Abbiamo la beatitudine tra le nostre mani

Abbiamo la beatitudine tra le nostre mani

Ascoltare la Parola di Dio ci avvicina al “Sì” di Maria

«In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”.
Ma egli disse: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”»
. (Dalla Liturgia)

Nel brano precedente Gesù aveva appena liberato un ossesso da un demonio.

Una donna del popolo esprime il proprio entusiasmo per Gesù con espressioni tutte femminili. È come se dicesse: «Magari fossi io tua madre!». Gesù non la rimprovera, ma approfitta di questa uscita per portare il suo messaggio: è davvero beato chi ascolta e mette in pratica la parola di Dio.

Ancor prima del legame fisico, anche quello più stretto come quello tra genitori e figli, c’è il legame dell’amore di Dio, che si esprime nell’ascoltare e nel mettere in pratica la sua parola. E attenzione: questa frase di Gesù non intende affatto ridimensionare la figura della sua santissima Madre. Maria infatti, prima ancora di aver concepito Dio nel suo grembo, lo ha accolto nel suo cuore con la fede.

E anzi è proprio perché ha accolto con fede operosa la parola di Dio nel suo cuore, che ha potuto accogliere nel suo grembo il Figlio di Dio.

La pedagogia di Cristo come luce viva

La pedagogia di Cristo come luce viva

Il disegno divino ci viene trasmesso affinché possiamo scegliere con libertà

La Rivelazione si è compiuta con l’avvento di Gesù, unico mediatore e sola via di salvezza.

Attraverso i secoli Dio si è sempre adeguato alla comprensione specifica dell’uomo, il quale ha maturato gli strumenti di comprensione in un cammino di apprendimento calibrato in armonia con le sue sue potenzialità.

Non sempre il messaggio è stato interpretato correttamente, ma ha sempre seguito la logica del pensiero umano predominante.

Siamo passati attraverso periodi che ci hanno indotto a comportamenti che oggi riteniamo inadeguati, ma che hanno sempre rispecchiato la capacità dell’uomo di uniformarsi al messaggio che veniva via via percepito.

È stato e sarà un percorso pedagogico che è inseparabile dalla crescita dell’uomo. Il peccato originale ha segnato il punto più basso dell’incomprensione, e ha causato l’interazione di concetti, di modi di pensare e di impedimenti anche psicologici che hanno allontanato l’uomo da quanto Dio ha pensato per l’umanità.

Alcuni di questi sono al momento almeno apparentemente insuperabili, quali la diffidenza verso il divino e la convinzione-tentazione che induce a ritenerci impermeabili dalla volontà creatrice.

Dio, immerso nella sua visione eterna ha dunque previsto la necessità di una proposta da sottoporre alla nostra scelta. E tutto ciò nel rispetto del vincolo che Egli ha voluto porre come dipendente dalla nostra libertà.

Se ci pensiamo bene, anche il volerci creare liberi è segno della Sua immensa bontà, che ci consente, se vogliamo, addirittura di rifiutarlo. Per chi accetta la proposta di Dio, il percorso non può dunque essere che un cammino di apprendimento.

Ne deriva che uniformarsi alla Parola, cercando di comprenderla senza diffidenza o preconcetti, risulta essere fondamentale. E questo perché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, hanno previsto le nostre difficoltà, e attraverso un’evoluzione pedagogica ci presentano gli strumenti adatti.

In questo ambito si collocano anche le parole di San Giovanni Paolo II, quando all’esordio del suo pontificato ci esortò a spalancare le porte a Cristo.

Trova spazio dunque anche l’umiltà, che fu caratteristica di tutti i santi. Metterci in discussione e non chiudere le porte al messaggio divino, risulta dunque fondamentale.

In fondo Dio, chiedendoci la Fede, non pretende che noi crediamo per certezza, ma solo per scelta. Una scelta che si poggia sulla credibilità del messaggio. Ci basta dunque ritenere l’insegnamento di Cristo come credibile.

