Dogma, un termine che spesso spaventa

Dogma, un termine che spesso spaventa

È un principio fondamentale con basi filosofiche e dottrinali inoppugnabili

Nella prossimità della solennità dell’Assunzione di Maria Santissima al cielo, che celebra l’ascesa in paradiso della Madre di Dio in corpo e anima, dogma della Chiesa Cattolica, soffermiamoci sul significato di questo termine che continua in molti a generare perplessità dovute anche alla scarsa conoscenza del termine.

Stando alla definizione del Vocabolario Treccani, il dogma ( = domma) è: «[dal lat. dogma -ătis, gr. δόγμα -ατος «decreto, decisione», der. di δοκέω «mi sembra»] (pl. -i). – Principio fondamentale, verità universale e indiscutibile o affermata come tale: d. filosofici, politici; i d. della scienza; d. giuridico, principio teorico di un istituto giuridico, del quale costituisce il sostrato fondamentale».

Analizziamo dunque da vicino. È dogma un principio fondamentale (quindi senza il quale si perderebbe fondamento), verità decretata in modo ampio da ritenersi indiscutibile all’interno di una dottrina, che viene affermata (e di conseguenza riconosciuta) da un’analisi filosofica, teologica (in ambito religioso), ma anche politico, scientifico e giuridico in altri campi.

Un dogma non è perciò un qualcosa che dobbiamo capire a tutti i costi, ma accettare per fede dopo che è stato vagliato attentamente e soppesato in ogni suo aspetto, e senza il quale non potrebbero essere tutti gli altri aspetti delle fede che invece hanno un riscontro evidente.

In altre parole, il Papa, decretando ad esempio il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima, non l’ha fatto per devozione, ma perché senza riconoscere la sua ascesa in questo modo, non potremmo neanche credere che essa sia la Madre del Figlio di Dio.

Ne deriva che se crediamo nella Madonna, la conseguenza è quella di non mettere in dubbio la sua Assunzione.

Credere e dare credibilità a un dogma non è altro che essere Cristiani. Se non riconoscessimo Maria come Madre di Gesù non riconosceremmo neppure che Egli è il Figlio di Dio, e dunque non saremmo Cristiani.

Il dogma è allora facile da definire: esso è «verità soprannaturale contenuta, in modo implicito e esplicito, nella Rivelazione, e proposta dalla Chiesa come verità di fede, oggettiva e immutabile» (Vocabolario Treccani).

Un dogma è anche quello della Trinità, o anche della Immacolata Concezione, tutti concetti profondi e inesplorabili dalle capacità umane, ma che si raggiungono nella percezione attraverso una logica stringente e di apertura alla fede.

È curioso infatti vedere come molti fedeli o semplici praticanti non si pongano il problema della Trinità, molto più complesso, e si fissino invece sulla figura di Maria, dimenticando un tratto fondamentale per ogni credente in qualsiasi dottrina: «nulla è impossibile a Dio».

Venerdì 28 luglio la nostra comunità in festa

Venerdì 28 luglio la nostra comunità in festa

Festa patronale e Sante Cresime impartite da Mons. Vescovo Borghetti

Quest’anno la nostra festa patronale, che ricorda i potenti patroni di Mendatica, Santi Nazario e Celso, sarà celebrata con una coincidenza di eventi significativi.

Per Camilla Bianchi, Aurora Gelso e Francesco Bianchi, sarà il giorno della Sacra Confermazione, in cui dalle mani di S. E. Monsignor Guglielmo Borghetti riceveranno il Sacramento della Cresima.

La funzione sarà integrata nella Santa Messa solenne che avrà inizio alle ore 10.30 celebrata appunto dal Vescovo, e concelebrata dal Parroco Don Enrico Giovannini, dal Vice Parroco Don Luciano Massaferro e dal Parroco di Santo Stefano di Villanova d’Albenga, Don Giancarlo Aprosio.

Alle ore 17.30 la recita del Vespro presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, cui seguirà la processione alla quale parteciperà la Confraternita di Santa Caterina Vergine e Martire di Mendatica. È prevista la partecipazione di almeno 11 altre confraternite della zona e l’animazione da parte della banda.

Al termine ci si ritroverà tutti in piazza per un momento di gioia e convivialità.

