovedì, chiamata “in Coena Domini” in ricordo dell'”ultima cena” consumata da Gesù insieme agli Apostoli, prima della Passione.

Secondo la Liturgia l’Altare della Reposizione non deve coincidere con l’Altare Maggiore e viene addobbato in modo solenne per permettere ai fedeli l’Adorazione.

Il “Sepolcro” viene disallestito al pomeriggio del Venerdì Santo, in quanto si riprende la distribuzione l’Eucarestia, che dalla sera del giovedì è sospesa.

Attorno ai “Sepolcri” sono sorte numerose pie tradizioni, come ad esempio l’uso di visitare 7 Altari della Riposizione in 7 chiese diverse. Il numero 7, oltre a richiamare il concetto di “infinito” per la tradizione ebraica, è in questo caso utilizzato in ricordo dei “7 Dolori della Santa Vergine”.

Nella tradizione ligure sono vivi i “cartelami”, ovvero cartoni che raffigurano pie scene e personaggi biblici. In Italia Centro-meridionale invece si è soliti riempire alcune ciotole (“lavureddi”) di semi di grano o legumi, che vengono poste al buio e innaffiati in modo che al Giovedì Santo presentino filamenti di tutti i colori.

Per i fedeli l’Altare della Reposizione è un modo che aiuta l’Adorazione del Cristo Risorto e la meditazione. Spontaneamente, in molte occasioni, i visitatori lasciano offerte sul luogo dell’allestimento e accendono candele per ottenere le Grazie.

Sicuramente il “Sepolcro” avvicina il cuore dei fedeli a quello di Gesù, col ricordo della sua Passione e del Sacrificio di Salvezza.

Nella foto è illustrato l’Altare della Reposizione allestito dai fedeli mendaighini presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso a Mendatica.

Al centro è posta una croce creata con spighe di grano, che simboleggia il Sacrificio di Nostro Signore, ma anche il suo farsi cibo di Vita Eterna per noi.

Sulla sinistra si nota una corona di spine. La Passione di Gesù è stata reale, e Lui l’ha voluta vivere interamente come uomo. Non a caso però, la corona è collocata sopra un telo bianco che rappresenta il sudario.

Nella tradizione ebraica del tempo, il corpo di un defunto veniva avvolto in un lungo telo che ne ricopriva l’intero corpo sia nella parte anteriore che posteriore, come mostra chiaramente la Sacra Sindone. La corona di spine, segno di sofferenza terrena, viene a contatto con la divinità di Gesù-Dio: il sudario afflosciato è il segno della Resurrezione. Con la Resurrezione, Gesù Uomo-Dio sale alla destra del Padre nel mistero della Trinità Unico Dio. La sua ascesa è rappresentata dalla forma della radice d’albero che tende verso il cielo.

Alla base della Croce c’è un altro cestino che questa volta contiene una sacchetta aperta dalla quale fuoriescono i 30 denari del triste prezzo a cui Giuda ha venduto il Salvatore del mondo.

Accanto alla Croce, in un cestino, troviamo il pane, il grano e l’uva, che ricordano l’Eucarestia. È proprio col grano macinato e con l’uva schiacciata, ovvero due alimenti triturati e sacrificati, che si ottengono il Pane e il Vino destinati a diventare il Corpo di Cristo.

Avere fiducia in Dio

Avere fiducia in Dio

Credere significa ascoltare e mettere in pratica

«Disse allora Gesù: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato”» (dalla liturgia).

«Morirete nel vostro peccato», «morirete nei vostri peccati». Per due volte Gesù ripete questa frase, che ha un qualcosa di definitivo. Come se per quei giudei non vi fosse più possibilità di redenzione.

