Apocalisse di Giovanni, la rivelazione

Apocalisse di Giovanni, la rivelazione

Il libro letterariamente più suggestivo del Nuovo Testamento

Apocalisse di San Giovanni Apostolo è forse il libro che desta maggior suggestione nel panorama neo-testamentario, e probabilmente anche nell’intera Bibbia.

A contribuire a questo effetto è certamente il genere letterario che gli appartiene, ma anche il suo contenuto escatologico.

Di fronte alla fine dei tempi e al giudizio finale l’uomo ha sempre assunto un atteggiamento di sospetto misto a paura. Occorre riconoscere che alcuni atteggiamenti del passato possono aver contribuito ad alimentare questi sentimenti, ma se si indaga sul contenuto del libro, ci si accorge che ad essere sbagliato è l’approccio del lettore.

Cosa realmente significa “apocalisse”

Il titolo stesso dà adito a fraintendimenti. Il termine “apocalisse” è oggi comunemente interpretato come sinonimo di “disgrazia” o addirittura di “armageddon”. Quest’ultimo è un errore madornale e ancora peggiore del primo.

“Apocalisse” deriva dal sostantivo greco ἀποκάλυψις (apocalypsis) e significa “rivelazione”, “svelamento”. Indica quindi il “togliere il velo” da argomenti o vicende. E ciò a cui Apocalisse di Giovanni si riferisce è la Parousia, ovvero il ritorno del Cristo.

Solo questo basterebbe a farci capire che non può essere un libro di tragedia.

Il genere letterario che definisce il libro di Giovanni è quello che stabilisce e simboleggia la categoria propria “apocalittica”, con grandi metafore, una simbologia forte e richiami evidenti a entrambi i testamenti. Riferiti all’Antico Testamento troviamo infatti 40 versetti.

Vengono tratte dall’Apocalisse immagini altamente simboliche, come la Santa Vergine che calpesta il serpente, o la descrizione della Gerusalemme Celeste.

Le scene “forti” sono anche dovute al carattere dell’autore, non dimentichiamo che Giovanni è l’Apostolo dell’Amore ma anche il “Figlio del Tuono”. È definito figlio di tre madri, perché generato dalla moglie di Zebedeo, affidato a Maria, ma anche, appunto “figlio del tuono” che in ebraico è di genere femminile (“la tuona”).

Come leggere “Apocalisse”

Seppure non certamente attribuibile a Giovanni, a causa del diffuso (e allora lecito) fenomeno della falsa epigrafia, Apocalisse è certamente uno scritto giovanneo, ovvero di ambito dei discepoli o della scuola dell’Apostolo. È comunque un libro ispirato e per questo degno dell’inserimento nel canone.

Venne dunque scritto alla fine del I secolo d.C. e risente dell’esperienza della Chiesa che si appresta a uscire dal periodo apostolico, chiudendo la “Rivelazione”.

La lettura del libro va dunque seguita con animo di speranza, e non in atteggiamento di timore. Ciò che l’Apocalisse descrive si è infatti già in parte realizzato, e quanto deve ancora accadere sarà caratterizzato dalla bontà e dalla misericordia del Cristo.

Risulta evidente il messaggio che Dio vuole la salvezza di tutti e che al giudizio parteciperemo anche noi, con una visione chiara del nostro essere e essere stati. La sentenza sarà anche dipendente dal nostro libero arbitrio.

Apocalisse dunque è un titolo che resta fedele all’etimologia originaria del termine, e non all’accezione che comunemente gli viene attribuita.

Il Sinodo di Pasqua

Il Sinodo di Pasqua

Papa Francesco insiste sulla sinodalità. Quanti lo ascoltano?

