Gesù, figlio di David

Gesù, figlio di David

Perché Gesù è chiamato così? Le genealogie di Matteo e Luca

Tra i tanti appellativi con cui viene indicato Gesù c’è anche quello di “Figlio di David”.

La discendenza da questo re è importantissima per gli ebrei in quanto definirebbe il Messia, e a maggior ragione lo è per noi cristiani.

David, successore del re Is-Baàl e predecessore di Salomone, nacque a Betlemme nel 1040 a.C. circa, e rappresenta una chiave fondamentale in quanto da lui deve discendere l’atteso Messia. Questo legame è evidenziato dalla profezia che troviamo in Isaia 11, che anticipa che dalle radici di Iesse nascerà un virgulto su cui si poserà lo Spirito del Signore.

Nel Vangelo di Matteo si traccia una genealogia teologica di Gesù, che si compone di 3 tappe, ciascuna delle quali conta 14 generazioni. È evidente la sottolineatura dell’evangelista in relazione al significato che i numeri 3 e 7 (quest’ultimo sottomultiplo di 14) rivestono nella mentalità ebraica. Il 3 richiama la perfezione, e per noi cristiani anche la Santa Trinità, mentre il 7 è indice di completezza.

Perché allora Matteo fa riferimento al numero 14? Occorre ricordare anche il rilievo che per gli ebrei assume la simbologia numerica. La numerazione ebraica viene espressa con le prime lettere dell’alfabeto. Il nome David (דָּוִד) in ebraico, lingua consonantica, è composto dalle lettere daleth (d), vau (v) e ancora daleth, le quali esprimono anche i numeri 4, 6 e 4, la cui somma dà 14. Ripetendo per tre volte il numero quattordici l’evangelista afferma in modo imperativo un legame indiscutibile tra i due nati a Betlemme. Matteo dunque cita 42 generazioni tra David e Gesù. Di fatto abbiamo 14 generazioni tra Abramo e Davide, 14 generazioni tra Davide e Ieconia (Yehoaqim) figlio di Giosia, e infine 14 generazioni, dopo l’esilio, tra Ieconia e Gesù.

Questo ricorso alla simbologia che ricorre col numero 14 si trova anche nella genealogia di Luca, il quale si sforza di dare alla sequenza delle generazioni una forza storica oltre che teologica. In questo caso le generazioni citate sono 77, ovvero 7 volte 11. Le generazioni nominate da Luca infatti non si fermano a David ma arrivano fino ad Adamo e a Dio.

Da notare che Luca specifica col suo elenco che la discendenza di Gesù da David non passa attraverso i primogeniti, in quanto il Figlio di Dio avrebbe come progenitore Natham, ovvero uno dei figli di David, ma non da Salomone. Questa distinzione è importante perché risulta che Gesù non discende da re di Israele che sacrificarono agli idoli.

I Vangeli danno dunque testimonianza della legittimità dei titoli di re, sacerdote e profeta che sono i requisiti del vero Messia.

Un altro aspetto teologico interessante che rileviamo nella genealogia elencata da Matteo, è che in soli quattro casi si cita la moglie con cui un discendente ha generato il proprio figlio in linea dinastica. Tamar, Racab, Rut e Betsabea (quest’ultima citata come moglie di Salomone ed ex moglie di Urìa, ma non menzionata) erano donne straniere. È una evidente indicazione al fatto che la salvezza portata da Gesù è per tutti i popoli.

L’Altare della Reposizione

L'Altare della Reposizione

Perché viene allestito, le tradizioni e il significato quello che comunemente si chiama “il Sepolcro”

L’Altare della Reposizione, comunemente chiamato dai fedeli “sepolcro” è il luogo dove viene conservata l’Eucarestia dopo la Santa Messa vespertina del giovedì, chiamata “in Coena Domini” in ricordo dell'”ultima cena” consumata da Gesù insieme agli Apostoli, prima della Passione.

Secondo la Liturgia l’Altare della Reposizione non deve coincidere con l’Altare Maggiore e viene addobbato in modo solenne per permettere ai fedeli l’Adorazione.

Il “Sepolcro” viene disallestito al pomeriggio del Venerdì Santo, in quanto si riprende la distribuzione l’Eucarestia, che dalla sera del giovedì è sospesa.

