La partecipazione attiva del popolo all’Eucarestia

La partecipazione attiva del popolo all'Eucarestia

Come il Concilio Vaticano II è intervenuto

Nei primi anni del Cristianesimo la partecipazione del popolo all’Eucarestia era spontanea e intrepida. Nonostante le persecuzioni che si susseguivano in modo ricorrente, e i rischi derivanti, i Cristiani si riunivano costantemente.

L’Eucarestia fu il primo rito adottato, e veniva celebrato nelle case private, con un banchetto al termine del quale si ripetevano i gesti di Gesù nell’ultima cena, e venivano distribuiti pane e vino.

Con Costantino e Teodosio la religione cristiana fu non solo ammessa, ma successivamente elevata a religione di Stato. Furono costruiti gli edifici di culto, a modello delle basiliche civili, ovvero come luoghi di riunione in assemblea.

Il Medioevo

In epoca franco-carolingia ci fu poi una grande enfatizzazione sulla Comunione e si diffuse l’impressione che assumere il Corpo di Cristo fosse qualcosa di cui pochi erano degni. A ciò si aggiunse una gestione della Penitenza che prevedeva l’assoluzione solo una volta nella vita. Per questo motivo molti fedeli pensarono di farsi battezzare e poi comunicarsi verso la fine della vita.

L’unico modo per avvicinarsi al Signore restava quindi l’Elevazione, in cui si contemplava il Corpo di Dio. E quel momento assunse un grande significato, tanto che i sacerdoti tenevano quanto più a lungo possibile l’Ostia elevata in modo che i fedeli potessero vederla. Nacque da ciò l’Adorazione Eucaristica.

Questo stato di cose perdurò a lungo, e la Chiesa prese provvedimenti. Nei secoli successivi fu riformata la Penitenza, fino ad assumere la forma che conosciamo, ma anche la concezione di Eucarestia mutò con il progresso delle conoscenze bibliche e teologiche.

Restò però un grave problema: quello che vedeva il popolo praticamente escluso dalla celebrazione della Santa Messa. Questa scarsa partecipazione era dovuta ad un’idea diffusa di netta separazione tra il Sacerdote ordinato e il popolo. L’intuizione del Sacerdozio battesimale non era ancora stata assunta.

Il rito prevedeva delle lunghe preghiere e invocazioni solitarie da parte del celebrante, espresse in latino, lingua che nel frattempo si era persa tra il popolo. Le formule erano spesso recitate sottovoce. L’assemblea quindi trascorreva praticamente tutto il tempo della Santa Messa, nella migliore delle ipotesi a pregare per conto proprio. Nella maggior parte dei casi ci si guardava attorno senza partecipare minimamente al Sacrificio.

A risolvere il problema fu il Concilio Vaticano II, che strutturò la Santa Messa in modo più consono a quello di un’assemblea orante.

Come ha operato il Concilio

Fu rivalutata la funzione del popolo in relazione alla sua mansione sacerdotale data dal Battesimo, che venne riconosciuta anche nella preghiera: “Ti ringraziamo o Signore per averci ammesso alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”.

Oggi i laici sono parte attiva nella Santa Messa e dispongono anche di una preghiera specifica (la Preghiera dei Fedeli) nella quale rispondono a alcune invocazioni: è un momento aggiunto al Padre Nostro in cui il popolo si rivolge direttamente a Dio.

La riforma più grande e incisiva fu ovviamente l’introduzione delle lingue nazionali. In questo modo l’assemblea può comprendere più profondamente il significato di invocazioni e preghiere, avvicinandosi quindi con maggiore cognizione all’Eucarestia.

L’aspetto apostolico è rispettato, in quanto gli Apostoli e i primissimi cristiani non recitavano formule latine. Lo stesso Gesù per istituire l’Eucarestia non parlò in Latino. L’intento di Gesù era quello che il messaggio arrivasse e si istituisse il memoriale.

Questo spiega anche perché nei riti esistono gesti immutabili, che sono quelli di istituzione divina (spezzare il pane, distribuirlo, ecc.), e altri che invece sono mutabili nella funzione pastorale della Chiesa.

Il rito latino ha mantenuto un suo fascino, e non è proibito. La sua celebrazione va però effettuata solo in contesti atti a rinnovare il coinvolgimento spirituale, ma non può essere la regola. La Chiesa infatti consente le celebrazioni in Latino, ma solo su espressa approvazione del Vescovo diocesano.