La nostra comunità si stringe quindi attorno al suo Vescovo, ai suoi pastori e in questo giorno di felicità soprattutto ai cari Aurora, Camilla e Francesco.

La crisi ambientale è connessa a quella umana

La crisi ambientale è connessa a quella umana

Papa Francesco, ecologia e cultura dello scarto

Più volte e a tutti i livelli, Papa Francesco si è dimostrato preoccupato circa le condizioni del nostro pianeta e di conseguenza dell’habitat in cui l’uomo vive.

La denuncia è stata portata anche all’ONU e dunque all’attenzione dei potenti della Terra.

Nelle riflessioni del Papa emerge una stretta attinenza anche con l’aspetto spirituale e religioso. Bergoglio ha rilevato infatti quello che nella sua enciclica Laudato Sì traspare come “Vangelo della creazione”.

In Genesi, ricorda il Papa, i protagonisti della creazione sono tre: Dio, l’uomo e la terra. Le constatazioni oggettive sono due:

  1. Dio è stato escluso, e non figura né nei progetti né nelle considerazioni progettuali
  2. Il rapporto tra uomo e ambiente è divenuto conflittuale.

Si è affermato un utilitarismo dalla vista corta, ovvero poco attento alle implicazioni future, che mira esclusivamente al tornaconto immediato.

C’è inoltre da rilevare che questo “tornaconto” coincide con quello dei potenti, i quali, grazie alle disponibilità economiche possono pilotare scelte politiche, sociali e, naturalmente economiche.

Lo scienziato John Freeman Dyson ebbe a dire, tra il provocatorio e l’amaro, che la scienza sta diventando il produttore di giocattoli per ricchi, e che invece di soddisfare i bisogni, li crea. Un esempio? I viaggi su Marte per turisti.

Nel rapporto conflittuale tra uomo e natura si verificano delle situazioni innaturali. Le risorse (il nome dovrebbe evocare fattori positivi) sono divenute (invece) un problema. Si è affermata la “Cultura dello scarto”, la quale non si limita a gettare risorse, ma viene applicata anche agli uomini: chi non ha voce (feto, malati, disabili, anziani, ecc.) viene soffocato all’altare di un utilitarismo egoista. La vita diviene un accessorio da indossare o dismettere come meglio si crede.

Le soluzioni che vengono proposte, non comprendendo Dio, si basano pesantemente sulla denatalità. Si pensa infatti di risolvere tutto cercando di restare in pochi.

Questa mentalità è pericolosamente contraria ad ogni espressione di libertà e di fratellanza, e di conseguenza (in politica) mina anche l’aspetto democratico.

Il Papa ha anche invocato più volte il ricorso alla sussidiarietà. Lo sviluppo, e ancor più uno sviluppo che sia anche sostenibile, è necessario, ma non può oggettivamente essere imposto. La strada è dunque quella della sussiedarietà, ovvero il mettere in grado tutti di potersi gestire in modo autonomo.

In questo tipo di futuro sostenibile, devono entrare tutti, perché lo squilibrio nella società favorisce anche lo squilibrio in natura, e quest’ultimo distrugge l’ambiente.

Aiutare i popoli a raggiungere la capacità di sviluppo, con spirito cristiano e recuperando Dio, non è elemosina, ma una convenienza per tutti.

Questa Chiesa da amare e conoscere

Questa Chiesa da amare e conoscere

Prendendo spunto dal titolo del libro di Giuseppe Militello

Il titolo del libro del professor Don Giuseppe Militello, docente di Ecclesiologia, (“Questa Chiesa da amare e conoscere“) offre molti spunti di riflessione.

Se si ascoltano i numerosi commenti che la gente rilascia per strada, nelle discussioni, e soprattutto sui social, dove la “barriera” di schermo e tastiera garantisce uno “scudo” dietro cui sentirsi al riparo dall’essere osservati, emerge che l’idea che si ha della Chiesa è distorta ed è molto distante da quando potrebbe essere se la si conoscesse o la si frequentasse.

In genere si intende “Chiesa” l’edificio di mattoni o pietra, o in molti casi l’istituzione romana.

Queste convinzioni sono totalmente errate. Per capire veramente e in modo corretto cos’è la Chiesa occorre far riferimento al suo nome stesso, che deriva da ἐκκλησία (ekklēsìa) termine greco che si traduce in “assemblea”.