Attorno ai “Sepolcri” sono sorte numerose pie tradizioni, come ad esempio l’uso di visitare 7 Altari della Riposizione in 7 chiese diverse. Il numero 7, oltre a richiamare il concetto di “infinito” per la tradizione ebraica, è in questo caso utilizzato in ricordo dei “7 Dolori della Santa Vergine”.

Nella tradizione ligure sono vivi i “cartelami”, ovvero cartoni che raffigurano pie scene e personaggi biblici. In Italia Centro-meridionale invece si è soliti riempire alcune ciotole (“lavureddi”) di semi di grano o legumi, che vengono poste al buio e innaffiati in modo che al Giovedì Santo presentino filamenti di tutti i colori.

Per i fedeli l’Altare della Reposizione è un modo che aiuta l’Adorazione del Cristo Risorto e la meditazione. Spontaneamente, in molte occasioni, i visitatori lasciano offerte sul luogo dell’allestimento e accendono candele per ottenere le Grazie.

Sicuramente il “Sepolcro” avvicina il cuore dei fedeli a quello di Gesù, col ricordo della sua Passione e del Sacrificio di Salvezza.

Nella foto è illustrato l’Altare della Reposizione allestito dai fedeli mendaighini presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso a Mendatica.

Al centro è posta una croce creata con spighe di grano, che simboleggia il Sacrificio di Nostro Signore, ma anche il suo farsi cibo di Vita Eterna per noi.

Sulla sinistra si nota una corona di spine. La Passione di Gesù è stata reale, e Lui l’ha voluta vivere interamente come uomo. Non a caso però, la corona è collocata sopra un telo bianco che rappresenta il sudario.

Nella tradizione ebraica del tempo, il corpo di un defunto veniva avvolto in un lungo telo che ne ricopriva l’intero corpo sia nella parte anteriore che posteriore, come mostra chiaramente la Sacra Sindone. La corona di spine, segno di sofferenza terrena, viene a contatto con la divinità di Gesù-Dio: il sudario afflosciato è il segno della Resurrezione. Con la Resurrezione, Gesù Uomo-Dio sale alla destra del Padre nel mistero della Trinità Unico Dio. La sua ascesa è rappresentata dalla forma della radice d’albero che tende verso il cielo.

Alla base della Croce c’è un altro cestino che questa volta contiene una sacchetta aperta dalla quale fuoriescono i 30 denari del triste prezzo a cui Giuda ha venduto il Salvatore del mondo.

Accanto alla Croce, in un cestino, troviamo il pane, il grano e l’uva, che ricordano l’Eucarestia. È proprio col grano macinato e con l’uva schiacciata, ovvero due alimenti triturati e sacrificati, che si ottengono il Pane e il Vino destinati a diventare il Corpo di Cristo.

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Chiarezza su quattro termini che spesso vengono confusi

Nel discorrere comune, spesso si fa confusione fra tre termini che in realtà indicano cose diverse. Vediamo dunque di fare un minimo di chiarezza tra le parole sacerdote, frate e monaco.

Il Sacerdote

È un chierico che viene consacrato al secondo grado della Ordinazione Sacerdotale, che prevede i livelli di Diacono, Presbitero e Vescovo. Sono sacerdoti dunque tutti coloro che ricevono questo Sacramento, e sono ordinati alle celebrazioni. Possono celebrare l’Eucarestia, confessare e svolgere tutte le mansioni che sono loro affidate dal Vescovo, unico grado che possiede la pienezza del sacerdozio quale successore degli Apostoli.

Possono essere ordinati sacerdoti gli uomini in stato di celibato o vedovanza, dopo aver ottenuto l’approvazione del Vescovo ed avere superato un periodo adeguato di studi.

Ci si rivolge al Sacerdote con l’appellativo di Don che precede il suo nome.

Il Monaco

Si tratta di un termine che risale al basso medioevo e deriva dalla contrazione nel latino monachus dei termini monos (solo) e achos (dolore).

Appartiene a una comunità monastica e vive in un convento, dedito alla preghiera e alla penitenza. È consacrato e formula i voti di castità, povertà e obbedienza, ma può essere o anche non essere sacerdote.

La figura del monaco è profondamente cambiata dalle origini medioevali, in cui si identificava con l’anacoreta, che viveva solo e distante dalle comunità.

Oggi i monaci vivono infatti in conventi che seguono una regola propria della loro istituzione.

