La Gerusalemme celeste nell’Apocalisse di Giovanni

La Gerusalemme celeste nell'Apocalisse di Giovanni

Sposa dell’Agnello e immagine della Chiesa

La Gerusalemme presentata nell’Apocalisse di Giovanni è spirituale, perché discende dal cielo. Si tratta di un’immagine più volte evocata (Ap 3,12 e 21,2). Questa Gerusalemme viene anche indicata come Sposa dell’Agnello (Ap 21,9) di cui invoca il ritorno (Ap 22,17).

Sono chiare identificazioni simboliche che la indicano come la Chiesa di Cristo, quella su cui “le forze degli inferi non prevarranno”).

È anche la città di Colui che è tre volte santo, come si comprende dalle misure rivelate in Ap 21,16, ovvero 12.000 stadi, ma soprattutto dall’uguaglianza delle tre dimensioni spaziali: lunghezza, larghezza e altezza. Una città a cui si accede attraverso la Fede che introduce la Salvezza, simboleggiata e resa solida dalle 12 porte fatte di perle. È facile riconoscere nelle 12 porte gli Apostoli, deducendolo anche da Eb 11,10.

All’interno della Gerusalemme celeste l’Apocalisse fissa quanto è oggetto della nostra Fede. Il trono è la Croce di Cristo su cui siedono Dio e il Figlio, in una rievocazione dell’albero della vita che porta frutto e dà la vita eterna. Le foglie di questo albero sono costituite dalla corona di spine e provvedono a guarire da ogni peccato.

Il trono è anche una sorgente di acqua viva (Ap 22,11), come annunciato da Ezechiele (Ez 47,9), per il battesimo di vita eterna che sgorga dal costato del Cristo. È una città d’oro, costruita sulla fedeltà del suo Sposo.

Questa è l’immagine che l’Apocalisse e la Scrittura in genere ci fornisce della Chiesa, la quale si contrappone alla “prostituta di Satana” (chiamata Babilonia), il cui destino sarà di essere uccisa e divorata dal suo stesso padrone.

La fedeltà alla Chiesa di Cristo e al Magistero è dunque annunciata da Giovanni nell’Apocalisse, che contrariamente a quanto si crede comunemente, non è un testo che profetizza disgrazia, ma è un libro di grande speranza. E che si chiude infatti con la sposa che invoca il suo Sposo.

Bibliografia:

Piccolo Dizionario dell’Apocalisse, Francesco Vitali, Tau Editrice, Todi 2008

Basilica di San Giovanni in Laterano: Ecclesia Mater

Basilica di San Giovanni in Laterano: Ecclesia Mater

La sede ufficiale del Papa

Siamo abituati a ritenere San Pietro e il Vaticano come “casa” del Papa. E in effetti la Santa Città del Vaticano è il luogo dove abita il Santo Padre, e la Basilica di San Pietro ne è l’espressione più visibile.

In realtà, però, la vera sede del Papa, la chiesa più importante della cristianità è la Basilica di San Giovanni in Laterano, ovvero la Chiesa della Diocesi di Roma che ospita la cattedra del Vescovo di Roma.

San Giovanni in Laterano è affidata a un Cardinale, il quale copre le funzioni di Arciprete, e che attualmente è il Cardinale Camillo Ruini.

Il nome ufficiale della Basilica del Laterano è Archibasilica Sanctissimi Salvatoris, in quanto, come tutte le basiliche patriarcali anche essa è intitolata al Nostro Salvatore. È la Basilica di grado più elevato in assoluto, quindi anche rispetto alle altre tre basiliche maggiori. Il titolo accordatogli è “Omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput“, ovvero “Madre e capo di tutte le chiese della città [di Roma] e del mondo”.

Le altre basiliche maggiori sono:

Basilica Vaticana (San Pietro);

Basilica Ostiense (San Paolo fuori le mura);

Basilica Liberiana (Santa Maria Maggiore).

Tutte e quattro le basiliche citate sono dotate di una Porta Santa e dell’Altare Papale.