Il vescovo di Roma invita i suoi vescovi e i pastori delle chiese: “Fratelli, è ora di fare sinodo. Riuniamoci insieme, venite!”
Ma i vescovi e i pastori delle chiese dicono: “Francesco, come possiamo? Le comunità sono frantumate dalla pandemia, i nostri preti sono stanchi, le chiese sempre più vuote, la gente è spaventata da questa guerra che già è iniziata… come possiamo fare sinodo?”

Il vescovo di Roma si rivolge a tutti i fedeli delle chiese e dice: “Fratelli e sorelle è ora di fare sinodo. Venite, dobbiamo avere a cuoreo le nostre comunità, la nostra chiesa, venite!”
Ma il popolo di Dio, sempre pronto alla mormorazione, dice: “Francesco, sono altre le questioni che rubano il nostro tempo: il lavoro, le nostre famiglie, le paure – tante! –, il sinodo, il dialogo, l’ascolto… sono cose che si fanno ingrassare tempi normali, in tempi di pace, ma adesso… come si fa?”

Il vescovo di Roma supplica i grandi del mondo e dice: “Amici, è ora di fare sinodo. È ora di dialogare, desidero ascoltarvi, venite, incontriamoci, parliamo, sogniamo esperienze di pace e di riconciliazione, desideriamo insieme un mondo nuovo!”
Ma i grandi del mondo rispondono tutti indaffarati: “Francesco, abbi pazienza ma siamo impegnati a fare la nostra guerra, è molto urgente! Fai pure le tue cose da papa ma noi siamo impegnati in cose più serie, siamo indaffarati a disegnare strategie, a sognare nuovi squilibri, il futuro non verrà, siamo impegnati a far tornare il passato!”

Sinodo è una parola greca che significa “camminare insieme”. Ci sono stati tempi antichi in cui chiesa e sinodo erano sinonimi.
Camminare insieme allora non è un’esigenza in più, una decorazione, una moda ma è l’unica condizione per essere chiesa di Gesù, chiesa del Risorto. E di esserlo in questo tempo!

Maria di Magdala, le donne, Pietro, il discepolo che Gesù amava, Cleopa e l’altro discepolo sono i testimoni della Pasqua. Il tratto che li unisce tutti è “andare”: andare alla tomba di Gesù al mattino presto, andare di corsa alla tomba, essere in cammino per un villaggio… ma questo camminare – che poi diventa correre – muove i suoi primi passi dall’evidenza perduta della morte, dalla persuasione triste che Gesù non appartenga più al presente: camminano per commemorare, per ricordare, per onorare, si cammina in direzione contraria a Gerusalemme raccontandosi il rammarico, il dolore e la delusione per come le cose sono finite …

In questo “cammino” manca Gesù, o meglio c’è, ma è morto!
L’annuncio della Pasqua viene a cambiare la direzione e il senso del cammino, il ritmo dei passi: Colui che era morto ora non è morto, Colui che apparteneva al passato ora non è più passato, Colui che era nel luogo inaccessibile della morte ora si fa realmente compagno di viaggio… cammina con Cleopa e il suo amico, cammina dunque con noi.

Il Risorto non vive se non per il Padre e per noi, non è impegnato a fare altro se non a condividere con noi la sua vita gloriosa e, attraverso il Battesimo, a noi – suoi discepoli – dona il suo Spirito.
Il Risorto è per noi, accanto a noi e in noi!

La chiesa è camminare insieme, perché il Signore cammina con noi attraverso i tempi, attraverso le prove, attraverso le fatiche, attraverso le malattie e le guerre. Gesù non è da un’altra parte! Gesù non lo incontro quando sarò sano, quando sarò nella pace, quando tutto sarà al suo posto… Il Signore fa Pasqua – e dunque passa “attraverso” – si fa compagno di viaggio nel tempo della prova, nella stagione della malattia, negli scoraggiamenti della stanchezza, nel rischio folle della guerra… è nostro compagno di viaggio oggi, Pasqua, perché ha attraversato e attraversa tutti i venerdì santi del mondo e di ogni uomo.