Gesù infatti non aveva Fede, ma certezza, perché è Dio. Ma a noi bastano quelle virtù che provengono da Dio stesso, e che si chiamano perciò teologali: Fede, Speranza e Carità.

Gesù disse che per entrare nel Regno dei Cieli occorre essere come bambini. E noi sappiamo che la forza dei bambini è quella di ritenere credibili il papà e la mamma. Al imbo per essere felice basta la figura del padre e della madre, perché sanno che loro risolveranno ogni problema.

Dunque il nostro rapporto con Dio deve essere quello del bimbo con i genitori, ed è per questo che come bambini potremo entrare nella vita eterna. Ricordiamo: “Lasciate che i pargoli vengano a me”.

Joseph Ratzinger confessò candidamente che per lui il Paradiso è essere come bambini, che non hanno alcun tipo di preoccupazione, perché sono un tutt’uno con il padre e la madre. In loro confidano e in loro si abbandonano.

Il messaggio che il peccato di Adamo e Eva ci rende è quello dello strappo di un uomo e una donna diffidenti verso Dio. Hanno pensato che Dio volesse impedirci di essere sapienti e indipendenti. Ma il corso della storia ci ha insegnato il contrario. Gesù istituì l’Eucarestia per farci capire che Dio vuole che noi siamo in Lui, partecipando con noi in ogni molecola di quel Pane di Vita che è il suo corpo. E per questo fa che il pane consacrato nella memoria del sacrificio di Gesù diventi carne: quella carne vera e viva che fu crocifissa e che risorse.

In questo dunque possiamo vedere nell’Eucarestia un anticipo del Paradiso.

La vocazione del diacono Francesco d’Assisi

La vocazione del diacono Francesco d'Assisi

Il Patrono d’Italia e fondatore dell’Ordine che prese il suo nome, divenne la più umile delle creature

Giovanni di Pietro di Bernardone, meglio conosciuto come San Francesco d’Assisi è riconosciuto come uno dei più grandi, se non addirittura il più grande, tra i santi della cristianità. La sua vita è divenuta un modello e la sua umiltà un esempio.

Nel breve lasso di tempo di circa 45 anni, visse addirittura due vite: una da ricco erede di una famiglia borghese e importante, e un’altra nella più esemplare e rigida umiltà.

Giovanni nacque ad Assisi nel 1181 da Pietro di Bernardone, ricco mercante di stoffe, il quale aveva grandi ambizioni, e aveva portato la sua famiglia ad essere una tra le notabili di Assisi. La madre era madonna Giovanna Pica, una nobile che discendeva da una famiglia della Provenza.

Attorno alla nascita di Giovanni si verificarono alcuni eventi strani. Poco prima della sua nascita un mendicante presentatosi alla porta di casa di Giovanna Pica le preannunciò: « Fra queste mura spunterà presto un sole… ». Al momento del parto, mentre madonna Giovanna si contorceva per le doglie, un altro pellegrino si presentò alla porta e sentenziò che tutto sarebbe andato per il meglio solo se il parto si fosse concluso in una stalla, cosa che avvenne.

Qualche giorno dopo un terzo viandante si aggirò per le strade di Assisi gridando: “Pace e bene!”, ovvero quello che divenne il motto di San Francesco.

Il ragazzo trascorse un’infanzia molto serena, attorniato dai favori della famiglia e della gente, avviato alla professione del padre. Spesso Giovanni si accompagnava con i suoi coetanei, abbandonandosi ai piaceri disponibili a un rampollo di rango elevato.

Nel 1202 Giovanni partecipò alla guerra che vide di fronte Assisi a Perugia, e fu catturato dai nemici, trascorrendo un periodo in carcere. In quel frangente il futuro San Francesco vide stimolata la propria spiritualità. Iniziò a «ripensare» la propria vita, meditando sulle alterne fortune umane. Fu probabilmente in quel periodo che rispose alla domande su quando avrebbe preso moglie con una frase emblematica: «Sì, sposerò la donna più bella e più amabile del mondo », riferendosi a madonna Povertà.