Le dedicazioni

La prima dedicazione della Basilica di Giovanni in Laterano è stata effettuata nel 314 da Papa Milziade, il quale la consacrò al Santo Redentore. Una successiva dedicazione della Basilica e del Palazzo Laterano furono ad opera di Papa Silvestro I, il quale li consacrò entrambi come “Domus Dei“. Abbiamo quindi notizia di altre due dedicazioni. Papa Sergio III dedicò Basilica e Palazzo del Laterano a San Giovanni Battista, consacrando inoltre il Battistero, nel X secolo. Infine nel XII secolo Papa Lucio II aggiunse l’intitolazione a San Giovanni Evangelista, per cui oggi la Basilica conta la dedicazione ai due Giovanni, e spesso non vengono celebrati insieme.

Un sito di elevata e evidente sacralità

Nelle adiacenze della Basilica di San Giovanni in Laterano possiamo ammirare la Scala Santa, ovvero quella scala in marmo che Sant’Elena fece ricostruire a Roma traendola da Gerusalemme, e che la tradizione ritiene sia la scala salita da Nostro Signore per accedere al Palazzo ove alloggiava Pilato. La Scala Santa dà accesso attualmente al Sancta Santorum, il più venerato santuario di Roma, ove tra l’altro possiamo trovare l’immagine di Cristo acheropita, ovvero che la tradizione ritiene mai dipinta da mano umana.

Pane e vino, frutti del sacrificio, per il Sacrificio

Pane e vino, frutti del sacrificio, per il Sacrificio

La Transustanziazione di beni lavorati dall’uomo

L’uomo è sempre stato chiamato dal Padre alla collaborazione con Lui, fin dal momento della Creazione.

Più volte le Scritture hanno ribadito e richiamato questa realtà, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. In quest’ultimo Gesù ha dato prova di ciò anche durante i molti miracoli da Lui compiuti. Trasformando acqua in vino non avrebbe certo avuto bisogno che gli fossero portate le anfore. Oppure per resuscitare Lazzaro non avrebbe avuto certo bisogno che rimuovessero la pietra.

Così anche nell’aspetto sacramentale della Santa Eucarestia, possiamo trovare questa chiamata.

Il pane e il vino, destinati a divenire corpo e sangue di Nostro Signore, sono in realtà, anche se oggi in modo indiretto, donati dal popolo di Dio.

Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare questo aspetto attraverso la processione offertoriale.

Ma perché il pane è stato scelto da Gesù per divenire il proprio corpo? E perché il vino? Nella preghiera eucaristica si ricorda che essi sono dei “frutti della fatica e del lavoro dell’uomo“. Sono infatti due beni, ovvero due alimenti, che non si trovano già pronti in natura, ma che l’uomo deve ottenere col lavoro.

Ma c’è ancora un aspetto ancora più incisivo. Sia il pane che il vino sono ottenuti attraverso un’unione creata da una distruzione. Chicchi di grano e acini di uva, vengono “sacrificati”, tritati, macerati. E il risultato di queste azioni li porteranno a essere un cibo nuovo.

Anche la Salvezza arriva da Cristo e solo da Lui, attraverso il suo sacrificio. E la nostra partecipazione viene simboleggiata dall’offerta di ciò che diverrà corpo e sangue di Nostro Signore. Noi siamo quella goccia d’acqua che il sacerdote inserisce nel calice.

Il significato della partecipazione viene mantenuto dalla colletta svolta prima della Liturgia Eucaristica. Non deve essere interpretata come “la Chiesa che chiede soldi”, ma nell’ottica della nostra partecipazione all’offerta del pane e del vino.

Nel momento della Transustanziazione noi siamo tutti uniti nel sacrificio di Cristo che si rinnova. Anzi, che si attualizza davanti a noi.

Dio non ha tempo, e il suo sacrificio avviene ogni volta che pane e vino si trasformano.

La condizione affinché noi stessi si partecipi al sacrificio è l’essere docili come il pane e il vino. Occorre lasciarsi trasformare da Cristo. Docili come docile è stata Maria nell’accogliere il Corpo di Cristo in sé. Lei in modo diverso dal nostro, ma pur sempre conservando Dio in sé.