Una volta recuperata la partecipazione attiva dei laici, la Chiesa ha anche riconosciuto la necessità di assegnare loro alcuni ministeri. Sono il Diaconato permanente, l’Accolitato, il Lettorato, la funzione di Ministro straordinario dell’Eucarestia quello del Catechista, che (Diaconato permanente a parte perché è Ordine Sacro e appartenenza ai Chierici) sono aperte a uomini e donne.

La Santa Messa

La partecipazione alla Santa Messa è un momento di comunione fraterna, in cui l’Assemblea si offre in unità col sacrificio di Cristo. I doni dell’offertorio rappresentano il frutto e il lavoro dell’uomo. E non a caso il vino è derivato dal sacrificio degli acini col lavoro dell’uomo, e allo stesso modo il pane è frutto della macerazione dei chicchi di grano. Ovvero materia che col suo sacrificio si trasforma in qualcosa di diverso attraverso l’intervento dell’uomo. E si trasforma ancora, successivamente in sangue e corpo di Nostro Signore con l’invocazione dell’uomo e l’intervento di Dio. In quella collaborazione che Gesù ha sempre cercato.

La Liturgia della Parola, dialogo con Dio

La Liturgia della Parola, dialogo con Dio

Approfondiamo il significato di questa parte importante della S. Messa

La celebrazione eucaristica, come sappiamo, si compone di quattro parti indissolubili, tra cui due fondamentali e imprescindibili: la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica.

Il Concilio Vaticano II ha voluto specificare che la S. Messa compie il Sacramento solo nella sua interezza. Il significato della Liturgia serve per il coinvolgimento e il motivo è dato dal fatto che la salvezza arriva anche attraverso i sensi.

È stata data inoltre una grande rilevanza alla Liturgia della Parola, nella quale l’assemblea è coinvolta molto più di quanto apparentemente possa sembrare. E purtroppo anche di quanto comunemente si pensi.

La lettura dei brani delle Scritture e successivamente del Vangelo, non svolgono esclusivamente un ruolo didattico. Si inseriscono nella Memoria del Sacrificio di Cristo. Preparano inoltre ad accogliere le fasi successive della celebrazione. È un modo per entrare in simbiosi con Cristo e per predisporci all’offerta dei doni: è Dio che parla ad ognuno di noi. E in quel momento dobbiamo attualizzare in noi il messaggio. I doni offerti sono quindi il segno della partecipazione dell’uomo al Sacrificio di Gesù.

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Il popolo in preghiera

La partecipazione da parte dell’assemblea, non si limita però al solo ascolto. Nelle risposte alle preghiere e nei salmi c’è lo svolgimento della funzione sacerdotale impressa col battesimo in ognuno di noi.

Questo aspetto sarà ricordato nella preghiera eucaristica, dopo la Consacrazione (“Ti ringraziamo o Signore per averci ammesso a svolgere il servizio sacerdotale”).

Subito dopo, con la Preghiera dei Fedeli, si concretizza l’unico momento, insieme al Pater Noster, in cui i fedeli si rivolgono direttamente a Dio.

È bene sottolineare che questa preghiera si suddivide in intenzioni e preghiera propriamente detta. Tutta la parte che viene letta dall’ambone costituisce l’intenzione. La preghiera dei fedeli al Padre consiste nella risposta (solitamente “Ascoltaci o Signore“). Abbiamo quindi un’invocazione corale del popolo di Dio che a Lui si rivolge in modo frontale. Non è quindi importante se a leggere le intenzioni sia un laico o il sacerdote: fondamentale è la preghiera, ovvero la risposta, attenta e consapevole.

I segni dell’unità del popolo sono spesso ricordati durante la S. Messa. La stessa offerta dei doni chiama l’assemblea a protagonista.

Anticamente i doni, ovvero il pane, il vino e l’acqua, erano portati da casa e poi consegnati al sacerdote, esclusivamente da coloro che facevano la Comunione. Il significato è ovviamente quello della partecipazione al banchetto. Oggi si effettua la processione offertoriale, ma l’aspetto significativo viene conservato simbolicamente con la raccolta delle offerte. Questa infatti non è semplicisticamente “la Chiesa che chiede soldi”, ma assume il senso della partecipazione eucaristica.