La prima volta parla di peccato al singolare, la seconda volta al plurale. Certamente le forme di peccato sono molteplici, di diversa natura e gravità, ma tutte hanno in comune la radice: non credere nell’Io Sono del Signore Gesù, cioè non credere che Egli è Dio, e la sua parola, se ascoltata e messa in pratica, può darci la salvezza, può darci cioè la pace e la gioia nelle difficoltà di questa vita, può illuminare il senso di questa nostra esistenza terrena, e può aprirci le porte della vita eterna.

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Chiarezza su quattro termini che spesso vengono confusi

Nel discorrere comune, spesso si fa confusione fra tre termini che in realtà indicano cose diverse. Vediamo dunque di fare un minimo di chiarezza tra le parole sacerdote, frate e monaco.

Il Sacerdote

È un chierico che viene consacrato al secondo grado della Ordinazione Sacerdotale, che prevede i livelli di Diacono, Presbitero e Vescovo. Sono sacerdoti dunque tutti coloro che ricevono questo Sacramento, e sono ordinati alle celebrazioni. Possono celebrare l’Eucarestia, confessare e svolgere tutte le mansioni che sono loro affidate dal Vescovo, unico grado che possiede la pienezza del sacerdozio quale successore degli Apostoli.

Possono essere ordinati sacerdoti gli uomini in stato di celibato o vedovanza, dopo aver ottenuto l’approvazione del Vescovo ed avere superato un periodo adeguato di studi.

Ci si rivolge al Sacerdote con l’appellativo di Don che precede il suo nome.

Il Monaco

Si tratta di un termine che risale al basso medioevo e deriva dalla contrazione nel latino monachus dei termini monos (solo) e achos (dolore).

Appartiene a una comunità monastica e vive in un convento, dedito alla preghiera e alla penitenza. È consacrato e formula i voti di castità, povertà e obbedienza, ma può essere o anche non essere sacerdote.

La figura del monaco è profondamente cambiata dalle origini medioevali, in cui si identificava con l’anacoreta, che viveva solo e distante dalle comunità.

Oggi i monaci vivono infatti in conventi che seguono una regola propria della loro istituzione.

In senso stretto e in via generale, il Monaco che è Sacerdote, celebra all’interno della sua comunità.

Al Monaco ci si rivolge antecedendo al suo nome l’appellativo di Frà, e spesso di Padre

Il Frate

Il termine deriva dal provenzale fraire (fratello) e ha le sue origini nel medioevo in conseguenza alla profonda riforma della vita religiosa provocata da San Benedetto e da San Francesco d’Assisi.

Anche i frati sono consacrati, fanno voto di povertà, obbedienza e castità, e vivono in convento. Rispetto ai monaci hanno però la caratteristica di svolgere una vita attiva nella solidarietà e nell’apostolato.

Il frate può essere sacerdote, oppure rimanere allo stato di semplice consacrato che comunque vive le regole interne della sua comunità.

Viene chiamato, come il Monaco, antecedendo al nome l’appellativo di Frà o spesso di Padre.

I frati possono essere anche, con il permesso del proprio superiore, essere chiamati dal Vescovo a amministrare una parrocchia.

In virtù di un decreto di Papa Francesco, del febbraio 2022, anche un frate non sacerdote potrà essere nominato Superiore Maggiore del proprio ordine.

Il Canonico Regolare

Quando un sacerdote viene delegato dal Vescovo a reggere una Parrocchia che è distinta dal termine di Canonica, assume il titolo di Canonico.

Solitamente le Parrocchie Canoniche sono a capo di Collegiate. Il titolo viene mantenuto solo in virtù e per la durata dell’incarico.

Alcuni sacerdoti, però, decidono di vivere seguendo una Regola assunta da qualche comunità autorizzata. In questo caso si ha il Canonico Regolare, ovvero il Canonico che segue una determinata regola.

È una figura poco nota, che ha vissuto momenti di diffusione altalenanti, e che fu percorsa dalla Comunità di San Vittore nel medioevo.

I Canonici Regolari sono Sacerdoti e formalmente vestono in bianco.