Testo di riferimento: Liturgia, Matia Augé, Edizioni SanPaolo, 8.a edizione 2014.

Si ringrazia il prof. Don Matteo Firpo, docente di Teologia Liturgica alla facoltà di Scienze Religiose (FTIS-ISSR).

La preghiera eucaristica e le sue origini

La preghiera eucaristica e le sue origini

La fondamentale preghiera che comprende prefazio e dossologia.

La preghiera eucaristica è un’unità letteraria ricchissima di contenuto teologico e si colloca nel momento centrale della celebrazione della Santa Messa. Non è unicamente preghiera ma “sacrificio di lode” e attuazione di un fatto, che è il sacrificio di Gesù.

Le parole utilizzate non sono solo un’evocazione del passato, ma compiono un mistero nel presente. I Greci parlano di “anafora”, ovvero di “portare su”, “offrire”. In latino si presenta come “oratio oblationis”.

La sua origine è certamente da ricercarsi nei gesti e nelle parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena. Emerge però il fatto che istituendola durante una cena, il Cristo pone in rapporto l’eucarestia e la cena giudaica.

L’origine giudaica

Ci si interroga quindi sul rituale utilizzato da Gesù, per collegarlo al rituale della Pasqua oppure alla cena festiva.

I Vangeli sinottici fanno riferimento alla cena pasquale, mentre Giovanni (specialmente in GV 18,28) la sera della Pasqua ebraica seguì la morte di Gesù.

In ogni caso la sostanza non cambia, in quanto si è trattato di un pasto che obbediva alla logica rituale ebraica, e in quanto tale fu concluso da una preghiera di azione di grazie, ovvero la birkat ha-mazon (ברכת ה-מזון, letteralmente “saluto di cibo”, quindi “benedizione di Dio per gli alimenti assunti”).

La birkat ha-mazon è un testo tripartito in tre strofe: una breve per il nutrimento che Dio dona al popolo di Israele; una seconda più ampia, con l’azione di grazie per la terra buona e desiderabile concessa da Dio al suo popolo; e infine una supplica per la sussistenza di Israele, Gerusalemme, dinastia davidica e tempio.

Pur derivando dalla birkat ha-mazon, la preghiera eucaristica si rivela assolutamente originale, integrando le strutture antiche e perfezionandole oltre che ad arricchirle. L’impostazione ebraica suddivide tre pericopi: benedizione-memoriale, rendimento di grazie e supplica. È una struttura che nella preghiera eucaristica ha assunto il carattere nuovo in cui si può rilevare il ritmo trinitario. Si tratta quindi di un cambiamento di impostazione che apre alla ragione delle modifiche introdotte, e anche allo sviluppo futuro delle preghiere eucaristiche, che assumono schemi differenti nelle diverse Chiese locali.

Fonte:

Liturgia, Matias Augé, Edizioni San Paolo, 8.a edizione 2014.

Si ringrazia il Prof. Don Matteo Firpo per le interessanti lezioni universitarie.

Il Concilio di Trento (1545-1563)

Il Concilio di Trento (1545-1563)

Come la Chiesa rispose a Lutero

Il Concilio di Trento assume nella Storia della Chiesa un’importanza fondamentale.

Fu il XIX concilio della Chiesa, e fu convocato per rispondere al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero. In realtà la Chiesa aveva già in mente di intervenire su molti degli aspetti che furono discussi. Indubbiamente, però, le posizioni assunte dal monaco servirono da sprono.

La situazione non era facile anche per le implicazioni politiche. In un primo tempo, infatti, il concilio avrebbe dovuto tenersi a Mantova, ma posizione della famiglia Gonzaga, molto vicina al partito imperiale, sconsigliò questa scelta.

Fu preferita poi Trento, in quanto Principato Ecclesiastico, ma in territorio imperiale: ciò avrebbe garantito tutti gli schieramenti, ovvero l’imperatore, il re di Francia e i diversi partiti di curia.

La decisione portò a molte trattative e richiese molto tempo. Basti pensare che il concilio fu convocato nel 1537, la sede fu scelta nel 1542, e l’apertura avvenne il 13 dicembre 1545.