L’assemblea partecipa vivamente alla celebrazione eucaristica, attraverso i gesti, le risposte e con i contesti. Ecco il motivo per cui la validità dell’assolvimento del precetto si concretizza solo con l’ascolto e la partecipazione alla funzione intera. Occorre tenere presente che con l’Eucarestia ci si accosta a un Sacramento, che pur essendo ripetibile (come Penitenza, Unzione degli infermi e Matrimonio, questo in caso di vedovanza) è pur sempre una Grazia concessa da Dio.

La Gerusalemme celeste nell’Apocalisse di Giovanni

La Gerusalemme celeste nell'Apocalisse di Giovanni

Sposa dell’Agnello e immagine della Chiesa

La Gerusalemme presentata nell’Apocalisse di Giovanni è spirituale, perché discende dal cielo. Si tratta di un’immagine più volte evocata (Ap 3,12 e 21,2). Questa Gerusalemme viene anche indicata come Sposa dell’Agnello (Ap 21,9) di cui invoca il ritorno (Ap 22,17).

Sono chiare identificazioni simboliche che la indicano come la Chiesa di Cristo, quella su cui “le forze degli inferi non prevarranno”).

È anche la città di Colui che è tre volte santo, come si comprende dalle misure rivelate in Ap 21,16, ovvero 12.000 stadi, ma soprattutto dall’uguaglianza delle tre dimensioni spaziali: lunghezza, larghezza e altezza. Una città a cui si accede attraverso la Fede che introduce la Salvezza, simboleggiata e resa solida dalle 12 porte fatte di perle. È facile riconoscere nelle 12 porte gli Apostoli, deducendolo anche da Eb 11,10.

All’interno della Gerusalemme celeste l’Apocalisse fissa quanto è oggetto della nostra Fede. Il trono è la Croce di Cristo su cui siedono Dio e il Figlio, in una rievocazione dell’albero della vita che porta frutto e dà la vita eterna. Le foglie di questo albero sono costituite dalla corona di spine e provvedono a guarire da ogni peccato.

Il trono è anche una sorgente di acqua viva (Ap 22,11), come annunciato da Ezechiele (Ez 47,9), per il battesimo di vita eterna che sgorga dal costato del Cristo. È una città d’oro, costruita sulla fedeltà del suo Sposo.

Questa è l’immagine che l’Apocalisse e la Scrittura in genere ci fornisce della Chiesa, la quale si contrappone alla “prostituta di Satana” (chiamata Babilonia), il cui destino sarà di essere uccisa e divorata dal suo stesso padrone.

La fedeltà alla Chiesa di Cristo e al Magistero è dunque annunciata da Giovanni nell’Apocalisse, che contrariamente a quanto si crede comunemente, non è un testo che profetizza disgrazia, ma è un libro di grande speranza. E che si chiude infatti con la sposa che invoca il suo Sposo.

Bibliografia:

Piccolo Dizionario dell’Apocalisse, Francesco Vitali, Tau Editrice, Todi 2008

Basilica di San Giovanni in Laterano: Ecclesia Mater

Basilica di San Giovanni in Laterano: Ecclesia Mater

La sede ufficiale del Papa

Siamo abituati a ritenere San Pietro e il Vaticano come “casa” del Papa. E in effetti la Santa Città del Vaticano è il luogo dove abita il Santo Padre, e la Basilica di San Pietro ne è l’espressione più visibile.

In realtà, però, la vera sede del Papa, la chiesa più importante della cristianità è la Basilica di San Giovanni in Laterano, ovvero la Chiesa della Diocesi di Roma che ospita la cattedra del Vescovo di Roma.

San Giovanni in Laterano è affidata a un Cardinale, il quale copre le funzioni di Arciprete, e che attualmente è il Cardinale Camillo Ruini.

Il nome ufficiale della Basilica del Laterano è Archibasilica Sanctissimi Salvatoris, in quanto, come tutte le basiliche patriarcali anche essa è intitolata al Nostro Salvatore. È la Basilica di grado più elevato in assoluto, quindi anche rispetto alle altre tre basiliche maggiori. Il titolo accordatogli è “Omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput“, ovvero “Madre e capo di tutte le chiese della città [di Roma] e del mondo”.

Le altre basiliche maggiori sono:

Basilica Vaticana (San Pietro);

Basilica Ostiense (San Paolo fuori le mura);

Basilica Liberiana (Santa Maria Maggiore).

Tutte e quattro le basiliche citate sono dotate di una Porta Santa e dell’Altare Papale.