La Chiesa è dunque l’assemblea, ovvero la riunione dei fedeli, i quali svolgono il compito di adorare, ringraziare, pregare, invocare Dio, per compiere il percorso terreno in vista della soluzione escatologica (la vita eterna).

Tutte le critiche rivolte eventualmente a Papi, Vescovi, Sacerdoti o diaconi, sono personali, e quindi non intaccano il significato di Chiesa.

Il Papa è il Vicario di Cristo, successore dell’apostolo Pietro a cui Gesù ha affidato la custodia della Chiesa e della Fede, ma non ha accezioni divine. In quanto uomo il Papa può sbagliare, ma gli eventuali errori non vanno attribuiti alla “assemblea” dei fedeli, e quindi alla Chiesa.

Gesù non ha abbandonato la sua “assemblea”, ma ha promesso che avrebbe mandato lo Spirito Santo, e lo ha fatto.

Confondere quindi la Chiesa con opere degli uomini, soprattutto quando non capiamo i motivi di certe scelte delle istituzioni, è un grave errore e di riflesso mette in dubbio l’opera dello Spirito Santo.

L’incarico dato da Cristo alla Chiesa non è affatto banale, e la responsabilità dei Papi è pesante. La Chiesa deve convogliare verso Cristo le richieste umane di mediazione, in quanto con l’Incarnazione, Gesù è l’unico mediatore di Salvezza.

Questo è il fondamentale: indirizzare verso la Salvezza. Non è saggio dunque fermarsi a discutere su come l’istituzione vaticana intende svolgere questo compito, ma è importante invece concentrarsi sull’obiettivo.

Un’altra accusa che viene rivolta alla Chiesa è quella inerente a certi comportamenti deprecabili e a volte anche imperdonabili di qualche suo membro istituzionale. Fermo restando che il peccato perpetrato da chi dovrebbe essere da esempio è più grave che altri, questo resta un peccato fatto da un uomo. Sarebbe assurdo contestare l’idea per colpa dell’uomo. Sarebbe come ripudiare la democrazia nel caso in cui un Presidente o un Re fossero infedeli.

Il libro di Militello spiega attraverso l’approfondimento della Lumen Gentium la bellezza della Chiesa, e invita soprattutto a conoscerla. Non si può amare senza conoscere, ma è altrettanto vero che senza conoscere è stupido il rifiutare.

Alla base di molte critiche e fraintendimenti c’è proprio la scarsa conoscenza, o, peggio, l’impressione di conoscere solo attraverso luoghi comuni o apparenza. Parlare bene o male, elogiare o criticare qualcosa che non si conosce non è saggio, non è corretto e forse neppure intelligente.

Maternità è collaborazione con Dio, auguri a tutte le mamme

Maternità è collaborazione con Dio, auguri a tutte le mamme

La vita come bene più prezioso

Che la vita sia un bene prezioso è una frase che non incontra contestazioni, ma che purtroppo ai nostri giorni è soggetto ad una retorica pericolosa.

Le contraddizioni che intercorrono tra considerare la vita sacra e accamparsi il diritto di scegliere se far nascere oppure no un bambino, è evidente e ricorrente.

In realtà il concetto fondante di maternità viene spesso sminuito, mentre dovrebbe facilmente essere considerato il valore più alto in assoluto presente su questa terra.

Di fatto costituisce l’esempio più chiaro e esplicito della collaborazione tra Dio e l’Umanità. La donna è stata scelta per essere la più stretta collaboratrice della volontà di Dio, che esprime di fatto nella continuazione della specie umana.

Sebbene la Chiesa abbia giustamente affiancato alla procreazione l’amore tra i coniugi, come fondamento del matrimonio cristiano, essa ricopre un ruolo fondamentale nell’universo.

Si tratta della partecipazione con consapevolezza alla prosecuzione della presenza dell’uomo sulla terra: una responsabilità che innalza l’essere umano a doveri sublimi. È di fatto l’atto che sancisce la maturazione dell’Uomo.

Un uomo e una donna maturi e consapevoli conoscono i propri doveri e li accettano.

La donna è elevata al più alto grado di considerazione e assume una posizione preminente.