È curioso notare come uno tra i Papi più “chiacchierati” della storia, Paolo III, ovvero Alessandro Farnese, fu colui che convocò questo concilio che avrebbe incanalato la Chiesa in un ambito molto più spirituale.

Fu un concilio molto travagliato non solo per gli argomenti delicatissimi che sarebbero stati trattati, ma anche per gli eventi che intervennero durante il suo svolgimento.

Come si svolse il concilio

La prima sessione si svolse infatti dal 1545 al 1547, anno in cui, a causa della peste, ma probabilmente anche per svincolarsi dalle pressioni imperiali, fu trasferito a Bologna.

Nella città felsinea non vennero prodotti decreti, e il Papa sospese il concilio nel 1549.

La seconda sessione fu aperta nel 1551 da Papa Giulio III, ma la delegazione dei cardinali che avevano aderito alla Riforma protestante operò una dura opposizione a quanto fino a quel momento approvato. Fu così che si arrivò ad una nuova sospensione.

Il nuovo Papa Paolo IV cercò allora di imporre le proprie regole, ma il suo rigore fu controproducente: l’inquisizione ebbe un nuovo impulso e venne estesa la lista dei libri all’indice.

Alle morte di Paolo IV salì al soglio pontificio Pio IV, il quale riaprì il concilio nel gennaio del 1561, e lo portò a termine chiudendolo il 4 dicembre 1563.

Le decisioni

I principali decreti approvati furono di due tipi: Dottrinali e di Riforma. Ecco l’elenco delle decisioni più salienti:

Decreti Dottrinali:

Interpretazione della Bibbia affidata alla Chiesa

Determinazione del Canone dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento

Giustificazione per fede e con opere buone

Santa Messa in latino

Sacerdozio ministeriale

Sacramentalità e indissolubilità del Matrimonio

Conferma del culto dei Santi

Conferma della Dottrina delle Indulgenze

Viene ribadito il valore dei 7 Sacramenti.

Decreti di Riforma:

Obbligo ai Vescovi di residenza nella Diocesi

Obbligo ai Vescovi delle Visite Pastorali

Fondazione di Seminari in ogni Diocesi

Moralizzazione della vita religiosa: condannati simonìa e concubinato

Divieto di cumulo dei benefici.

Da notare che tutti questi aspetti sono ancora in vigore ai nostri giorni, eccetto la Santa Messa che viene celebrata nelle lingue nazionali in armonia con quanto avvenne in epoca apostolica.

Si ringrazia il Prof. Don Paolo Cabano per le lezioni di Storia della Chiesa.

Bibliografia essenziale:

Storia della Chiesa II – Lezione 19

H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni

sul concilio di Trento, Brescia 1967 (ed. or. 1946);

P. Prodi, Controriforma e/o Riforma cattolica. Superamento di vecchi dilemmi nei nuovi panorami

storiografici, “Roemische historiche Mitteilungen”, 31, 1989, 227-237;

W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso

storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo

ed età moderna, a c. di P. Prodi, C. Penuti, Bologna 1994, 101-123;

R. Po-Chia Sia, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna

2001;

J.W. O’ Malley, Trento e ‘dintorni’. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna,

Roma 2004 (ed. or. 1999);

E. Bonora, La Controriforma, Roma-Bari 2001;

A. Prosperi, Disciplinamento, in Historia. Saggi presentati in occasione dei vent’anni della Scuola

superiore di studi storici, a c. di P. Butti de Lima, San Marino 2010, 73-88;

R. Bireley, Ripensare il cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma,

Piccola esegesi di Genesi 1

Piccola esegesi di Genesi 1

Con riferimento a “Il cantiere del Pentateuco”, di Jean Louis Ska

Premessa

Sappiamo che la Bibbia non è un libro di Scienze. E non ha mai avuto intenzione di esserlo. Si tratta della raccolta di Scritture che noi credenti riconosciamo ispirate.