Le dedicazioni

La prima dedicazione della Basilica di Giovanni in Laterano è stata effettuata nel 314 da Papa Milziade, il quale la consacrò al Santo Redentore. Una successiva dedicazione della Basilica e del Palazzo Laterano furono ad opera di Papa Silvestro I, il quale li consacrò entrambi come “Domus Dei“. Abbiamo quindi notizia di altre due dedicazioni. Papa Sergio III dedicò Basilica e Palazzo del Laterano a San Giovanni Battista, consacrando inoltre il Battistero, nel X secolo. Infine nel XII secolo Papa Lucio II aggiunse l’intitolazione a San Giovanni Evangelista, per cui oggi la Basilica conta la dedicazione ai due Giovanni, e spesso non vengono celebrati insieme.

Un sito di elevata e evidente sacralità

Nelle adiacenze della Basilica di San Giovanni in Laterano possiamo ammirare la Scala Santa, ovvero quella scala in marmo che Sant’Elena fece ricostruire a Roma traendola da Gerusalemme, e che la tradizione ritiene sia la scala salita da Nostro Signore per accedere al Palazzo ove alloggiava Pilato. La Scala Santa dà accesso attualmente al Sancta Santorum, il più venerato santuario di Roma, ove tra l’altro possiamo trovare l’immagine di Cristo acheropita, ovvero che la tradizione ritiene mai dipinta da mano umana.

Pane e vino, frutti del sacrificio, per il Sacrificio

Pane e vino, frutti del sacrificio, per il Sacrificio

La Transustanziazione di beni lavorati dall’uomo

L’uomo è sempre stato chiamato dal Padre alla collaborazione con Lui, fin dal momento della Creazione.

Più volte le Scritture hanno ribadito e richiamato questa realtà, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. In quest’ultimo Gesù ha dato prova di ciò anche durante i molti miracoli da Lui compiuti. Trasformando acqua in vino non avrebbe certo avuto bisogno che gli fossero portate le anfore. Oppure per resuscitare Lazzaro non avrebbe avuto certo bisogno che rimuovessero la pietra.

Così anche nell’aspetto sacramentale della Santa Eucarestia, possiamo trovare questa chiamata.

Il pane e il vino, destinati a divenire corpo e sangue di Nostro Signore, sono in realtà, anche se oggi in modo indiretto, donati dal popolo di Dio.

Il Concilio Vaticano II ha voluto sottolineare questo aspetto attraverso la processione offertoriale.

Ma perché il pane è stato scelto da Gesù per divenire il proprio corpo? E perché il vino? Nella preghiera eucaristica si ricorda che essi sono dei “frutti della fatica e del lavoro dell’uomo“. Sono infatti due beni, ovvero due alimenti, che non si trovano già pronti in natura, ma che l’uomo deve ottenere col lavoro.

Ma c’è ancora un aspetto ancora più incisivo. Sia il pane che il vino sono ottenuti attraverso un’unione creata da una distruzione. Chicchi di grano e acini di uva, vengono “sacrificati”, tritati, macerati. E il risultato di queste azioni li porteranno a essere un cibo nuovo.

Anche la Salvezza arriva da Cristo e solo da Lui, attraverso il suo sacrificio. E la nostra partecipazione viene simboleggiata dall’offerta di ciò che diverrà corpo e sangue di Nostro Signore. Noi siamo quella goccia d’acqua che il sacerdote inserisce nel calice.

Il significato della partecipazione viene mantenuto dalla colletta svolta prima della Liturgia Eucaristica. Non deve essere interpretata come “la Chiesa che chiede soldi”, ma nell’ottica della nostra partecipazione all’offerta del pane e del vino.

Nel momento della Transustanziazione noi siamo tutti uniti nel sacrificio di Cristo che si rinnova. Anzi, che si attualizza davanti a noi.

Dio non ha tempo, e il suo sacrificio avviene ogni volta che pane e vino si trasformano.

La condizione affinché noi stessi si partecipi al sacrificio è l’essere docili come il pane e il vino. Occorre lasciarsi trasformare da Cristo. Docili come docile è stata Maria nell’accogliere il Corpo di Cristo in sé. Lei in modo diverso dal nostro, ma pur sempre conservando Dio in sé.

Testo di riferimento: Liturgia, Matia Augé, Edizioni SanPaolo, 8.a edizione 2014.

Si ringrazia il prof. Don Matteo Firpo, docente di Teologia Liturgica alla facoltà di Scienze Religiose (FTIS-ISSR).