Un giorno Giovanni si trovò in una chiesetta di campagna in cui era esposto il Crocifisso di San Damiano, e fu colpito da un brano del Vangelo che recita: «Non tenere né oro né argento né altra moneta; non borse, non sacchi, non due vesti, non scarpe, non bastone». Il Crocifisso gli parlò con bontà: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va’ dunque e restauramela».

Giovanni pensò subito che il Cristo si riferisse a quella specifica chiesetta, mentre invece intendeva la Chiesa Universale.

Tutto quanto avvenne successivamente è cosa nota a tutti. Il santo si spogliò di ogni bene paterno, compresi i vestiti, fondò l’Ordine Francescano (ma per umiltà restò diacono (diakonòs = servo). Compì innumerevoli imprese mirabili e miracolose. Fu premiato con la sofferenza delle stigmate. Scrisse opere meravigliose, quali ad esempio il «Laudato sii, o mi Signore», e il «Cantico delle creature». Di dolcezza eccelsa e di profondo contenuto fu la preghiera per Fra’ Leone.

La morte di San Francesco è altrettanto suggestiva. Chiese ai suoi confratelli di appoggiare il suo corpo su una pietra e di spogliarlo completamente, per andare nudo davanti al Signore.

Oggi San Francesco d’Assisi è venerato da praticamente il mondo intero e la sua umiltà ha convinto tutti i viventi. È inoltre simbolo dell’amore per il creato e della custodia della natura. Morì Il 3 ottobre 1226 ad Assisi, e il 4 ottobre si commemora il suo nome. È Patrono d’Italia.

Domani solenne ingresso di Don Enrico a San Giovanni di Pieve

Domani solenne ingresso di Don Enrico a San Giovanni di Pieve

Il nuovo Canonico resterà ancora Parroco di Cosio, Mendatica, Montegrosso e Rezzo

Domani, domenica 25 settembre, Don Enrico Giovannini farà il suo solenne ingresso a Pieve di Teco, quale nuovo Canonico della Collegiata di San Giovanni Battista.

Dopo essere stato nominato Vicario della Valle Arroscia, Don Enrico assumerà questo nuovo incarico, a testimonianza della stima che S.E. Mons. Vescovo Guglielmo Borghetti nutre per lui.

La cerimonia di ingresso è fissata per le ore 17.00 alla presenza di Mons. Borghetti e del Cancelliere Diocesano Don Pablo Aloy.

Il nuovo Canonico manterrà ancora, almeno per qualche mese, la titolarità delle Parrocchie di Cosio, Mendatica, Montegrosso Pian Latte e Rezzo.

La nostra Parrocchia vuole esprimere al suo Parroco i migliori auguri per la nuova missione pastorale, e si unisce a lui nella preghiera.

Un pensiero grato va rivolto a Don Sandro De Canis, Canonico uscente, che non ha mai fatto mancare il suo apporto pastorale alle comunità dell’intera valle.

Inno al Logos, un canto cristologico

Inno al Logos, un canto cristologico

Nel prologo al suo Vangelo Giovanni innalza un inno sublime alla Trinità

Il Vangelo di Giovanni si differenzia dai tre sinottici, per diversi motivi. In primis l’aspetto cronologico è subordinato alla sostanza del messaggio, ma anche perché si tratta del frutto di un approfondimento durato forse 70 anni.

Giovanni, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo, era uno dei due “figli del tuono”. È detto anche “Epistekios” (ovvero colui che appoggiò il capo sul cuore di Gesù durante l’ultima cena, nel tragico momento dell’annuncio del traditore.

Ma quello che immediatamente colpisce del Quarto Vangelo, è che inizia con un inno, quindi con una un incedere poetico di altissima qualità e da un contenuto sostanziale enorme. Un inno al Cristo che contiene elementi trinitari.