Nelle parole del Battista il legame tra Natale e Pasqua

Nelle parole del Battista il legame tra Natale e Pasqua

Ogni volta che nominiamo Gesù come Agnello di Dio, ne indichiamo nascita, morte e resurrezione.

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”».
(Dalla liturgia).

L’espressione usata dal Battista, «agnello di Dio», è un espressione molto famosa. Ma qual è il suo vero significato?

L’agnello era la vittima sacrificale, l’animale usato per i sacrifici di espiazione. È l’innocente che paga per i peccati di altri. Le parole del Battista ci portano sul Calvario: Gesù è l’Innocente che, senza peccati, paga per le colpe di noi tutti.

Siamo nel tempo di Natale, e questa immagine ci riporta al Venerdì Santo.

Che senso ha tutto questo? In realtà il Natale rimanda alla Pasqua, le fasce in cui Maria ha avvolto Gesù richiamano il gesto con cui il corpo morto di Gesù deposto dalla croce è stato avvolto nella Sindone, Maria che depone il Figlio nella mangiatoia richiama la deposizione nella tomba. Nella Pasqua trova compimento ciò che nel Natale si è cominciato.

AVVISO IMPORTANTE

La Santa Messa della XXXIII domenica del Tempo Ordinario, prevista per domani, è

ANTICIPATA A OGGI, sabato 16 novembre, alle ore 17.00, per indisposizione momentanea di Don Luciano, e sarà celebrata dal Vicario Foraneo Don Enrico Giovannini.

L’insistenza dei figli e la pazienza del Padre

L'insistenza dei figli e la pazienza del Padre

Dio gradisce anche l’insistenza nel chiedere, perché è testimonianza d’amore

«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi».
(Dalla liturgia)

Questo brano di vangelo ci mette davanti ad una realtà che viviamo ogni giorno, e che sembra contraddire l’esistenza stessa di Dio. Se Dio è giusto, perché permette che i buoni (la vedova) subiscano ingiustizie da parte di persone disoneste (il giudice)? Se Dio è buono, perché permette che il male turbi la vita degli innocenti? Perché permette il male, l’ingiustizia, la malattia, la sofferenza, la morte? Perché sembra tardare a fare giustizia?

Il brano ci esorta a non perdere la speranza, a continuare a chiedere, fiduciosi di essere ascoltati («farà loro giustizia prontamente»). La conclusione del brano sposta l’attenzione su un altro fatto: la fede. «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Non scoraggiatevi – sembra dire il brano di oggi – se nel mondo c’è il male e c’è l’ingiustizia: Dio porrà rimedio a tutto questo, in questo mondo o nell’altro. Preoccupatevi invece di custodire e rafforzare la vostra fede. È la fede retta e operosa infatti che ci permette di vivere bene in questa vita, anche facendo i conti con il male e con l’ingiustizia, e ci permetterà di essere accolti nella vita eterna, dove il male e l’ingiustizia non troveranno posto.

Fiducia e riconoscenza: le fasi dell’amore per Dio

Fiducia e riconoscenza: le fasi dell'amore per Dio

A ringraziare fu il solo Samaritano

E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?»
(Dalla liturgia).

I lebbrosi iniziano a guarire mentre camminano. Gesù ha comandato loro di andare dai sacerdoti quando ancora i segni della lebbra erano sul loro corpo. I lebbrosi hanno obbedito alla parola di Gesù senza avere prove.

È questa fede che li ha guariti. La fiducia che quello che il Signore dice è buono per la nostra vita ci spinge ad agire anche quando sembra che le parole del Signore non abbiano riscontro nei fatti.

È questa fiducia però che permette a Dio di agire e di portare frutti di bene nella nostra vita. Il Signore vuole la nostra fede per agire nella nostra vita, non perché ne abbia bisogno (è onnipotente!) ma perché ci ama, ci stima più di quanto spesso noi stimiamo noi stessi, e non vuole agire senza il nostro consenso e senza la nostra collaborazione.