La stesura del suo libro più recente dell’Antico Testamento, risale a circa 2.100 anni fa, mentre quello più recente del Nuovo Testamento, a circa 1.900 anni or sono. Nel caso del Primo Testamento ciò che viene riportato si riferisce a eventi accaduti a circa 3.500 anni fa, e ripetuti oralmente di generazione in generazione per migliaia di anni prima di accedere alla forma scritta.

Gli studiosi, stanno indagando sulla probabilità che vi sia stata una redazione avvenuta nel periodo immediatamente successivo al ritorno del popolo ebraico dalla cattività babilonese.Il valore di quanto riportano le Scritture è centrato sulla comunicazione da parte di Dio agli uomini. L’ordine stesso in cui vengono presentati i vari libri nella Bibbia, non fa riferimento all’aspetto cronologico, ma segue un percorso pedagogico. Ne deriva che Genesi 1 sia stata scritta circa 400 anni dopo rispetto a Genesi 2, che nelle Scritture la segue.

Gli stessi eventi narrati, figurano in alcuni casi due volte. Questa particolarità costituisce per gli storici una garanzia. Partendo infatti dal presupposto che gli ebrei hanno sempre considerato sacra la parola di Dio, si sono fatti scrupolo di non eliminare alcuna delle tradizioni manifestate nel passato. Ecco quindi che la Bibbia racconta spesso lo stesso evento secondo la tradizioni riconosciute da Julius Wellhausen nell’ipotesi documentale.

Genesi 1

Il primo messaggio della Genesi (in ebraico בראשית = in principio) si riferisce al fatto che non si parla di una creazione dal nulla. Il mondo semitico infatti non aveva la concezione del “nulla”, e lo identificava con il “caos”.

Per indicare l’azione creatrice viene utilizzato il verbo “barah” (בָּרָ֣א) che in realtà indica “fare qualcosa di meraviglioso”.

La terra viene presentata come informe e deserta, con le tenebre che la avvolgono. E a differenza di quanto viene indicato in altre religioni, non c’è alcuna lotta per la creazione.

I primi quattro giorni vengono caratterizzati da separazioni non distruttive. Il deserto (“midbar”=מִדבָּר), le tenebre, ecc., restano in una separazione che dà alterità.

Nel corso del terzo e del sesto giorno abbiamo delle separazioni che esprimono il dono della vita, in un’azione derivata che deve essere continuativa, e in cui il mondo riceve la propria potenzialità di sviluppo. La potenza che qui viene espressa non è aggressiva, ma scandisce il riconoscimento del bene (“Vide che era cosa buona”). Di fatto nel separare Dio dà la vita, e la contempla in un compiacimento che dà senso al riposo del settimo giorno.

Dopo il “Dio disse” troviamo la prescrizione, in uno schema che viene ripetuto nel Decalogo, in cui il Primo Comandamento è il dono, e gli altri nove rappresentano le condizioni per conservarlo.

Sono evidenti fin dai primi versetti le intenzioni di significare i riferimenti al popolo di Israele.

Adamo ed Eva

Nella creazione dell’uomo e della donna, le esegesi di Venen e Beauchamp vedono il coinvolgimento dell’umano nella somiglianza. Adamo viene creato a immagine di Dio, ma la somiglianza viene riferita come una conquista da effettuare, e viene citata solo nel versetto 27. In ciò si riconosce l’autonomia concessa all’uomo.

La fecondità e il dominio sulla natura vengono accompagnati dalla benedizione. Si percepisce però il senso forte dell’utilizzo dei verbi dominare e soggiogare, ancora più chiaro in ebraico. Il dominio affidato all’uomo non implica automaticamente l’uccidere gli animali. Ogni specie ha il suo spazio, e quindi la propria dimensione vitale: all’uomo sono riservati semi e alberi, agli animali le altre erbe, in un simbolismo perfetto. Intravvediamo quindi la metafora che indica come il dominio sugli animali possa anche essere inteso come controllo della “animalità” dell’uomo, attraverso l’aiuto di ciò che condivide con Dio.

Questa prospettiva emerge in Genesi 2 (che ricordiamo essere stata scritta prima), circa l’insufficienza degli animali circa il dare aiuto all’uomo. Il che determinerà la creazione della donna, dalla costola di Adamo.