Fare sinodo significa mettere al centro il Signore risorto. E ripartire insieme da Lui.
E proprio perché il mondo cammina su vie storte, e proprio perché siamo colmi di problemi e incertezze la chiesa ha bisogno di essere sinodo, cammino insieme: non per tornare indietro a un tempo di cristianità (che non è mai esistito) non per tornare a posizioni di forza (Dio ce ne scampi!), ma per annunciare un’energia nuova, un germoglio di vita… per dire che questo è il tempo in cui accade una salvezza radicale ed eterna, una salvezza che sconfigge il peccato e dissolve la morte e le sue ombre.

La Pasqua di Gesù sta a mostrarci che non vi è mai una situazione persa, che la fiammella per quanto debole non sarà mai spenta e la canna per quanto incrinata non verrà mai spezzata, anzi! Per tutta la Quaresima ci siamo sentiti ripetere: “non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva!”.

Il cammino dei discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme sono i passi di un’umanità persa, smarrita, delusa, che si allontana dalla Pasqua del suo Signore, che cerca percorsi tutti suoi, e che va incontro alla morte.
Ma il cammino dei discepoli di Emmaus dopo l’incontro con il misterioso viandante che ritrova la strada per Gerusalemme ha il passo gioioso dell’annuncio, della gioia, del riscatto, della liberazione.

Se cammino da solo, senza il Signore e senza i fratelli, se non conosco il “noi” della chiesa e della condivisione allora mi allontano da Gerusalemme, mi separo dalla Pasqua di Gesù, dimentico la forza che mi abita.

Se invece camminiamo insieme con il passo spedito della fraternità con la gioia incontrollabile della speranza allora cammino verso Gerusalemme, partecipo della Pasqua di Gesù e vivrò da risorto.

Quella sera del primo giorno della settimana, quando le ombre del tramonto già si allungavano e la notte era pronta a ingoiare Cleopa e il suo amico, non hanno avuto timore di dichiarare la loro paura e di invocare, inconsapevoli, la compagnia del maestro sconosciuto: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”.
Egli entrò per rimanere con loro.

Le ombre sembrano scendere sul mondo, la paura sembra avvolgerci ma noi siamo così certi che il Signore cammina con noi, vivo e vittorioso, e anche noi ripetiamo le parole dei discepoli: “Resta con noi, Signore… resta con noi…”
Scopriremo, nella sera delle perdute speranze, che Lui è già con noi, Risorto…

Papa Francesco, successore di Pietro, vescovo di Roma, insiste: “Venite, facciamo sinodo, siamo chiesa, ascoltiamo la voce del Risorto!”

E ci ricorda: “Lui è presente, viene di nuovo, combatte per fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondop nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano!” (EG 278).

È tempo di camminare insieme, è il tempo del Risorto!
Il suo amore è più forte della morte!

Giovedì Santo 2022, Altare della Reposizione

Giovedì Santo 2022, Altare della Reposizione

Il significato del “sepolcro” parrocchiale nel triduo di Pasqua 2022

Come ogni anno, anche in questo 2022 la nostra comunità parrocchiale ha voluto dare all’Altare della Reposizione del Santissimo Sacramento, un’interpretazione teologica.

La Croce processionale in legno della Confraternita di Santa Caterina Vergine e Martire è stata adagiata a terra e ad essa sono stati aggiunti alcuni simboli.

Possiamo vedere la corona di spine, segno di dileggio da parte dei carnefici e di sofferenza fisica per Nostro Signore; un Mandylion (termine arabo da cui deriva il dialettale “Mandju”) che indica la sepoltura di Gesù secondo le usanze ebraiche dell’epoca, ma anche il tramandarsi del suo messaggio attraverso i secoli. Poco distanti anche due segni tangibili della sentenza capitale inflitta al Figlio di Dio: un grosso martello con una manciata di chiodi antichi.

Non manca la borsa con i 30 denari, prezzo del tradimento.