Il «culto del Tempio» e il «culto dell’Amore di Dio»

Il «culto del Tempio» e il «culto dell'Amore di Dio»

Ciò che il Signore ci chiede …

Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
(Dalla liturgia).

Celebriamo oggi la festa che ricorda la dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa cattedrale di Roma, considerata madre e capo delle chiese di tutto il mondo.

Il brano di vangelo ci riporta l’episodio della cacciata dei mercanti del tempio. Che senso ha questo episodio? Cosa facevano di male queste persone? Vendevano ai pellegrini gli animali necessari per i sacrifici e cambiavano le monete romane (considerate impure, perché portavano l’effige dell’Imperatore) con le monete degli Ebrei. Cose tutte prescritte dalla legge di Mosè. E allora? Dove sta il male? Che senso ha il gesto di Gesù?

Certo, come sempre quando ci sono di mezzo i soldi si verificavano ingiustizie, i cambiavalute e i venditori di animali se ne approfittavano (ricordiamo che il tempio di Gerusalemme, ai tempi di Gesù, era la maggiore banca del Medio Oriente), c’era un cospicuo giro di soldi attorno ad esso, a tutto vantaggio della famiglia dei sommi sacerdoti. Ma non è certo l’unica volta che Gesù si è trovato di fronte a un’ingiustizia, e non lo abbiamo mai visto passare alle vie di fatto! E allora? Cosa significa tutto questo?

Con la cacciata dei mercanti Gesù non si limita a deplorare le ingiustizie commesse da queste persone, ma mostra che il culto del tempio è oramai finito per sempre. Con questo gesto Gesù inaugura un nuovo modo di rapportarsi con Dio. Al Signore non interessano i sacrifici di animali, Egli vuole il nostro amore, il nostro cuore.

Se facciamo un’offerta, se facciamo un sacrificio, non lo facciamo per comprare la benevolenza di Dio, quasi a metterlo tranquillo per continuare a vivere come vogliamo, ma lo facciamo per esprimere amore e riconoscenza. E come possiamo allora rendere concreto il nostro amore verso di Lui? Ce lo dice il vangelo di Giovanni: «chi mi ama osserva i miei comandamenti» (Gv 14,24).

Il modo di amare Dio, di essergli graditi, è riconoscerlo Signore della nostra vita, è essere docili alla sua volontà. Dio vuole il nostro cuore, non le nostre cose. Queste sono già sue.

Shémà Israel: la domenica dell’Ascolto

Shémà Israel: la domenica dell'Ascolto

Ascoltare mette il cuore in condizione di aprirsi al bene che sconfigge anche la morte

Lo scriba che interpella Gesù aveva percepito che le pratiche rituali non sono sufficienti da sole a portare l’uomo verso Dio nel modo in cui il Padre vuole. Si fa dunque scrupolo di chiedere a Gesù, che riconosce come Maestro, quale sia la cosa più importante, ovvero il Comandamento più rilevante.

La risposta di Gesù è chiara e indica la stretta attinenza tra amare Dio e amare il prossimo.

Ma sono altrettanto significative del brano del Vangelo le due letture che lo precedono nella liturgia di oggi, 3 novembre 2024, tratte rispettivamente dal Deuteronomio e dalla Lettera agli Ebrei.

La prima ci recita la parte iniziale dello Shémà Israel contenuto in uno dei discorsi di Mosè nel Deuteronomio, ovvero quella preghiera che ogni Ebreo osservante recita almeno due volte al giorno e che costituisce le ultime parole della giornata.

Amare Dio con tutte le forze fa emergere l’urgenza dell’amore e ascoltare la Sua Parola vuol dire essere coerenti nell’amore.