La preghiera eucaristica e le sue origini

La preghiera eucaristica e le sue origini

La fondamentale preghiera che comprende prefazio e dossologia.

La preghiera eucaristica è un’unità letteraria ricchissima di contenuto teologico e si colloca nel momento centrale della celebrazione della Santa Messa. Non è unicamente preghiera ma “sacrificio di lode” e attuazione di un fatto, che è il sacrificio di Gesù.

Le parole utilizzate non sono solo un’evocazione del passato, ma compiono un mistero nel presente. I Greci parlano di “anafora”, ovvero di “portare su”, “offrire”. In latino si presenta come “oratio oblationis”.

La sua origine è certamente da ricercarsi nei gesti e nelle parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena. Emerge però il fatto che istituendola durante una cena, il Cristo pone in rapporto l’eucarestia e la cena giudaica.

L’origine giudaica

Ci si interroga quindi sul rituale utilizzato da Gesù, per collegarlo al rituale della Pasqua oppure alla cena festiva.

I Vangeli sinottici fanno riferimento alla cena pasquale, mentre Giovanni (specialmente in GV 18,28) la sera della Pasqua ebraica seguì la morte di Gesù.

In ogni caso la sostanza non cambia, in quanto si è trattato di un pasto che obbediva alla logica rituale ebraica, e in quanto tale fu concluso da una preghiera di azione di grazie, ovvero la birkat ha-mazon (ברכת ה-מזון, letteralmente “saluto di cibo”, quindi “benedizione di Dio per gli alimenti assunti”).

La birkat ha-mazon è un testo tripartito in tre strofe: una breve per il nutrimento che Dio dona al popolo di Israele; una seconda più ampia, con l’azione di grazie per la terra buona e desiderabile concessa da Dio al suo popolo; e infine una supplica per la sussistenza di Israele, Gerusalemme, dinastia davidica e tempio.

Pur derivando dalla birkat ha-mazon, la preghiera eucaristica si rivela assolutamente originale, integrando le strutture antiche e perfezionandole oltre che ad arricchirle. L’impostazione ebraica suddivide tre pericopi: benedizione-memoriale, rendimento di grazie e supplica. È una struttura che nella preghiera eucaristica ha assunto il carattere nuovo in cui si può rilevare il ritmo trinitario. Si tratta quindi di un cambiamento di impostazione che apre alla ragione delle modifiche introdotte, e anche allo sviluppo futuro delle preghiere eucaristiche, che assumono schemi differenti nelle diverse Chiese locali.

Fonte:

Liturgia, Matias Augé, Edizioni San Paolo, 8.a edizione 2014.

Si ringrazia il Prof. Don Matteo Firpo per le interessanti lezioni universitarie.

Il Concilio di Trento (1545-1563)

Il Concilio di Trento (1545-1563)

Come la Chiesa rispose a Lutero

Il Concilio di Trento assume nella Storia della Chiesa un’importanza fondamentale.

Fu il XIX concilio della Chiesa, e fu convocato per rispondere al dilagare della diffusione della dottrina di Martin Lutero. In realtà la Chiesa aveva già in mente di intervenire su molti degli aspetti che furono discussi. Indubbiamente, però, le posizioni assunte dal monaco servirono da sprono.

La situazione non era facile anche per le implicazioni politiche. In un primo tempo, infatti, il concilio avrebbe dovuto tenersi a Mantova, ma posizione della famiglia Gonzaga, molto vicina al partito imperiale, sconsigliò questa scelta.

Fu preferita poi Trento, in quanto Principato Ecclesiastico, ma in territorio imperiale: ciò avrebbe garantito tutti gli schieramenti, ovvero l’imperatore, il re di Francia e i diversi partiti di curia.

La decisione portò a molte trattative e richiese molto tempo. Basti pensare che il concilio fu convocato nel 1537, la sede fu scelta nel 1542, e l’apertura avvenne il 13 dicembre 1545.

È curioso notare come uno tra i Papi più “chiacchierati” della storia, Paolo III, ovvero Alessandro Farnese, fu colui che convocò questo concilio che avrebbe incanalato la Chiesa in un ambito molto più spirituale.

Fu un concilio molto travagliato non solo per gli argomenti delicatissimi che sarebbero stati trattati, ma anche per gli eventi che intervennero durante il suo svolgimento.

Come si svolse il concilio

La prima sessione si svolse infatti dal 1545 al 1547, anno in cui, a causa della peste, ma probabilmente anche per svincolarsi dalle pressioni imperiali, fu trasferito a Bologna.