Il tutto si focalizza sul PANE e sul VINO in primo piano, ma anche sulla forma del ramo, colto da Sandrino Pelassa e cercato nel bosco di Mendatica per significare con la sua forma l’ascesa dalla terra al cielo.

L’Altare è stato predisposto dalla comunità del paese.

Aprire il cuore a Dio

Aprire il cuore a Dio

A volte è più facile negare l’evidenza che rinunciare alle proprie idee

“Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”.

Gesù aveva appena detto loro: «Io e il Padre siamo una cosa sola». Agli occhi di quei Giudei la bestemmia è evidente, e Gesù non può difendersi da essa che attirando l’attenzione sulle opere che Egli compie, che mostrano quale speciale sintonia ci sia tra Lui e il Padre.

Ma i Giudei non si convincono nemmeno di fronte all’evidenza dei fatti, non aprono gli occhi neppure davanti alle opere straordinarie di Gesù.

Quando il cuore è chiuso, quando il cervello è ottenebrato dall’ideologia, nessun miracolo può aiutare.

Per molte persone è più facile negare la realtà dei fatti che mettere in discussione le proprie idee.

Chiediamo al Signore di liberare la nostra mente da tutto ciò che gli impedisce di illuminare la nostra vita.

Dare la giusta importanza

Dare la giusta importanza

Un consiglio che invita a guardare anche a se stessi

Oggi Gesù ci invita a non dare importanza a chi crede di averne.
Soprattutto se la prende con chi pensa di poter consigliare gli altri proponendo delle cose che non fa.
Succede anche oggi.
E’ bene non pretendere dall’altro quello che io non faccio, come regola generale.
C’è molto da imparare dagli altri, ma basandosi più su ciò che fanno che su ciò che dicono.
Quindi non presumere di essere chissà chi.
Ma anche non pretendere dall’altro chissà cosa.
Ma quand’è che come i farisei, metto sull’altro pesanti fardelli? Ogni volta che pretendo che sia diverso da quello che è.
Quando lo faccio?
Molto semplice: ogni volta che mi arrabbio con qualcuno, appunto perché vorrei che fosse diverso.
A volte si fa anche con Dio!

La Genealogia di Gesù e il numero 14

La Genealogia di Gesù e il numero 14

Nel Vangelo di Marco è scritto che da Adamo a Gesù intercorrono 3 volte 14 generazioni

Nella Bibbia ricorrono spesso alcuni numeri con un’insistenza che a noi occidentali pare curiosa.

Per gli Ebrei, e in particolare ai tempi di Gesù i numeri si intrecciano spesso con concetti e argomentazioni. Lo scopo è quello di esprimere meglio e dare forza ai concetti che si vogliono comunicare.

Nel Prologo del Vangelo di Matteo, quello rivolto principalmente ai Cristiani provenienti dall’Ebraismo, troviamo una delle genealogie di Gesù.

Va detto innanzitutto che nella scrittura troviamo anche un’altra genealogia del Figlio, che però teneva conto di un’eredità non generazionale ma di affinità. Un po’ come quando leggiamo la genealogia di un Vescovo, nella quale non c’è un passaggio padre-figlio in senso materiale, ma il succedere delle ordinazioni. Quella di Matteo è invece una genealogia a tutti gli effetti.

Notiamo che essa è sviluppata in tre fasi: da Adamo a Abramo, da Abramo a David e da David a Gesù.

In tutte e tre le sezioni si contano 14 generazioni. Coincidenza? No. E vediamo ora perché.

Il significato numerico

Nell’alfabeto dell’ebraico biblico le prime lettere rappresentano anche i numeri da 1 a 10, e dalla composizione di questi si sviluppano gli altri.

La combinazione di due o più numeri può quindi dare un significato letterale o addirittura comporre parole.