In senso stretto e in via generale, il Monaco che è Sacerdote, celebra all’interno della sua comunità.

Al Monaco ci si rivolge antecedendo al suo nome l’appellativo di Frà, e spesso di Padre

Il Frate

Il termine deriva dal provenzale fraire (fratello) e ha le sue origini nel medioevo in conseguenza alla profonda riforma della vita religiosa provocata da San Benedetto e da San Francesco d’Assisi.

Anche i frati sono consacrati, fanno voto di povertà, obbedienza e castità, e vivono in convento. Rispetto ai monaci hanno però la caratteristica di svolgere una vita attiva nella solidarietà e nell’apostolato.

Il frate può essere sacerdote, oppure rimanere allo stato di semplice consacrato che comunque vive le regole interne della sua comunità.

Viene chiamato, come il Monaco, antecedendo al nome l’appellativo di Frà o spesso di Padre.

I frati possono essere anche, con il permesso del proprio superiore, essere chiamati dal Vescovo a amministrare una parrocchia.

In virtù di un decreto di Papa Francesco, del febbraio 2022, anche un frate non sacerdote potrà essere nominato Superiore Maggiore del proprio ordine.

Il Canonico Regolare

Quando un sacerdote viene delegato dal Vescovo a reggere una Parrocchia che è distinta dal termine di Canonica, assume il titolo di Canonico.

Solitamente le Parrocchie Canoniche sono a capo di Collegiate. Il titolo viene mantenuto solo in virtù e per la durata dell’incarico.

Alcuni sacerdoti, però, decidono di vivere seguendo una Regola assunta da qualche comunità autorizzata. In questo caso si ha il Canonico Regolare, ovvero il Canonico che segue una determinata regola.

È una figura poco nota, che ha vissuto momenti di diffusione altalenanti, e che fu percorsa dalla Comunità di San Vittore nel medioevo.

I Canonici Regolari sono Sacerdoti e formalmente vestono in bianco.

Abbiamo la beatitudine tra le nostre mani

Abbiamo la beatitudine tra le nostre mani

Ascoltare la Parola di Dio ci avvicina al “Sì” di Maria

«In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”.
Ma egli disse: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”»
. (Dalla Liturgia)

Nel brano precedente Gesù aveva appena liberato un ossesso da un demonio.

Una donna del popolo esprime il proprio entusiasmo per Gesù con espressioni tutte femminili. È come se dicesse: «Magari fossi io tua madre!». Gesù non la rimprovera, ma approfitta di questa uscita per portare il suo messaggio: è davvero beato chi ascolta e mette in pratica la parola di Dio.

Ancor prima del legame fisico, anche quello più stretto come quello tra genitori e figli, c’è il legame dell’amore di Dio, che si esprime nell’ascoltare e nel mettere in pratica la sua parola. E attenzione: questa frase di Gesù non intende affatto ridimensionare la figura della sua santissima Madre. Maria infatti, prima ancora di aver concepito Dio nel suo grembo, lo ha accolto nel suo cuore con la fede.

E anzi è proprio perché ha accolto con fede operosa la parola di Dio nel suo cuore, che ha potuto accogliere nel suo grembo il Figlio di Dio.

La pedagogia di Cristo come luce viva

La pedagogia di Cristo come luce viva

Il disegno divino ci viene trasmesso affinché possiamo scegliere con libertà

La Rivelazione si è compiuta con l’avvento di Gesù, unico mediatore e sola via di salvezza.

Attraverso i secoli Dio si è sempre adeguato alla comprensione specifica dell’uomo, il quale ha maturato gli strumenti di comprensione in un cammino di apprendimento calibrato in armonia con le sue sue potenzialità.

Non sempre il messaggio è stato interpretato correttamente, ma ha sempre seguito la logica del pensiero umano predominante.

Siamo passati attraverso periodi che ci hanno indotto a comportamenti che oggi riteniamo inadeguati, ma che hanno sempre rispecchiato la capacità dell’uomo di uniformarsi al messaggio che veniva via via percepito.

È stato e sarà un percorso pedagogico che è inseparabile dalla crescita dell’uomo. Il peccato originale ha segnato il punto più basso dell’incomprensione, e ha causato l’interazione di concetti, di modi di pensare e di impedimenti anche psicologici che hanno allontanato l’uomo da quanto Dio ha pensato per l’umanità.