Nella città felsinea non vennero prodotti decreti, e il Papa sospese il concilio nel 1549.

La seconda sessione fu aperta nel 1551 da Papa Giulio III, ma la delegazione dei cardinali che avevano aderito alla Riforma protestante operò una dura opposizione a quanto fino a quel momento approvato. Fu così che si arrivò ad una nuova sospensione.

Il nuovo Papa Paolo IV cercò allora di imporre le proprie regole, ma il suo rigore fu controproducente: l’inquisizione ebbe un nuovo impulso e venne estesa la lista dei libri all’indice.

Alle morte di Paolo IV salì al soglio pontificio Pio IV, il quale riaprì il concilio nel gennaio del 1561, e lo portò a termine chiudendolo il 4 dicembre 1563.

Le decisioni

I principali decreti approvati furono di due tipi: Dottrinali e di Riforma. Ecco l’elenco delle decisioni più salienti:

Decreti Dottrinali:

Interpretazione della Bibbia affidata alla Chiesa

Determinazione del Canone dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento

Giustificazione per fede e con opere buone

Santa Messa in latino

Sacerdozio ministeriale

Sacramentalità e indissolubilità del Matrimonio

Conferma del culto dei Santi

Conferma della Dottrina delle Indulgenze

Viene ribadito il valore dei 7 Sacramenti.

Decreti di Riforma:

Obbligo ai Vescovi di residenza nella Diocesi

Obbligo ai Vescovi delle Visite Pastorali

Fondazione di Seminari in ogni Diocesi

Moralizzazione della vita religiosa: condannati simonìa e concubinato

Divieto di cumulo dei benefici.

Da notare che tutti questi aspetti sono ancora in vigore ai nostri giorni, eccetto la Santa Messa che viene celebrata nelle lingue nazionali in armonia con quanto avvenne in epoca apostolica.

Si ringrazia il Prof. Don Paolo Cabano per le lezioni di Storia della Chiesa.

Bibliografia essenziale:

Storia della Chiesa II – Lezione 19

H. Jedin, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni

sul concilio di Trento, Brescia 1967 (ed. or. 1946);

P. Prodi, Controriforma e/o Riforma cattolica. Superamento di vecchi dilemmi nei nuovi panorami

storiografici, “Roemische historiche Mitteilungen”, 31, 1989, 227-237;

W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso

storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo

ed età moderna, a c. di P. Prodi, C. Penuti, Bologna 1994, 101-123;

R. Po-Chia Sia, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico (1540-1770), Bologna

2001;

J.W. O’ Malley, Trento e ‘dintorni’. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna,

Roma 2004 (ed. or. 1999);

E. Bonora, La Controriforma, Roma-Bari 2001;

A. Prosperi, Disciplinamento, in Historia. Saggi presentati in occasione dei vent’anni della Scuola

superiore di studi storici, a c. di P. Butti de Lima, San Marino 2010, 73-88;

R. Bireley, Ripensare il cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma,

Piccola esegesi di Genesi 1

Piccola esegesi di Genesi 1

Con riferimento a “Il cantiere del Pentateuco”, di Jean Louis Ska

Premessa

Sappiamo che la Bibbia non è un libro di Scienze. E non ha mai avuto intenzione di esserlo. Si tratta della raccolta di Scritture che noi credenti riconosciamo ispirate.

La stesura del suo libro più recente dell’Antico Testamento, risale a circa 2.100 anni fa, mentre quello più recente del Nuovo Testamento, a circa 1.900 anni or sono. Nel caso del Primo Testamento ciò che viene riportato si riferisce a eventi accaduti a circa 3.500 anni fa, e ripetuti oralmente di generazione in generazione per migliaia di anni prima di accedere alla forma scritta.

Gli studiosi, stanno indagando sulla probabilità che vi sia stata una redazione avvenuta nel periodo immediatamente successivo al ritorno del popolo ebraico dalla cattività babilonese.Il valore di quanto riportano le Scritture è centrato sulla comunicazione da parte di Dio agli uomini. L’ordine stesso in cui vengono presentati i vari libri nella Bibbia, non fa riferimento all’aspetto cronologico, ma segue un percorso pedagogico. Ne deriva che Genesi 1 sia stata scritta circa 400 anni dopo rispetto a Genesi 2, che nelle Scritture la segue.