Nel caso del 14, che ricorre nelle genealogie scopriamo che è ricondotto al nome di David. In ebraico David si scrive “דוִד”, ed essendo l’ebraico una lingua consonantica, e quindi priva di vocali, si riduce a una radice di tre lettere, date per noi da D, V e ancora D, e per gli ebrei da Dalet (ד), Vau (וִ) e ancora Daleth (ד). Nella rappresentazione dei numeri ebraici Daleth è il 4, Vau il 6. Sommando le tre “lettere” abbiamo quindi il numero 14, che testimonia la ricorrenza del nome di David, dalla cui dinastia secondo le scritture deve nascere il Messia.

Il significato semantico

Un’ultima considerazione va fatta sul nome di David e la sua origine. Pare che questa sia non già ebraica ma addirittura assira.

In ebraico David deriva dall radice “dod”, che è un termine fanciullesco per indicare il preferito, il “cocco”. La traduzione sarebbe quindi l’amato o il diletto. In assiro invece indicava il comandante delle truppe reali. Ecco perciò che dall’unione delle due accezioni abbiamo il “diletto che comanda l’esercito del re”.

Questa breve dissertazione funge da esempio, e conferma il fascino e la profondità del Vangelo, di cui è significativa ogni singola parola. E ciò ancor di più se lo contestualizziamo nel momento storico in cui fu scritto, per scoprire la straordinaria attualità che riveste ancora oggi.

Leggere il Vangelo con attenzione, calma e concentrazione, farsi continuamente domande sui significati, è un’abitudine che noi uomini del terzo millennio, purtroppo, soffochiamo e sacrifichiamo a vantaggio di tante altre opzioni, impiegando altrove il nostro tempo.

Santa Lucia, la ferma determinazione nell’amore di Dio

La storia di una delle sante più amate

Lucia di Siracusa nacque nella città siciliana nel 283, e visse nel pieno delle persecuzioni di Diocleziano.

Per etimologia del suo nome (lux = luce) viene invocata come protettrice del senso della vista. Non ha riscontro storico infatti la leggenda secondo cui la martire si strappò gli occhi quando sottoposta a torture dai pagani.

Il Canone romano la ricorda come una delle sette vergini.

La vita

La sua famiglia era di origini nobili e di fede cristiana, e la giovane Lucia, fin dalla tenera età, si consacrò segretamente a Cristo in verginità. Il padre, invece, la promise in sposa a un giovane pagano invaghito della sua straordinaria bellezza.

Preoccupata per la salute della madre, che soffriva di emorragie che nessuna cura, sebbene costosa le giovasse, si reco insieme alla madre Eutichia a Catania per chiedere la grazia della guarigione sulla tomba di Sant’Agata.

Giunte nella città etnea il 5 febbraio 301, le due donne si raccolsero in preghiera, quando Sant’Agata apparse a Lucia, dicendole: “Sorella mia Lucia, vergine consacrata a Dio, perché chiedi a me ciò che tu stessa puoi ottenere per tua madre? Ecco che, per la tua fede, ella è già guarita! E come per me è beneficata la città di Catania, così per te sarà onorata la città di Siracusa“.

Ripresasi dalla sorpresa, Lucia ebbe effettivamente modo di constatare la guarigione della madre, alla quale confidò in quel momento di essersi consacrata a Cristo e di voler seguire la strada della carità donando il proprio patrimonio ai poveri.

Nei tre anni successivi Lucia si dedicò a ogni tipo di opera di misericordia.

Nel frattempo il promesso sposo, indispettito e irritato per il rifiuto, cercò di dissuaderla in ogni modo. Quando si accorse di non riuscire a convincerla decise allora di denunciarla ai Romani come cristiana. Lo fece usando il termine “cristianissima”.

Al tempo della persecuzione di Diocleziano, questo bastava per arrestare un individuo, e Lucia fu sottoposta a un processo e a molte vessazioni.