Alcuni di questi sono al momento almeno apparentemente insuperabili, quali la diffidenza verso il divino e la convinzione-tentazione che induce a ritenerci impermeabili dalla volontà creatrice.

Dio, immerso nella sua visione eterna ha dunque previsto la necessità di una proposta da sottoporre alla nostra scelta. E tutto ciò nel rispetto del vincolo che Egli ha voluto porre come dipendente dalla nostra libertà.

Se ci pensiamo bene, anche il volerci creare liberi è segno della Sua immensa bontà, che ci consente, se vogliamo, addirittura di rifiutarlo. Per chi accetta la proposta di Dio, il percorso non può dunque essere che un cammino di apprendimento.

Ne deriva che uniformarsi alla Parola, cercando di comprenderla senza diffidenza o preconcetti, risulta essere fondamentale. E questo perché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, hanno previsto le nostre difficoltà, e attraverso un’evoluzione pedagogica ci presentano gli strumenti adatti.

In questo ambito si collocano anche le parole di San Giovanni Paolo II, quando all’esordio del suo pontificato ci esortò a spalancare le porte a Cristo.

Trova spazio dunque anche l’umiltà, che fu caratteristica di tutti i santi. Metterci in discussione e non chiudere le porte al messaggio divino, risulta dunque fondamentale.

In fondo Dio, chiedendoci la Fede, non pretende che noi crediamo per certezza, ma solo per scelta. Una scelta che si poggia sulla credibilità del messaggio. Ci basta dunque ritenere l’insegnamento di Cristo come credibile.

Gesù infatti non aveva Fede, ma certezza, perché è Dio. Ma a noi bastano quelle virtù che provengono da Dio stesso, e che si chiamano perciò teologali: Fede, Speranza e Carità.

Gesù disse che per entrare nel Regno dei Cieli occorre essere come bambini. E noi sappiamo che la forza dei bambini è quella di ritenere credibili il papà e la mamma. Al imbo per essere felice basta la figura del padre e della madre, perché sanno che loro risolveranno ogni problema.

Dunque il nostro rapporto con Dio deve essere quello del bimbo con i genitori, ed è per questo che come bambini potremo entrare nella vita eterna. Ricordiamo: “Lasciate che i pargoli vengano a me”.

Joseph Ratzinger confessò candidamente che per lui il Paradiso è essere come bambini, che non hanno alcun tipo di preoccupazione, perché sono un tutt’uno con il padre e la madre. In loro confidano e in loro si abbandonano.

Il messaggio che il peccato di Adamo e Eva ci rende è quello dello strappo di un uomo e una donna diffidenti verso Dio. Hanno pensato che Dio volesse impedirci di essere sapienti e indipendenti. Ma il corso della storia ci ha insegnato il contrario. Gesù istituì l’Eucarestia per farci capire che Dio vuole che noi siamo in Lui, partecipando con noi in ogni molecola di quel Pane di Vita che è il suo corpo. E per questo fa che il pane consacrato nella memoria del sacrificio di Gesù diventi carne: quella carne vera e viva che fu crocifissa e che risorse.

In questo dunque possiamo vedere nell’Eucarestia un anticipo del Paradiso.

La vocazione del diacono Francesco d’Assisi

La vocazione del diacono Francesco d'Assisi

Il Patrono d’Italia e fondatore dell’Ordine che prese il suo nome, divenne la più umile delle creature

Giovanni di Pietro di Bernardone, meglio conosciuto come San Francesco d’Assisi è riconosciuto come uno dei più grandi, se non addirittura il più grande, tra i santi della cristianità. La sua vita è divenuta un modello e la sua umiltà un esempio.

Nel breve lasso di tempo di circa 45 anni, visse addirittura due vite: una da ricco erede di una famiglia borghese e importante, e un’altra nella più esemplare e rigida umiltà.

Giovanni nacque ad Assisi nel 1181 da Pietro di Bernardone, ricco mercante di stoffe, il quale aveva grandi ambizioni, e aveva portato la sua famiglia ad essere una tra le notabili di Assisi. La madre era madonna Giovanna Pica, una nobile che discendeva da una famiglia della Provenza.