Circa la constatazione di ciò che “è buono”, ne notiamo l’assenza in corrispondenza della creazione di Adamo, ad indicare che l’uomo non è completo, ma deve raggiungere la completezza con le proprie scelte.

Infine, il riposo del settimo giorno, non deve essere inteso come un bisogno di Dio. È invece l’invito alla continuazione affidata all’uomo.

Si ringrazia il prof. Don Davide Bernini per le sue lezioni.

Sulla Croce Gesù invocò il Padre, ma gli ebrei intesero Elia

Sulla Croce Gesù invocò il Padre, ma gli ebrei intesero Elia

Ecco perché…

La liturgia e il libri ci ricordano quale fu il grido di Gesù sulla Croce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni”, subito tradotto in greco in “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. Ma quale lingua parlava Gesù se gli ebrei lì presenti hanno pensato che si rivolgesse ad Elia?

Non è un mistero ma un fatto che si spiega in modo logico attraverso lo studio del periodo storico.

A quel tempo in Palestina erano utilizzate diverse lingue:

1) Il greco, e specificamente il dialetto attico, quello che oggi noi definiamo “greco neotestamentario”, che era la lingua dei dotti.

2) Il latino, che era la lingua dei conquistatori, utilizzato prevalentemente in ambito giuridico.

3) l’ebraico, utilizzato per i riti e per le celebrazioni, e comunque in ambito religioso.

4) l’aramaico, una lingua derivata dal periodo di esilio a Babilonia, che era la lingua comune, utilizzata dal popolo.

Per semplificare possiamo affermare che Gesù, nell’esprimersi nei suoi discorsi, con le parabole e gli insegnamenti distribuiti nella sua predicazione, nonché con Apostoli e con i suoi amici parlava, come tutti, l’aramaico.

La spiegazione

Nell’ambito di questo schema possiamo decifrare le parole pronunciate da Gesù.

Il popolo di Israele riteneva Elia il più grande dei profeti, ovvero colui che con il suo ritorno avrebbe preceduto l’arrivo del Messia. Come sappiamo la convinzione popolare e dei sommi sacerdoti, nonostante l’avvertimento di tutti i profeti, era rivolta ad un Messia conquistatore.

L’espressione adottata da Gesù per rivolgersi al Padre fu Eloì, ossia un modo verbale della forma scritta Elohim, che significa “Signore”, nell’accezione di Dio. Il termine è usato innumerevoli volte nella Bibbia, e dà addirittura il nome alla tradizione biblica detta “elohista” o “E”.

Questa invocazione fu invece immediatamente interpretata dagli ebrei, che (strano a dirsi ma vero) non conoscevano bene l’ebraico, come un appello a Elia. Inoltre, se l’espressione fosse stata in aramaico, avrebbe dovuto essere: Elahî. Va notato poi che se Gesù avesse voluto invocare Elia avrebbe pronunciato “Elì”.

Ecco quindi che tra le persone che assistevano alla crocifissione si pensò subito ad Elia, e si diffuse la domanda del perché Gesù lo invocasse. Anche considerando che Elia, fra l’altro, era ritenuto il protettore e il confortatore dei moribondi.

La frase destò qualche preoccupazione, tanto è vero che alcuni tra i presenti chiesero di attendere per vedere se Elia corresse in aiuto per aiutarlo. In questo caso la convinzione di Gesù come Messia avrebbe preso corpo.

La vicenda è molto significativa anche per la conferma che gli ebrei non erano del tutto sicuri di mettere a morte un impostore, perché il dubbio che Gesù fosse realmente il Messia attanagliò il popolo fino all’ultimo. Ma come sappiamo, Gesù esalò lo Spirito, e morì esattamente come i profeti avevano annunciato già centinaia di anni prima.

La pia tradizione del “Sepolcro”

La pia tradizione del "Sepolcro"

Allestito l’Altare della Reposizione

La tradizione del “Sepolcro” è molto sentita a Mendatica.