Il grande teologo R. Brown scrisse che l’Inno al Logos di Giovanni si colloca al di là delle capacità espressive umane. Bultmann notò che è come un’ouverture, la quale contiene tutti i temi dell’opera.

La sua grandezza è evidente anche nelle traduzioni moderne, ma si esprime in tutto il suo splendore nell’originale greco.

Nei primi 3 versetti riporta per tre volte il verbo “essere” (en), in tre diverse accezioni, ovvero:

In principio ERA il Verbo, col significato che il Logos esisteva all’inizio di tutto. In greco il principio è l’arché, ovvero il Bereshit posto all’inizio della Genesi. Quell’arché che la filosofia pre-socratica cercava disperatamente.

e il Verbo ERA presso Dio. Qui il verbo essere assume il senso dello “stare con”.

E il verbo ERA Dio. Al termine di questo moto letterario ascendente, c’è l’utilizzo di “essere” come copula. Il Logos è Dio, testimonianza dell’unità delle tre persone in un unico Dio.

Riconosciamo in questi brevi versi i concetti fondamentali della Cristologia. Il Figlio esisteva nell’eternità già al momento della creazione. Il Figlio è con Dio, perché in realtà il Figlio è Dio, una cosa sola con il Padre (Chi vede me vede il Padre).

Già queste poche righe contengono un intero trattato.

Ci fanno capire il significato delle parole del Credo, nel quale riconosciamo che tutto è stato fatto attraverso il Figlio. Un Figlio generato nella carne e generato nel contesto di eternità in processione dal Padre, e dunque NON creato.

Ma Giovanni insiste, secondo i canoni espressivi ebraici, in quella che a noi occidentali potrebbe apparire una ripetizione, ma che in realtà è l’arricchimento inserito in una forma a “spirale”, nella quale si ritorna nel discorso per focalizzarlo: “senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste“.

Dopo questa fase in crescendo, segue una forma discendente, che specifica la venuta dall’alto della Vita e della Luce. La vita è ciò che ci consente di riconoscere la luce, che a sua volta è quella che vince le tenebre, e consente una corretta visione. Per questo Giovanni si aggancia alla Verità, perché la luce è quanto ci serve per scorgerla. La Verità è poi intimamente legata alla Grazia, in una simbiosi che ci viene chiaramente espressa in vari punti del Vangelo.

“In Lui era la vita ; e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.

A questo punto l’inno in forma poetica si interrompe per lasciare spazio alla prosa, con il riferimento alla venuta del Battista, il quale non è lui la Luce Vera, ma è colui che doveva dare la testimonianza.

Dobbiamo ricordare che gli ebrei attendevano il Messia, il quale secondo le scritture avrebbe dovuto essere annunciato dalla venuta di un grande profeta, come Elia. Il Battista è ritenuto il nuovo Elia.

E la testimonianza del Battista arriva, e viene riconfermata nel Prologo stesso in una forma ancora una volta “a spirale”.

Ma c’è di più. Giovanni accenna anche a quelli che “sono di Cristo”, che non per mezzo della discendenza israelitica, ma nel riconoscere la Luce. Non solo il Popolo Eletto ha la Salvezza. Nel passo che indica questi concetti scorgiamo anche la trasformazione del Sacerdozio, che per gli ebrei è riservato ai discendenti della tribù di Levi. Compiendo il passo scritturale di un sacerdozio alla maniera di Melkisedec”, Gesù lo trasformerà in chiamata, con gli Apostoli: “… non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

In questo sacerdozio sono compresi tutti coloro che sono di Cristo, nell’accezione di sacerdozio battesimale.

Ed è quindi nella “pienezza dei tempi” che il Verbo si incarna e fa sì che noi possiamo contemplare la sua gloria piena di Grazia e Verità: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria […] pieno di grazia e verità”.

Nella seconda testimonianza, poi, Giovanni Battista si rivela: non è lui la Luce, ma: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore“.