Attorno alla nascita di Giovanni si verificarono alcuni eventi strani. Poco prima della sua nascita un mendicante presentatosi alla porta di casa di Giovanna Pica le preannunciò: « Fra queste mura spunterà presto un sole… ». Al momento del parto, mentre madonna Giovanna si contorceva per le doglie, un altro pellegrino si presentò alla porta e sentenziò che tutto sarebbe andato per il meglio solo se il parto si fosse concluso in una stalla, cosa che avvenne.

Qualche giorno dopo un terzo viandante si aggirò per le strade di Assisi gridando: “Pace e bene!”, ovvero quello che divenne il motto di San Francesco.

Il ragazzo trascorse un’infanzia molto serena, attorniato dai favori della famiglia e della gente, avviato alla professione del padre. Spesso Giovanni si accompagnava con i suoi coetanei, abbandonandosi ai piaceri disponibili a un rampollo di rango elevato.

Nel 1202 Giovanni partecipò alla guerra che vide di fronte Assisi a Perugia, e fu catturato dai nemici, trascorrendo un periodo in carcere. In quel frangente il futuro San Francesco vide stimolata la propria spiritualità. Iniziò a «ripensare» la propria vita, meditando sulle alterne fortune umane. Fu probabilmente in quel periodo che rispose alla domande su quando avrebbe preso moglie con una frase emblematica: «Sì, sposerò la donna più bella e più amabile del mondo », riferendosi a madonna Povertà.

Un giorno Giovanni si trovò in una chiesetta di campagna in cui era esposto il Crocifisso di San Damiano, e fu colpito da un brano del Vangelo che recita: «Non tenere né oro né argento né altra moneta; non borse, non sacchi, non due vesti, non scarpe, non bastone». Il Crocifisso gli parlò con bontà: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va’ dunque e restauramela».

Giovanni pensò subito che il Cristo si riferisse a quella specifica chiesetta, mentre invece intendeva la Chiesa Universale.

Tutto quanto avvenne successivamente è cosa nota a tutti. Il santo si spogliò di ogni bene paterno, compresi i vestiti, fondò l’Ordine Francescano (ma per umiltà restò diacono (diakonòs = servo). Compì innumerevoli imprese mirabili e miracolose. Fu premiato con la sofferenza delle stigmate. Scrisse opere meravigliose, quali ad esempio il «Laudato sii, o mi Signore», e il «Cantico delle creature». Di dolcezza eccelsa e di profondo contenuto fu la preghiera per Fra’ Leone.

La morte di San Francesco è altrettanto suggestiva. Chiese ai suoi confratelli di appoggiare il suo corpo su una pietra e di spogliarlo completamente, per andare nudo davanti al Signore.

Oggi San Francesco d’Assisi è venerato da praticamente il mondo intero e la sua umiltà ha convinto tutti i viventi. È inoltre simbolo dell’amore per il creato e della custodia della natura. Morì Il 3 ottobre 1226 ad Assisi, e il 4 ottobre si commemora il suo nome. È Patrono d’Italia.

Domani solenne ingresso di Don Enrico a San Giovanni di Pieve

Domani solenne ingresso di Don Enrico a San Giovanni di Pieve

Il nuovo Canonico resterà ancora Parroco di Cosio, Mendatica, Montegrosso e Rezzo

Domani, domenica 25 settembre, Don Enrico Giovannini farà il suo solenne ingresso a Pieve di Teco, quale nuovo Canonico della Collegiata di San Giovanni Battista.

Dopo essere stato nominato Vicario della Valle Arroscia, Don Enrico assumerà questo nuovo incarico, a testimonianza della stima che S.E. Mons. Vescovo Guglielmo Borghetti nutre per lui.

La cerimonia di ingresso è fissata per le ore 17.00 alla presenza di Mons. Borghetti e del Cancelliere Diocesano Don Pablo Aloy.

Il nuovo Canonico manterrà ancora, almeno per qualche mese, la titolarità delle Parrocchie di Cosio, Mendatica, Montegrosso Pian Latte e Rezzo.

La nostra Parrocchia vuole esprimere al suo Parroco i migliori auguri per la nuova missione pastorale, e si unisce a lui nella preghiera.

Un pensiero grato va rivolto a Don Sandro De Canis, Canonico uscente, che non ha mai fatto mancare il suo apporto pastorale alle comunità dell’intera valle.