Come sappiamo, secondo le risultanze storico-critiche testuali, la Lettera di San Paolo Apostolo agli Ebrei non è una lettera, non è di Paolo e non fu diretta agli Ebrei. In realtà è un sermone, in quanto non ha le classiche caratteristiche epistolari, fu scritta in pseudo-epigrafia (che allora era di uso comune e accettato) dai discepoli di Paolo, e infine era diretta ai primi cristiani provenienti dall’ebraismo.

Aggiunge però al discorso sull’amore la gratuità sacerdotale unica e piena di Gesù.

L’ascolto è dunque il protagonista di oggi nell’insegnamento del Cristo. Quell’ascolto che è preghiera e fa parte di essa quando diviene matura. L’amore è ciò che vince tutto: Gesù ci ha dimostrato che sconfigge anche la morte. Se il male non ha un valore costitutivo di sé stesso in senso ontologico, perché come diceva Sant’Agostino, è assenza di bene, e non può costituirsi ontologicamente un qualcosa che è assenza di qualcos’altro, si deduce che il male si può sconfiggere solo col bene, anzi col Bene, che è solo Dio. Il Bene, nel senso assoluto non comprende guerre, battaglie o violenza, ma l’amore. Ecco perché amare Dio è vincere il Male, e dunque risulta il bene per noi e per il nostro prossimo.

Il Regno di Dio: l’apparentemente piccolo che diventa il «tutto»

Il Regno di Dio: l'apparentemente piccolo che diventa il «tutto»

Nella spiegazione di Gesù c’è la potenza di Dio

«A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami».
E disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

(Dalla liturgia)

Le due brevi parabole (quella del granello di senape e quella del lievito e della pasta) hanno in comune la piccolezza degli inizi e l’inaspettata grandezza della conclusione. È la dinamica del regno di Dio: ciò che riguarda Dio ha una vita nascosta in sé.

Tante volte quando si fa qualcosa per il Signore, per la Chiesa, sembra di fare qualcosa di inutile, qualcosa di veramente insignificante. Il Signore ci raccomanda di non scoraggiarci. Il regno di Dio ha una vitalità propria, è la forza di Dio che fa crescere.

Queste parabole ci invitano a non scoraggiarci, a non demordere quando vediamo risultati non all’altezza del nostro impegno e delle nostre aspettative, e a considerare quanto sia importante ogni occasione, ogni incontro.

Una situazione apparentemente insignificante non deve diventare occasione di disimpegno o di rifiuto, perché non sappiamo quali frutti di grazia il Signore saprà trarre da essa.

Le giuste dimensioni delle cose

Le giuste dimensioni delle cose

Gesù ci invita a fare una graduatoria di ciò che è più importante

«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?».
(Dalla liturgia)

«Come mai questo tempo non sapete valutarlo?». È questa la domanda (che suona come un rimprovero) che Gesù rivolge alle folle che lo stavano ad ascoltare. Come mai sapete valutare gli aspetti secondari della vita (come il tempo meteorologico) e invece non siete capaci di giudicare il tempo in cui vivete?

Con queste parole Gesù ci richiama un altro aspetto della vigilanza: valutare le cose che accadono per essere in grado di decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è. In una parola il discernimento.

Non è la semplice osservazione delle cose, degli avvenimenti che accadono. È l’osservazione fatta con lo sguardo di chi riesce a vedere al di là delle apparenze immediate.

Per sapere vedere in questo modo non basta l’intelligenza: occorre anche la dirittura morale di chi si sforza di vivere come piace a Dio e di giudicare le cose secondo il modo di pensare di Dio. Quando consideriamo la realtà con parametri solamente umani non andiamo lontano. Lo sguardo dell’uomo è miope. Vede poco più in là del proprio naso. Lo sguardo di Dio è ampio e penetrante, e sa dare un giudizio vero su ciò che accade.

Vigilare significa anche chiedere a Dio il dono della sapienza, che è il dono che ci permette di valutare ciò che ci accade con gli occhi di Dio, l’unico che vede le cose, le persone e gli avvenimenti per quello che realmente sono e non per quello che appaiono.