Il deserto (מִדבָּר in ebraico, “midbar”, è quello del cammino, lo stesso deserto in cui vagò 40 anni Israele verso la Terra Promessa, e in cui il popolo di Dio attraverso molte peripezie, tradì e si riconvertì.

La terza persona della Trinità è presente, ed è sempre stata presente nell’eternità, e la riconosciamo nel Battesimo dell’acqua, e nel Battesimo in “Spirito Santo e fuoco.

Cos’è il Purgatorio?

Cos'è il Purgatorio?

Non è un luogo, ma una vera e grande opportunità

Teologi e filosofi, ma da qualche decennio anche gli scienziati (il premio Nobel Roger Penrose e altri), cercano di comprendere cosa sia il Purgatorio, cosa sia l’anima, e anche a cosa serva un elemento deperibile come il nostro corpo.

La risposta che si è fino a questo momento raggiunta e che trova tutti concordi è che non sia un luogo.

La nostra anima, quello che ci caratterizza davvero in un modo che almeno teoricamente possa dare l’unica risposta, è qualcosa che contiene ciò che realmente siamo.

Noi siamo ciò che oltre alla creazione abbiamo aggiunto al nostro IO attraverso le esperienze del corpo e di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi. E se fosse vero ciò che gli studiosi ipotizzano, l’anima è ciò che resta nell’universo dopo la nostra morte corporale.

L’uomo ha cercato disperatamente in tutta la sua storia, di cercare le motivazioni dell’esistenza. Ha ipotizzato lo Sheol, o Regno delle ombre, e poi è arrivato a supporre l’esistenza del Purgatorio, del Paradiso e dell’Inferno.

Ma se davvero per noi ci sarà un futuro, deve essere considerato, almeno sulle prime, in assenza di un corpo. Esso si dissolve nella natura.

Quindi il Purgatorio va pensato vissuto senza il corpo. E quindi con un’ente che sia solo spirituale. L’uomo, non sarà quindi sminuito, ma migliorato, in quanto in grado di pensare esclusivamente a uno stato in cui si possa essere concentrati solo nell’arricchimento dell’anima.

Tutto ciò che avremo accumulato grazie ai sensi, si concentrerà unicamente su chi siamo realmente NOI.

Il Purgatorio, se non c’è il corpo, non può dunque essere qualcosa di fisico, e men che mai un luogo. È dunque un proseguimento del cammino verso ciò che dall’eternità è sempre stato il destino ultimo dell’uomo.

Lo “status” del Purgatorio è quindi opportunità di arricchimento e di comprensione, senza i legami dati dalle preoccupazioni del corpo.

L’uomo nella sua limitatezza compirà un ulteriore step formativo. Il corpo in-forma l’anima, gli dà forma. Ma lo arricchisce anche con le informazioni (senza trattino divisorio).

La nostra anima, colma di queste informazioni, avrà l’opportunità di arricchirsi di quei valori spirituali che il corpo non è stato in grado di fornirgli nella loro completezza.

Tutto ciò fa parte di un unico cammino. Ed è il motivo per cui Joseph Ratzinger rifiutava la morte come fine del cammino, ma in un tutt’uno con la vita oltre la morte. Nei suoi scritti Papa Ratzinger ha sempre proposto questa visione d’insieme (anche nella sua opera “Escatologia. Morte e vita eterna”).

Il credente quindi, deve essere consapevole che il Purgatorio non è un luogo. E pur avendo restituito il nostro corpo in forma gloriosa, non lo è neppure il Paradiso. Tutto è relativo alla relazione. Una relazione con Dio, che appagherà ogni bisogno.

Sono importanti quindi i suffragi per le anime del Purgatorio, perché esse sono quelle che ci precedono. Proseguono il loro cammino, come noi stiamo compiendo il nostro, in attesa del prossimo passo.

Liberiamoci dunque delle suggestioni dell’escatologia dantesca e crediamo in Gesù unico mediatore. “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di Vita!”