Inno al Logos, un canto cristologico

Inno al Logos, un canto cristologico

Nel prologo al suo Vangelo Giovanni innalza un inno sublime alla Trinità

Il Vangelo di Giovanni si differenzia dai tre sinottici, per diversi motivi. In primis l’aspetto cronologico è subordinato alla sostanza del messaggio, ma anche perché si tratta del frutto di un approfondimento durato forse 70 anni.

Giovanni, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo, era uno dei due “figli del tuono”. È detto anche “Epistekios” (ovvero colui che appoggiò il capo sul cuore di Gesù durante l’ultima cena, nel tragico momento dell’annuncio del traditore.

Ma quello che immediatamente colpisce del Quarto Vangelo, è che inizia con un inno, quindi con una un incedere poetico di altissima qualità e da un contenuto sostanziale enorme. Un inno al Cristo che contiene elementi trinitari.

Il grande teologo R. Brown scrisse che l’Inno al Logos di Giovanni si colloca al di là delle capacità espressive umane. Bultmann notò che è come un’ouverture, la quale contiene tutti i temi dell’opera.

La sua grandezza è evidente anche nelle traduzioni moderne, ma si esprime in tutto il suo splendore nell’originale greco.

Nei primi 3 versetti riporta per tre volte il verbo “essere” (en), in tre diverse accezioni, ovvero:

In principio ERA il Verbo, col significato che il Logos esisteva all’inizio di tutto. In greco il principio è l’arché, ovvero il Bereshit posto all’inizio della Genesi. Quell’arché che la filosofia pre-socratica cercava disperatamente.

e il Verbo ERA presso Dio. Qui il verbo essere assume il senso dello “stare con”.

E il verbo ERA Dio. Al termine di questo moto letterario ascendente, c’è l’utilizzo di “essere” come copula. Il Logos è Dio, testimonianza dell’unità delle tre persone in un unico Dio.

Riconosciamo in questi brevi versi i concetti fondamentali della Cristologia. Il Figlio esisteva nell’eternità già al momento della creazione. Il Figlio è con Dio, perché in realtà il Figlio è Dio, una cosa sola con il Padre (Chi vede me vede il Padre).

Già queste poche righe contengono un intero trattato.

Ci fanno capire il significato delle parole del Credo, nel quale riconosciamo che tutto è stato fatto attraverso il Figlio. Un Figlio generato nella carne e generato nel contesto di eternità in processione dal Padre, e dunque NON creato.

Ma Giovanni insiste, secondo i canoni espressivi ebraici, in quella che a noi occidentali potrebbe apparire una ripetizione, ma che in realtà è l’arricchimento inserito in una forma a “spirale”, nella quale si ritorna nel discorso per focalizzarlo: “senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste“.

Dopo questa fase in crescendo, segue una forma discendente, che specifica la venuta dall’alto della Vita e della Luce. La vita è ciò che ci consente di riconoscere la luce, che a sua volta è quella che vince le tenebre, e consente una corretta visione. Per questo Giovanni si aggancia alla Verità, perché la luce è quanto ci serve per scorgerla. La Verità è poi intimamente legata alla Grazia, in una simbiosi che ci viene chiaramente espressa in vari punti del Vangelo.

“In Lui era la vita ; e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.

A questo punto l’inno in forma poetica si interrompe per lasciare spazio alla prosa, con il riferimento alla venuta del Battista, il quale non è lui la Luce Vera, ma è colui che doveva dare la testimonianza.

Dobbiamo ricordare che gli ebrei attendevano il Messia, il quale secondo le scritture avrebbe dovuto essere annunciato dalla venuta di un grande profeta, come Elia. Il Battista è ritenuto il nuovo Elia.

E la testimonianza del Battista arriva, e viene riconfermata nel Prologo stesso in una forma ancora una volta “a spirale”.

Ma c’è di più. Giovanni accenna anche a quelli che “sono di Cristo”, che non per mezzo della discendenza israelitica, ma nel riconoscere la Luce. Non solo il Popolo Eletto ha la Salvezza. Nel passo che indica questi concetti scorgiamo anche la trasformazione del Sacerdozio, che per gli ebrei è riservato ai discendenti della tribù di Levi. Compiendo il passo scritturale di un sacerdozio alla maniera di Melkisedec”, Gesù lo trasformerà in chiamata, con gli Apostoli: “… non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

In questo sacerdozio sono compresi tutti coloro che sono di Cristo, nell’accezione di sacerdozio battesimale.