L’attesa del Signore: una vita attiva nell’attuazione della Parola

L'attesa del Signore: una vita attiva nell'attuazione della Parola

Gesù ci ha raccomandato di farci trovare «svegli»

«Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.
E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!».

(Dalla liturgia).

Il Signore ci invita ad essere vigili. Essere vigili significa essere attenti, pronti per qualcosa di importante che deve arrivare. Il nostro destino, la nostra vita, non sono racchiusi nei pochi giorni che ci sono dati da vivere su questa terra. Abbiamo un traguardo da raggiungere, e su quello dobbiamo regolare la corsa della nostra vita.

«Siate simili a coloro che aspettano». Il cristiano sa che la sua storia terminerà con un incontro personale con il Signore Gesù, un incontro che sarà anche un rendiconto e un giudizio sulla propria vita, e al quale quindi ci si deve ogni giorno preparare: «siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese».

Le vesti strette ai fianchi ci riportano all’abitudine di chi lavorava la campagna ai tempi di Gesù, o di chi si metteva in viaggio: stingeva la cintura in modo che l’abito si alzasse un po’ e non intralciasse i movimenti. Le lucerne accese ci fanno capire che abbiamo bisogno della luce per capire cosa fare e dove andare. Questa espressione ci riporta da una famosa pagina dell’Antico Testamento, quando Mosè e gli Israeliti stavano per fuggire dalla schiavitù dell’Egitto (Es 12,11). Il messaggio è: non bisogna perdere tempo, non dobbiamo lasciare che qualcosa ci intralci. È troppo importante quello che ci aspetta!

Se la nostra attenzione è rivolta soltanto alle esigenze della vita terrena, se evitiamo, perché troppo duro o faticoso, ogni pensiero su ciò che ci sarà dopo, se le nostre speranze e le nostre energie sono spese solo per le cose di quaggiù (un maggior benessere economico, una vita più serena, una salute fisica migliore…), non solo non siamo veri discepoli di Cristo, ma inganniamo noi stessi. Intendiamoci bene: non è che queste cose non siano importanti. Lo sono eccome, ma non sono tutto. Il vero discepolo di Cristo è uno che sa che la vita è un cammino che è destinato ad una meta, e sul traguardo regola tutta la sua corsa.

Per farsi meglio comprendere Gesù ci porta un esempio preso dalle abitudini delle case signorili di una volta, è un quadretto molto lontano dal modo di vivere attuale. È la figura di una padrone che è andato ad una festa di nozze senza aver lasciato detto nulla circa l’ora del ritorno. Il buon servitore, dice Gesù, resta in piedi ad attenderlo tutta la notte per essere pronto ad aprirgli la porta di casa subito, non appena sente bussare.

Così è di noi. Il nostro Signore, vero Dio e vero uomo, dopo la sua Pasqua è tornato nella gloria dei cieli. È partito ma tornerà, e tornerà nell’ora in cui meno lo aspettiamo. Il nostro compito è di stare desti ed aspettare: nessun giorno della nostra vita deve passare senza il pensiero del ritorno imminente di Cristo. La vigilanza deve essere un atteggiamento di tutta la vita, non solo degli ultimi tempi, anche perché non li conosciamo.

Gesù ci dice un’altra cosa, che nel quadro della parabola è del tutto inverosimile, ma che si avvererà alla lettera per noi, se alla fine della nostra vita ci troverà nella fedeltà e nella vigilanza: «beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e sarà lui a servirli». Cioè noi entreremo nel regno di Dio non come servi, ma come figli del Re, che godranno per sempre della sua intimità.

«Guai a voi!»: un monito potente anche nell’attualità

«Guai a voi!»: un monito potente anche nell'attualità

Un rimprovero a chi pensa di poter fare a meno della Sapienza, che è amore di Dio

«Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito». Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.
(Dalla liturgia).