Nonostante le difficoltà derivanti dalle misure anti-pandemia, come ogni anno alcuni volontari hanno allestito l’Altare della Reposizione.

La liturgia pasquale prevede infatti che il triduo inizi il Venerdì Santo. Secondo l’antico uso, il giorno viene fatto iniziare alla sera del dì precedente. Al termine della celebrazione della Santa Messa in coena Domini, i fedeli rendono omaggio ad un altare allestito specificamente per ricordare il sacrificio del Salvatore.

Durante la Messa del giovedì, infatti, vengono consacrate le specie eucaristiche per essere distribuite ai fedeli nella comunione sacramentale del giorno successivo.

Il giovedì che precede la Pasqua, la Chiesa si oscura in segno di dolore e si unisce idealmente e spiritualmente all’Agnello immolato. Le campane tacciono, l’altare maggiore è disadorno, il tabernacolo vuoto e aperto, i Crocifissi coperti. Gesù è vivente nell’Eucarestia, ma non si può negare il passaggio cruento della sua crocifissione.

La tradizione dei “Sepolcri” ha origine molto antica. Se ne hanno notizie certe in epoca carolingia. Nei secoli VIII e IX i fedeli avevano dunque già l’abitudine di ricordare la crocifissione con i segni evocanti la morte di Gesù.

La comunità di Mendatica è sempre stata molto sensibile alle tradizioni religiose. Quest’anno il “Sepolcro” della Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, ha voluto evidenziare alcuni simboli molto suggestivi. Sono stati inseriti una corona di spine adagiata su una croce, un telo e un sudario, alcune pietre a ricordare l’aspro cammino sul Golgota, un pane e un calice colmo di vino, una borsa da cui fuoriescono le monete.

Sul cartiglio fu scritto che Gesù è Dio

Sul cartiglio fu scritto che Gesù è Dio

Il Vangelo Giovanni si sofferma su un particolare che dalle traduzioni risulta fondamentale

Perché in un momento tragico come quello della crocifissione Giovanni si sofferma su quanto fu scritto sul cartiglio? E perché i sacerdoti, non paghi di aver fatto condannare Gesù a Morte si recarono da Pilato per far modificare il cartiglio?

In effetti sul titulus crucis faceva bella mostra di sé il nome di Dio. Ovvero il tetragramma sacro, quella inscrizione che gli ebrei non osano pronunciare neppure oggi, e che ogni studioso di Ebraico Biblico non pronuncia per rispetto al credo ebraico: “יהוה” (YHWH).

Sappiamo che a quel tempo in Palestina si parlavano quattro idiomi: Ebraico (detto oggi Biblico), che era la lingua della religione e dei riti sacri; Latino, lingua dello stato e utilizzata per gli atti ufficiali; il Greco (detto oggi Neotestamentario), parlato dai grandi dotti; e infine l’Aramaico che era la lingua del popolo, derivata dall’esilio a Babilonia terminato circa 5 secoli prima e penetrato nella comunità ebraica.

Il cartiglio rivelatore

Il cartiglio, che era obbligatorio nel caso di esposizione pubblica delle condanne, veniva redatto nelle prime tre lingue. Abbiamo quindi la derivazione a noi più familiare che è quella latina : INRI, ovvero Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum. Ma quella ebraica offre spunti veramente interessanti.

Quando Dio si presentò a Mosè disse di essere “Colui che è” che traslitterato in ebraico è “Ehyeh asher ehyeh”. Nella traduzione greca diventa “ego eimi ho on”, “Io sono l’ESSERE”.

Nell’inviare Mosè agli israeliti Dio è ancora più specifico e ordina al profeta di riferire che è mandato da “Io sono” (YHWH). Da qui il nome di Dio.

Gli ebrei sono così attenti a non pronunciare questo nome che negli scritti i masoreti hanno inserito indicazioni vocaliche per renderlo impronunciabile. La più diffusa fu YeHoWaH, da cui i Testimoni di Geova hanno creduto fosse il vero nome.