Ed è quindi nella “pienezza dei tempi” che il Verbo si incarna e fa sì che noi possiamo contemplare la sua gloria piena di Grazia e Verità: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria […] pieno di grazia e verità”.

Nella seconda testimonianza, poi, Giovanni Battista si rivela: non è lui la Luce, ma: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore“.

Il deserto (מִדבָּר in ebraico, “midbar”, è quello del cammino, lo stesso deserto in cui vagò 40 anni Israele verso la Terra Promessa, e in cui il popolo di Dio attraverso molte peripezie, tradì e si riconvertì.

La terza persona della Trinità è presente, ed è sempre stata presente nell’eternità, e la riconosciamo nel Battesimo dell’acqua, e nel Battesimo in “Spirito Santo e fuoco.

Cos’è il Purgatorio?

Cos'è il Purgatorio?

Non è un luogo, ma una vera e grande opportunità

Teologi e filosofi, ma da qualche decennio anche gli scienziati (il premio Nobel Roger Penrose e altri), cercano di comprendere cosa sia il Purgatorio, cosa sia l’anima, e anche a cosa serva un elemento deperibile come il nostro corpo.

La risposta che si è fino a questo momento raggiunta e che trova tutti concordi è che non sia un luogo.

La nostra anima, quello che ci caratterizza davvero in un modo che almeno teoricamente possa dare l’unica risposta, è qualcosa che contiene ciò che realmente siamo.

Noi siamo ciò che oltre alla creazione abbiamo aggiunto al nostro IO attraverso le esperienze del corpo e di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi. E se fosse vero ciò che gli studiosi ipotizzano, l’anima è ciò che resta nell’universo dopo la nostra morte corporale.

L’uomo ha cercato disperatamente in tutta la sua storia, di cercare le motivazioni dell’esistenza. Ha ipotizzato lo Sheol, o Regno delle ombre, e poi è arrivato a supporre l’esistenza del Purgatorio, del Paradiso e dell’Inferno.

Ma se davvero per noi ci sarà un futuro, deve essere considerato, almeno sulle prime, in assenza di un corpo. Esso si dissolve nella natura.

Quindi il Purgatorio va pensato vissuto senza il corpo. E quindi con un’ente che sia solo spirituale. L’uomo, non sarà quindi sminuito, ma migliorato, in quanto in grado di pensare esclusivamente a uno stato in cui si possa essere concentrati solo nell’arricchimento dell’anima.

Tutto ciò che avremo accumulato grazie ai sensi, si concentrerà unicamente su chi siamo realmente NOI.

Il Purgatorio, se non c’è il corpo, non può dunque essere qualcosa di fisico, e men che mai un luogo. È dunque un proseguimento del cammino verso ciò che dall’eternità è sempre stato il destino ultimo dell’uomo.

Lo “status” del Purgatorio è quindi opportunità di arricchimento e di comprensione, senza i legami dati dalle preoccupazioni del corpo.

L’uomo nella sua limitatezza compirà un ulteriore step formativo. Il corpo in-forma l’anima, gli dà forma. Ma lo arricchisce anche con le informazioni (senza trattino divisorio).

La nostra anima, colma di queste informazioni, avrà l’opportunità di arricchirsi di quei valori spirituali che il corpo non è stato in grado di fornirgli nella loro completezza.

Tutto ciò fa parte di un unico cammino. Ed è il motivo per cui Joseph Ratzinger rifiutava la morte come fine del cammino, ma in un tutt’uno con la vita oltre la morte. Nei suoi scritti Papa Ratzinger ha sempre proposto questa visione d’insieme (anche nella sua opera “Escatologia. Morte e vita eterna”).

Il credente quindi, deve essere consapevole che il Purgatorio non è un luogo. E pur avendo restituito il nostro corpo in forma gloriosa, non lo è neppure il Paradiso. Tutto è relativo alla relazione. Una relazione con Dio, che appagherà ogni bisogno.

Sono importanti quindi i suffragi per le anime del Purgatorio, perché esse sono quelle che ci precedono. Proseguono il loro cammino, come noi stiamo compiendo il nostro, in attesa del prossimo passo.

Liberiamoci dunque delle suggestioni dell’escatologia dantesca e crediamo in Gesù unico mediatore. “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di Vita!”