Apocalisse di Giovanni, la rivelazione

Apocalisse di Giovanni, la rivelazione

Il libro letterariamente più suggestivo del Nuovo Testamento

Apocalisse di San Giovanni Apostolo è forse il libro che desta maggior suggestione nel panorama neo-testamentario, e probabilmente anche nell’intera Bibbia.

A contribuire a questo effetto è certamente il genere letterario che gli appartiene, ma anche il suo contenuto escatologico.

Di fronte alla fine dei tempi e al giudizio finale l’uomo ha sempre assunto un atteggiamento di sospetto misto a paura. Occorre riconoscere che alcuni atteggiamenti del passato possono aver contribuito ad alimentare questi sentimenti, ma se si indaga sul contenuto del libro, ci si accorge che ad essere sbagliato è l’approccio del lettore.

Cosa realmente significa “apocalisse”

Il titolo stesso dà adito a fraintendimenti. Il termine “apocalisse” è oggi comunemente interpretato come sinonimo di “disgrazia” o addirittura di “armageddon”. Quest’ultimo è un errore madornale e ancora peggiore del primo.

“Apocalisse” deriva dal sostantivo greco ἀποκάλυψις (apocalypsis) e significa “rivelazione”, “svelamento”. Indica quindi il “togliere il velo” da argomenti o vicende. E ciò a cui Apocalisse di Giovanni si riferisce è la Parousia, ovvero il ritorno del Cristo.

Solo questo basterebbe a farci capire che non può essere un libro di tragedia.

Il genere letterario che definisce il libro di Giovanni è quello che stabilisce e simboleggia la categoria propria “apocalittica”, con grandi metafore, una simbologia forte e richiami evidenti a entrambi i testamenti. Riferiti all’Antico Testamento troviamo infatti 40 versetti.

Vengono tratte dall’Apocalisse immagini altamente simboliche, come la Santa Vergine che calpesta il serpente, o la descrizione della Gerusalemme Celeste.

Le scene “forti” sono anche dovute al carattere dell’autore, non dimentichiamo che Giovanni è l’Apostolo dell’Amore ma anche il “Figlio del Tuono”. È definito figlio di tre madri, perché generato dalla moglie di Zebedeo, affidato a Maria, ma anche, appunto “figlio del tuono” che in ebraico è di genere femminile (“la tuona”).

Come leggere “Apocalisse”

Seppure non certamente attribuibile a Giovanni, a causa del diffuso (e allora lecito) fenomeno della falsa epigrafia, Apocalisse è certamente uno scritto giovanneo, ovvero di ambito dei discepoli o della scuola dell’Apostolo. È comunque un libro ispirato e per questo degno dell’inserimento nel canone.

Venne dunque scritto alla fine del I secolo d.C. e risente dell’esperienza della Chiesa che si appresta a uscire dal periodo apostolico, chiudendo la “Rivelazione”.

La lettura del libro va dunque seguita con animo di speranza, e non in atteggiamento di timore. Ciò che l’Apocalisse descrive si è infatti già in parte realizzato, e quanto deve ancora accadere sarà caratterizzato dalla bontà e dalla misericordia del Cristo.

Risulta evidente il messaggio che Dio vuole la salvezza di tutti e che al giudizio parteciperemo anche noi, con una visione chiara del nostro essere e essere stati. La sentenza sarà anche dipendente dal nostro libero arbitrio.

Apocalisse dunque è un titolo che resta fedele all’etimologia originaria del termine, e non all’accezione che comunemente gli viene attribuita.

Il Sinodo di Pasqua

Il Sinodo di Pasqua

Papa Francesco insiste sulla sinodalità. Quanti lo ascoltano?

Il vescovo di Roma invita i suoi vescovi e i pastori delle chiese: “Fratelli, è ora di fare sinodo. Riuniamoci insieme, venite!”
Ma i vescovi e i pastori delle chiese dicono: “Francesco, come possiamo? Le comunità sono frantumate dalla pandemia, i nostri preti sono stanchi, le chiese sempre più vuote, la gente è spaventata da questa guerra che già è iniziata… come possiamo fare sinodo?”