I rimproveri che in questi giorni leggiamo nei confronti degli scribi e farisei sono rivolti anche a noi. Anche noi, cristiani del XXI secolo, ci macchiamo spesso delle stesse colpe di quegli uomini.

In particolare questa frase sembra diretta a chi ha un compito di insegnamento nella Chiesa: Papa e vescovi certamente, ma anche preti, insegnanti, catechisti, genitori cristiani.

Quando chi deve insegnare la fede di Cristo, la dottrina cristiana, insegna qualcosa d’altro, magari solo le proprie idee, quando ripete la frase: «la Chiesa insegna questo, ma io la penso così», non solo impedisce a chi ascolta di giungere a una conoscenza piena, saporosa, efficace della novità cristiana, ma egli stesso rimane privo da quel sapere che genera amore, che diventa modo di pensare e pratica di vita, che fa vivere bene e apre la porta della vita eterna.

Confraternita Santa Caterina V.M., Mendatica – La preghiera (parte quinta)

Confraternita Santa Caterina V.M., Mendatica - La preghiera (parte quinta)

Le tappe della preghiera. Dal corso di formazione per i Confratelli, svolto al Pastoral Consueling

Abbiamo visto come la preghiera costituisca un linguaggio particolare. Sulle prime potrebbe sembrare un nostro monologo durante il quale chiediamo a Dio ciò che ci serve, attendendoci il più presto possibile di essere esauditi.

Quasi sempre recitiamo formule precostituite, ed è comunque un bene. Ma le “preghierine” che recitavamo da bambini hanno solo il compito di introdurci in un dialogo d’amore col Padre, nel quale accade di ascoltarlo.

Ecco dunque quali sono le fasi per giungere a pregare in modo corretto e completo.

Parole Vuote

Le parole recitate come parte di una routine che si esegue anche solo per tacitare la coscienza, non costituiscono una preghiera completa e compita, ma sono solo una base di partenza.

Monologo

Le formule vengono recitate con attenzione: le parole si assaporano maggiormente. Non c’è però ancora una vera comunicazione: si parla senza ascoltare.

Dialogo

Qui si inizia veramente ad entrare nella preghiera. Il dialogo è prima di tutto con sé stessi. Le parole divengono pesanti e provocano un’attenzione al perdono di noi stessi e degli altri. Il centro della preghiera inizia ad essere il Signore. Carità e Misericordia aumentano. Ci troviamo però ancora nell’ambito della “mente”.

Ascolto

Non siamo ancora giunti alla vetta, ma la qualità è notevolmente cresciuta. Occorre abbassare l’orgoglio e il senso di superiorità ma anche quello di inferiorità. Deve emergere l’umiltà e il cercare in noi la Verità, perché Dio è Verità. Dio ci parla attraverso la mente ma si rivolge anche allo spirito: la Sacra Scrittura, con le sue parole, irrompe nella nostra vita. I pensieri divengono ordinati e cresce il desiderio di restare nella preghiera. Dio legge la nostra vita e ci indica quali sono i nostri veri desideri. Si rafforza la volontà di fare ciò che siamo chiamati a fare. Si avvertono emozioni, forse anche qualche rimorso che ci può far soffrire. È il momento in cui il Signore muove i nostri sentimenti e possiamo formulare propositi concreti. I nostri progetti così formulati ci danno pace e serenità perché sono condivisi col Signore. La memoria allora non ci fa più paura, perché Dio ci fa venire in mente le cose utili del passato e anche gli errori sono visti in chiave di costruzione per il futuro.

Amore

Siamo finalmente in vetta: si raggiunge lo scopo della preghiera. Ogni complicazione viene ridimensionata e si vive in una semplicità e in abbandono assoluti. La comprensione è immediata: non servono più grandi discorsi: ogni cenno è amore, comunione perfetta, complicità totale col Signore. Si vorrebbe restare sempre in questa estasi.