Gli stessi eventi narrati, figurano in alcuni casi due volte. Questa particolarità costituisce per gli storici una garanzia. Partendo infatti dal presupposto che gli ebrei hanno sempre considerato sacra la parola di Dio, si sono fatti scrupolo di non eliminare alcuna delle tradizioni manifestate nel passato. Ecco quindi che la Bibbia racconta spesso lo stesso evento secondo la tradizioni riconosciute da Julius Wellhausen nell’ipotesi documentale.

Genesi 1

Il primo messaggio della Genesi (in ebraico בראשית = in principio) si riferisce al fatto che non si parla di una creazione dal nulla. Il mondo semitico infatti non aveva la concezione del “nulla”, e lo identificava con il “caos”.

Per indicare l’azione creatrice viene utilizzato il verbo “barah” (בָּרָ֣א) che in realtà indica “fare qualcosa di meraviglioso”.

La terra viene presentata come informe e deserta, con le tenebre che la avvolgono. E a differenza di quanto viene indicato in altre religioni, non c’è alcuna lotta per la creazione.

I primi quattro giorni vengono caratterizzati da separazioni non distruttive. Il deserto (“midbar”=מִדבָּר), le tenebre, ecc., restano in una separazione che dà alterità.

Nel corso del terzo e del sesto giorno abbiamo delle separazioni che esprimono il dono della vita, in un’azione derivata che deve essere continuativa, e in cui il mondo riceve la propria potenzialità di sviluppo. La potenza che qui viene espressa non è aggressiva, ma scandisce il riconoscimento del bene (“Vide che era cosa buona”). Di fatto nel separare Dio dà la vita, e la contempla in un compiacimento che dà senso al riposo del settimo giorno.

Dopo il “Dio disse” troviamo la prescrizione, in uno schema che viene ripetuto nel Decalogo, in cui il Primo Comandamento è il dono, e gli altri nove rappresentano le condizioni per conservarlo.

Sono evidenti fin dai primi versetti le intenzioni di significare i riferimenti al popolo di Israele.

Adamo ed Eva

Nella creazione dell’uomo e della donna, le esegesi di Venen e Beauchamp vedono il coinvolgimento dell’umano nella somiglianza. Adamo viene creato a immagine di Dio, ma la somiglianza viene riferita come una conquista da effettuare, e viene citata solo nel versetto 27. In ciò si riconosce l’autonomia concessa all’uomo.

La fecondità e il dominio sulla natura vengono accompagnati dalla benedizione. Si percepisce però il senso forte dell’utilizzo dei verbi dominare e soggiogare, ancora più chiaro in ebraico. Il dominio affidato all’uomo non implica automaticamente l’uccidere gli animali. Ogni specie ha il suo spazio, e quindi la propria dimensione vitale: all’uomo sono riservati semi e alberi, agli animali le altre erbe, in un simbolismo perfetto. Intravvediamo quindi la metafora che indica come il dominio sugli animali possa anche essere inteso come controllo della “animalità” dell’uomo, attraverso l’aiuto di ciò che condivide con Dio.

Questa prospettiva emerge in Genesi 2 (che ricordiamo essere stata scritta prima), circa l’insufficienza degli animali circa il dare aiuto all’uomo. Il che determinerà la creazione della donna, dalla costola di Adamo.

Circa la constatazione di ciò che “è buono”, ne notiamo l’assenza in corrispondenza della creazione di Adamo, ad indicare che l’uomo non è completo, ma deve raggiungere la completezza con le proprie scelte.

Infine, il riposo del settimo giorno, non deve essere inteso come un bisogno di Dio. È invece l’invito alla continuazione affidata all’uomo.

Si ringrazia il prof. Don Davide Bernini per le sue lezioni.

Sulla Croce Gesù invocò il Padre, ma gli ebrei intesero Elia

Sulla Croce Gesù invocò il Padre, ma gli ebrei intesero Elia

Ecco perché…

La liturgia e il libri ci ricordano quale fu il grido di Gesù sulla Croce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni”, subito tradotto in greco in “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. Ma quale lingua parlava Gesù se gli ebrei lì presenti hanno pensato che si rivolgesse ad Elia?

Non è un mistero ma un fatto che si spiega in modo logico attraverso lo studio del periodo storico.

A quel tempo in Palestina erano utilizzate diverse lingue:

1) Il greco, e specificamente il dialetto attico, quello che oggi noi definiamo “greco neotestamentario”, che era la lingua dei dotti.