Il vescovo di Roma si rivolge a tutti i fedeli delle chiese e dice: “Fratelli e sorelle è ora di fare sinodo. Venite, dobbiamo avere a cuoreo le nostre comunità, la nostra chiesa, venite!”
Ma il popolo di Dio, sempre pronto alla mormorazione, dice: “Francesco, sono altre le questioni che rubano il nostro tempo: il lavoro, le nostre famiglie, le paure – tante! –, il sinodo, il dialogo, l’ascolto… sono cose che si fanno ingrassare tempi normali, in tempi di pace, ma adesso… come si fa?”

Il vescovo di Roma supplica i grandi del mondo e dice: “Amici, è ora di fare sinodo. È ora di dialogare, desidero ascoltarvi, venite, incontriamoci, parliamo, sogniamo esperienze di pace e di riconciliazione, desideriamo insieme un mondo nuovo!”
Ma i grandi del mondo rispondono tutti indaffarati: “Francesco, abbi pazienza ma siamo impegnati a fare la nostra guerra, è molto urgente! Fai pure le tue cose da papa ma noi siamo impegnati in cose più serie, siamo indaffarati a disegnare strategie, a sognare nuovi squilibri, il futuro non verrà, siamo impegnati a far tornare il passato!”

Sinodo è una parola greca che significa “camminare insieme”. Ci sono stati tempi antichi in cui chiesa e sinodo erano sinonimi.
Camminare insieme allora non è un’esigenza in più, una decorazione, una moda ma è l’unica condizione per essere chiesa di Gesù, chiesa del Risorto. E di esserlo in questo tempo!

Maria di Magdala, le donne, Pietro, il discepolo che Gesù amava, Cleopa e l’altro discepolo sono i testimoni della Pasqua. Il tratto che li unisce tutti è “andare”: andare alla tomba di Gesù al mattino presto, andare di corsa alla tomba, essere in cammino per un villaggio… ma questo camminare – che poi diventa correre – muove i suoi primi passi dall’evidenza perduta della morte, dalla persuasione triste che Gesù non appartenga più al presente: camminano per commemorare, per ricordare, per onorare, si cammina in direzione contraria a Gerusalemme raccontandosi il rammarico, il dolore e la delusione per come le cose sono finite …

In questo “cammino” manca Gesù, o meglio c’è, ma è morto!
L’annuncio della Pasqua viene a cambiare la direzione e il senso del cammino, il ritmo dei passi: Colui che era morto ora non è morto, Colui che apparteneva al passato ora non è più passato, Colui che era nel luogo inaccessibile della morte ora si fa realmente compagno di viaggio… cammina con Cleopa e il suo amico, cammina dunque con noi.

Il Risorto non vive se non per il Padre e per noi, non è impegnato a fare altro se non a condividere con noi la sua vita gloriosa e, attraverso il Battesimo, a noi – suoi discepoli – dona il suo Spirito.
Il Risorto è per noi, accanto a noi e in noi!

La chiesa è camminare insieme, perché il Signore cammina con noi attraverso i tempi, attraverso le prove, attraverso le fatiche, attraverso le malattie e le guerre. Gesù non è da un’altra parte! Gesù non lo incontro quando sarò sano, quando sarò nella pace, quando tutto sarà al suo posto… Il Signore fa Pasqua – e dunque passa “attraverso” – si fa compagno di viaggio nel tempo della prova, nella stagione della malattia, negli scoraggiamenti della stanchezza, nel rischio folle della guerra… è nostro compagno di viaggio oggi, Pasqua, perché ha attraversato e attraversa tutti i venerdì santi del mondo e di ogni uomo.