Il processo

Le fu dapprima chiesto di fare sacrifici agli dèi, ma lei rifiutò. Fu allora minacciata e si arrivò a dirle che sarebbe stata mandata in un postribolo in modo che fosse profanata. Lucia rispose: “Il corpo si contamina solo se l’anima acconsente”.

Il prefetto Pascasio, che la interrogava, fu posto molte volte in difficoltà dalla risolutezza, decisione e fermezza della giovane e dal modo con cui citava le Scritture. Decise allora di farla tradurre via dall’aula, ma Lucia divenne così pesante che neppure i soldati riuscirono a muoverla.

La morte

Fu accusata perciò di stregoneria, cosparsa d’olio e torturata con le fiamme. Il fuoco però non riusciva a lambirla. Si decise quindi di trafiggerla alla gola con una spada (jugulatio). Lucia però morì solo dopo aver ricevuto la Santa Comunione, e non prima di aver profetizzato l’imminente fine delle persecuzioni di Diocleziano e la libertà per la Chiesa.

Aveva 21 anni.

Santa Lucia fu seppellita nelle catacombe di Siracusa. Oggi le sue spoglie riposano nel Santuario di Santa Lucia a Venezia, ma il luogo del suo principale culto resta a Siracusa nella Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro.

Il luogo dell’Avvento

Il luogo dell'Avvento

Lungo il mare di Galilea

Oggi il luogo dell’Avvento, attraverso la testimonianza dell’apostolo Andrea, è “lungo il mare di Galilea”. Il lago di Tiberiade era così grande agli occhi dei pescatori di Galilea che appariva loro come un grande “mare”.
E sulle sponde del mare-lago passa Gesù e chiama. Su quella riva accade il suo avvento, la sua venuta. E la sua venuta diventa chiamata – cioè un cambio radicale di vita – per Simone e Andrea, intenti a gettare le reti in mare: “erano infatti pescatori”.
Il luogo dell’Avvento del Signore è il lavoro, il mestiere, lo spazio professionale di Pietro e Andrea e Giacomo e Giovanni, tra barche, reti, pesca e padre. In quel luogo – lungo il mare di Galilea – Gesù invita i nostri a seguirlo: “l’appello di Gesù non colloca in uno stato, ma in un cammino” (Maggioni).
E se provassimo a vivere così il nostro luogo di vita e lavoro? Come un luogo dove il Signore si fa avvento per noi, viene e ci chiama, viene e ci offre un orizzonte di senso più ampio. Viene e ci dice che qualunque nostra vita e professione può essere vocazione.
Vieni Signore Gesù e mostraci che la sponda del nostro mare di Galilea si chiama ufficio, fabbrica, famiglia, scuola, cooperativa, campo, ospedale, banca, negozio… vieni lungo il mare di Galilea del nostro quotidiano!

Vangelo di Marco: la guarigione del paralitico di Cafarnao

Vangelo di Marco: la guarigione del paralitico di Cafarnao

Il miracolo, lo scandalo dei farisei e la tradizione rituale ebraica

La guarigione di Cafarnao è uno degli eventi riportati da tutti e tre i Vangeli sinottici, e precisamente in Mc2,1-12; Lc5,17-26; Mt9,1-8.

Questo testimonia l’importanza attribuita dagli evangelisti sinottici a questo fatto, che nella sostanza è rivelatore di molti aspetti della missione terrena di Gesù.

Come sappiamo, ognuno degli evangelisti ha selezionato fatti, eventi e circostanze da trattare in modo più approfondito. E ciò per evidenziare ognuno a suo modo determinati aspetti della Rivelazione.

La guarigione di Cafarnao determina inoltre uno degli scontri più aspri con i farisei. Gesù infatti, osservando la fede del paralitico e degli uomini che lo calavano dall’alto scoperchiando il tetto della casa in cui Gesù si trovava, prima ancora di guarire l’infermo gli rimette i peccati.