2) Il latino, che era la lingua dei conquistatori, utilizzato prevalentemente in ambito giuridico.

3) l’ebraico, utilizzato per i riti e per le celebrazioni, e comunque in ambito religioso.

4) l’aramaico, una lingua derivata dal periodo di esilio a Babilonia, che era la lingua comune, utilizzata dal popolo.

Per semplificare possiamo affermare che Gesù, nell’esprimersi nei suoi discorsi, con le parabole e gli insegnamenti distribuiti nella sua predicazione, nonché con Apostoli e con i suoi amici parlava, come tutti, l’aramaico.

La spiegazione

Nell’ambito di questo schema possiamo decifrare le parole pronunciate da Gesù.

Il popolo di Israele riteneva Elia il più grande dei profeti, ovvero colui che con il suo ritorno avrebbe preceduto l’arrivo del Messia. Come sappiamo la convinzione popolare e dei sommi sacerdoti, nonostante l’avvertimento di tutti i profeti, era rivolta ad un Messia conquistatore.

L’espressione adottata da Gesù per rivolgersi al Padre fu Eloì, ossia un modo verbale della forma scritta Elohim, che significa “Signore”, nell’accezione di Dio. Il termine è usato innumerevoli volte nella Bibbia, e dà addirittura il nome alla tradizione biblica detta “elohista” o “E”.

Questa invocazione fu invece immediatamente interpretata dagli ebrei, che (strano a dirsi ma vero) non conoscevano bene l’ebraico, come un appello a Elia. Inoltre, se l’espressione fosse stata in aramaico, avrebbe dovuto essere: Elahî. Va notato poi che se Gesù avesse voluto invocare Elia avrebbe pronunciato “Elì”.

Ecco quindi che tra le persone che assistevano alla crocifissione si pensò subito ad Elia, e si diffuse la domanda del perché Gesù lo invocasse. Anche considerando che Elia, fra l’altro, era ritenuto il protettore e il confortatore dei moribondi.

La frase destò qualche preoccupazione, tanto è vero che alcuni tra i presenti chiesero di attendere per vedere se Elia corresse in aiuto per aiutarlo. In questo caso la convinzione di Gesù come Messia avrebbe preso corpo.

La vicenda è molto significativa anche per la conferma che gli ebrei non erano del tutto sicuri di mettere a morte un impostore, perché il dubbio che Gesù fosse realmente il Messia attanagliò il popolo fino all’ultimo. Ma come sappiamo, Gesù esalò lo Spirito, e morì esattamente come i profeti avevano annunciato già centinaia di anni prima.

La pia tradizione del “Sepolcro”

La pia tradizione del "Sepolcro"

Allestito l’Altare della Reposizione

La tradizione del “Sepolcro” è molto sentita a Mendatica.

Nonostante le difficoltà derivanti dalle misure anti-pandemia, come ogni anno alcuni volontari hanno allestito l’Altare della Reposizione.

La liturgia pasquale prevede infatti che il triduo inizi il Venerdì Santo. Secondo l’antico uso, il giorno viene fatto iniziare alla sera del dì precedente. Al termine della celebrazione della Santa Messa in coena Domini, i fedeli rendono omaggio ad un altare allestito specificamente per ricordare il sacrificio del Salvatore.

Durante la Messa del giovedì, infatti, vengono consacrate le specie eucaristiche per essere distribuite ai fedeli nella comunione sacramentale del giorno successivo.

Il giovedì che precede la Pasqua, la Chiesa si oscura in segno di dolore e si unisce idealmente e spiritualmente all’Agnello immolato. Le campane tacciono, l’altare maggiore è disadorno, il tabernacolo vuoto e aperto, i Crocifissi coperti. Gesù è vivente nell’Eucarestia, ma non si può negare il passaggio cruento della sua crocifissione.

La tradizione dei “Sepolcri” ha origine molto antica. Se ne hanno notizie certe in epoca carolingia. Nei secoli VIII e IX i fedeli avevano dunque già l’abitudine di ricordare la crocifissione con i segni evocanti la morte di Gesù.

La comunità di Mendatica è sempre stata molto sensibile alle tradizioni religiose. Quest’anno il “Sepolcro” della Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, ha voluto evidenziare alcuni simboli molto suggestivi. Sono stati inseriti una corona di spine adagiata su una croce, un telo e un sudario, alcune pietre a ricordare l’aspro cammino sul Golgota, un pane e un calice colmo di vino, una borsa da cui fuoriescono le monete.