Fare sinodo significa mettere al centro il Signore risorto. E ripartire insieme da Lui.
E proprio perché il mondo cammina su vie storte, e proprio perché siamo colmi di problemi e incertezze la chiesa ha bisogno di essere sinodo, cammino insieme: non per tornare indietro a un tempo di cristianità (che non è mai esistito) non per tornare a posizioni di forza (Dio ce ne scampi!), ma per annunciare un’energia nuova, un germoglio di vita… per dire che questo è il tempo in cui accade una salvezza radicale ed eterna, una salvezza che sconfigge il peccato e dissolve la morte e le sue ombre.

La Pasqua di Gesù sta a mostrarci che non vi è mai una situazione persa, che la fiammella per quanto debole non sarà mai spenta e la canna per quanto incrinata non verrà mai spezzata, anzi! Per tutta la Quaresima ci siamo sentiti ripetere: “non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva!”.

Il cammino dei discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme sono i passi di un’umanità persa, smarrita, delusa, che si allontana dalla Pasqua del suo Signore, che cerca percorsi tutti suoi, e che va incontro alla morte.
Ma il cammino dei discepoli di Emmaus dopo l’incontro con il misterioso viandante che ritrova la strada per Gerusalemme ha il passo gioioso dell’annuncio, della gioia, del riscatto, della liberazione.

Se cammino da solo, senza il Signore e senza i fratelli, se non conosco il “noi” della chiesa e della condivisione allora mi allontano da Gerusalemme, mi separo dalla Pasqua di Gesù, dimentico la forza che mi abita.

Se invece camminiamo insieme con il passo spedito della fraternità con la gioia incontrollabile della speranza allora cammino verso Gerusalemme, partecipo della Pasqua di Gesù e vivrò da risorto.

Quella sera del primo giorno della settimana, quando le ombre del tramonto già si allungavano e la notte era pronta a ingoiare Cleopa e il suo amico, non hanno avuto timore di dichiarare la loro paura e di invocare, inconsapevoli, la compagnia del maestro sconosciuto: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”.
Egli entrò per rimanere con loro.

Le ombre sembrano scendere sul mondo, la paura sembra avvolgerci ma noi siamo così certi che il Signore cammina con noi, vivo e vittorioso, e anche noi ripetiamo le parole dei discepoli: “Resta con noi, Signore… resta con noi…”
Scopriremo, nella sera delle perdute speranze, che Lui è già con noi, Risorto…

Papa Francesco, successore di Pietro, vescovo di Roma, insiste: “Venite, facciamo sinodo, siamo chiesa, ascoltiamo la voce del Risorto!”

E ci ricorda: “Lui è presente, viene di nuovo, combatte per fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondop nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano!” (EG 278).

È tempo di camminare insieme, è il tempo del Risorto!
Il suo amore è più forte della morte!

Giovedì Santo 2022, Altare della Reposizione

Giovedì Santo 2022, Altare della Reposizione

Il significato del “sepolcro” parrocchiale nel triduo di Pasqua 2022

Come ogni anno, anche in questo 2022 la nostra comunità parrocchiale ha voluto dare all’Altare della Reposizione del Santissimo Sacramento, un’interpretazione teologica.

La Croce processionale in legno della Confraternita di Santa Caterina Vergine e Martire è stata adagiata a terra e ad essa sono stati aggiunti alcuni simboli.

Possiamo vedere la corona di spine, segno di dileggio da parte dei carnefici e di sofferenza fisica per Nostro Signore; un Mandylion (termine arabo da cui deriva il dialettale “Mandju”) che indica la sepoltura di Gesù secondo le usanze ebraiche dell’epoca, ma anche il tramandarsi del suo messaggio attraverso i secoli. Poco distanti anche due segni tangibili della sentenza capitale inflitta al Figlio di Dio: un grosso martello con una manciata di chiodi antichi.

Non manca la borsa con i 30 denari, prezzo del tradimento.

Il tutto si focalizza sul PANE e sul VINO in primo piano, ma anche sulla forma del ramo, colto da Sandrino Pelassa e cercato nel bosco di Mendatica per significare con la sua forma l’ascesa dalla terra al cielo.

L’Altare è stato predisposto dalla comunità del paese.