Occorre considerare quindi il contesto ebraico del tempo. Per gli ebrei, la remissione dei peccati, quando ancora esisteva il tempio, avveniva durante lo yom kippur (יום כפור), il giorno dell’espiazione. Il Sommo Sacerdote si recava al tempio in pomposa processione, dopo essersi purificato. Veniva trasportato su una portantina, in modo che non avesse contatto minimamente con ciò che possa essere impuro. Più tardi, e precisamente durante il capodanno ebraico, il Rosh Hashanah (ראש השנה), Dio apriva i “libri della vita” e, Lui solo, poteva rimettere i peccati. Nel frattempo i fedeli avevano 10 giorni di tempo per redimere le questioni di conflitto con i fratelli.

Si trattava del momento rituale più alto del calendario ebraico. Oggi, in assenza del tempio, gli ebrei non possono svolgere questo rito e ritengono di non poter avere la certezza del perdono di Dio.

La frase di Gesù sulla remissione dei peccati, suscitò quindi uno scandalo enorme, in quanto era come se il Salvatore annunciasse pubblicamente di essere Dio («Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» (Mc2,7). A tutte queste considerazioni possiamo anche aggiungere che il miracolo avvenne di sabato.

Gesù, vedendo nel cuore dei farisei, li ammonisce sfidandoli: «Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va a casa tua» (Marco 2,8-11).

È interessante notare come Marco e Luca si soffermino sullo scoperchiamento del tetto, mentre Matteo sorvoli su questo particolare.

Il Vangelo di Matteo è detto “Ecclesiale” e sottolinea invece la meraviglia del passaggio del potere della remissione agli uomini, attraverso Gesù-Uomo. Nella volontà di specificare l’apertura della casa dall’alto, Marco e Luca testimoniano la fatica dell’approccio dell’uomo con Dio.

Gesù indica in questo modo ciò di cui più abbiamo bisogno, che è il perdono dai nostri peccati: una necessità più urgente di quella del medico. Per questo Gesù si pone come Dio e anche come medico.

Di fondamentale importanza l’utilizzo dei termini. Nel Vangelo di Marco, Gesù si rivolge così al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (Mc2,5).

Il termine “figlio” aveva ed ha ancora per gli ebrei un significato e una valenza forte. Significa avere qualcosa a propria immagine e somiglianza. Anche Matteo usa questo termine. Luca invece usa il sostantivo “uomo” perché parla in termini di un universialità di una Chiesa che si apre anche ai gentili. Sottolineando inoltre la vicinanza al modo in cui Gesù ama definirsi nella sua funzione messianica: “Figlio dell’uomo”.

Comunione spirituale, opportunità e dono

Comunione spirituale, opportunità e dono

Gesù è dono gratuito per tutti

La pratica della Comunione spirituale non è diffusa né praticata quanto si dovrebbe.

Porta con sé numerosi significati e la possibilità di acquisire una vera comunione con Dio, attraverso il desiderio di riceverlo materialmente.

Chi non può per vari motivi avvicinarsi all’Eucarestia, se davvero desidererebbe accogliere in sé il Salvatore, può accostarsi infatti alla Comunione spirituale.

Il Magistero ha predisposto delle preghiere apposite per usufruire di questo dono gratuito del Signore, che possiamo trovare sul sito del Vaticano, cliccando QUI.

Si tratta dell’adempimento di una delle promesse di Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

Con l’anima predisposta ad accogliere Dio, chiunque può soddisfare il desiderio di riceverlo.

Fa osservare Don Paolo Ciccotti sul suo blog: “Gli effetti che essa produce nell’anima sono gli stessi della Comunione sacramentale a seconda delle disposizioni con cui la si fa, della maggiore o minore carica di devozione sincera con cui si desidera Gesù, dell’amore con cui lo si riceve Gesù e ci si intrattiene con Lui. Certamente non può portare frutto se l’anima non è in grazia di Dio“.