Sul cartiglio la scritta ebraica che definiva la condanna fu: Gesù il Nazareno Re dei Giudei, che in ebraico figurava: “ישוע הנוצרי ומלך היהודים”. Leggendolo da destra a sinistra come si fa con le lingue semitiche abbiamo: “Yshu Hnotsri Wmlk Hyhudim” e quindi YHWH.

I sacerdoti, avvezzi a praticare l’ebraico rituale si accorsero immediatamente della significativa scritta e corsero da Pilato per farla modificare. Ma sappiamo che Pilato rispose: “Quod scripsi scripsi”, “Quel che ho scritto, ho scritto”.

Si compì quindi quanto Gesù disse nell’annunciare la propria morte in croce: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che IO SONO e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato.

Ecologia come conservazione del creato e coscienza del “non spreco”

Ecologia come conservazione del creato e coscienza del "non spreco"

La Terra ci è stata affidata.

I tempi moderni tendono a sintetizzare contenuti e concetti, e di conseguenza il rischio di relativizzare sale a dismisura. È un aspetto che già Benedetto XVI aveva evidenziato, e che Papa Francesco sta ribadendo.

Uno dei temi più pressanti, ma stranamente controversi, anche per l’interpretazione politica che viene attribuita e lo scarso approfondimento conseguente, è quello dell’ecologia.

Dovrebbe essere un argomento tale da interessare tutti molto da vicino e che non dovrebbe trovare forze contrarie, ma in realtà non è così.

Si vanno formando due schieramenti che sempre più assumono connotati politici, mentre la questione meriterebbe un’attenzione unanime e costruttiva. Le due parti si stanno radicalizzando, e se dal fronte ecologista si avvertono posizioni anche estremiste, dall’altro sta crescendo pericolosamente una frangia negazionista.

Occorre quindi riportare “la palla al centro” e ricominciare da un’analisi imparziale e obiettiva.

È quanto sta facendo Papa Francesco spostando l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali i quali abbracciano i temi religiosi, come giustamente gli compete, ma anche altri ambiti che sono comunque propri del campo d’azione della Chiesa, come quello sociale e sociologico.

Il Santo Padre non esita a riaffermare i motivi per cui il Creato ci è stato consegnato. Essi si riconoscono nell’intendere il pianeta quale teatro in cui deve svolgersi il cammino dell’uomo verso il Regno di Dio. Ne emerge quindi la responsabilità religiosa, ma anche quella civile della trasmissione della Terra ai nostri figli. Il pianeta non è nostro: ci è stato affidato affinché lo custodissimo. Nella sua enciclica Laudato Sì Papa Francesco è molto esplicito.

In questa visione si legano gli aspetti spirituali e umani che sono come sempre imprescindibili.

Ma le ragioni non si fermano qui.

Esiste anche un campo educativo valido sia in senso civico, che etico e morale. Con la giusta attenzione alla conservazione dell’ambiente si evidenzia anche la cultura del “non spreco”. Questa è un’accezione molto delicata anche perché va a toccare interessi economici e teorie utilitaristiche che si riconducono al consumismo.

Abituarsi a non sprecare costituisce un aggancio importantissimo ad alcune abitudini che potrebbero essere modificate con beneficio dell’ambiente ma anche e soprattutto dell’individuo.

Dare importanza a ciò che si possiede e valorizzarne la valenza, non può che portare ad una presa di coscienza migliore e a una corretta crescita intellettuale. Si tratta di un invito a un’educazione che recupera il senso della rinuncia, temprando in modo naturale sia lo spirito che il corpo. Il senso dell’attesa ne uscirebbe fortificato. Sarebbe poi un modo inconfutabile per educare carattere e volontà, parametri di cui si sente molto la mancanza ai nostri giorni.

In passato esisteva il ricorso al “fioretto”, ovvero quelle piccole rinunce che si praticavano per allenare la speranza. Questo concetto è stato svilito e spesso ridicolizzato da una cultura moderna sempre più falsamente pratica e certamente superficiale.

Dobbiamo perciò gioire quando sentiamo il Papa parlare di ecologia e conservazione del Creato, perché in queste proposte risiede un progetto educativo che sarebbe giusto nutrimento per corpo, spirito e intelletto.