Le leggi naturali che Dio ha consegnato all’Uomo assegnano alla donna il ruolo fondamentale che determina la vita, ad immagine della Santa Vergine, Mamma di tutte le mamme, che portò in grembo il Figlio di Dio pur sapendo che una spada gli avrebbe “trapassato l’anima”.

Per questo e per mille altri motivi gli auguri a tutte le mamme del mondo giungano con l’amore più sentito.

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Scritture: Apocalisse non è catastrofe, Giobbe non fu paziente fino in fondo

Approfondire le Scritture smentisce anche dei luoghi comuni

La conoscenza superficiale delle Scritture ha portato attraverso i secoli a convinzioni equiparabili a veri e propri luoghi comuni.

Complice la scarsa precisione di chi evidentemente ha utilizzato il titolo o le citazioni dei testi senza particolare puntualizzazione, in una grande fetta di credenti si sono insinuate convinzioni errate, proliferando nel tempo e divenendo scontate.

Due tra i più macroscopici esempi sono l’Apocalisse e il Libro di Giobbe. La prima costituisce l’ultimo libro del Nuovo Testamento e chiude di fatto la Rivelazione, a cui nulla si può aggiungere. Il secondo risulta al momento il più antico tra i testi della Bibbia essendo stato datato nel periodo che intercorre tra il 1900 e il 1700 a.C.

Apocalisse

Apocalisse deve il suo titolo al termine greco ἀποκάλυψις (Apokalupsis) che significa Rivelazione. Si ritiene scritto da Giovanni apostolo, ma testualmente l’autore si cita all’interno dell’opera: si chiama in effetti Giovanni e si trova nell’isola di Patmos.

Si tratta di un testo difficile e complesso sia nella traduzione che nell’interpretazione proprio perché si identifica in un genere letterario specifico (appunto “apocalittico”) che comprende una vasta simbologia, una trasmissione di concetti per immagini.

Non parla di una catastrofe come lo si ritiene normalmente, tanto da far divenire il termine “apocalisse” sinonimo di immane sciagura, ma rivela in senso escatologico quanto avverrà alla fine dei tempi.

Alcune immagini sono forti e prepotentemente indicative, ma il significato complessivo porta ad un’espressione profetica e non certo negativa.

Libro di Giobbe

Quante volte noi stessi abbiamo pronunciato la frase “pazienza di Giobbe”? Ebbene, può sembrarci strano ma Giobbe fu paziente, ma non subì passivamente tutte le prove a cui fu sottoposto.

In realtà fu un uomo abbastanza sfortunato in quanto preso di mira dal demonio, dopo aver ottenuto per questo il consenso di Dio, a patto che il maligno non togliesse a Giobbe la vita.

Fu dunque sottoposto ad ogni genere di patimento sia fisico che psicologico che morale, e sopportò tutto pazientemente finché un giorno la sua rabbia esplose.

Giobbe, allora, se la prese un po’ con tutti, persino con Dio, e a nulla valsero neppure le raccomandazioni dell’Onnipotente che si presentò a lui dopo che Giobbe lo ebbe preteso.

Solo quando Dio lo mise di fronte alla sua condizione di “essere umano”, Giobbe prese coscienza del Timor di Dio e improvvisamente si tappò la bocca con le mani, per significare che a Dio non si deve e non si può replicare.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi …”

"E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi ..."

La profondità del Vangelo e la difficoltà di descriverla in parole umane

Dalla lettura del Vangelo traiamo infiniti spunti: è come una miniera inesauribile. E questa realtà risulta ancora più sorprendente se consideriamo che a parole non si riesce ad esprimere tutta la profondità del messaggio.

Le varie traduzioni dai testi antichi incontrano inoltre il problema di esprimere nei verbi delle lingue nazionali tutta la forza che il redattore ha voluto concentrare sui termini usati, i quali erano probabilmente a loro volta insufficienti in relazione alla potenza del messaggio.

Prendiamo ad esempio quello che è riconosciuto come uno degli inni più sublimi dell’intera letteratura mondiale: il Prologo al Vangelo di Giovanni.

A parte i primi tre versetti, che esprimono in poche ma dense parole la pre-esistenza di Cristo e introducono il pensiero trinitario, troviamo successivamente il motivo di constatare quanto si perda nel leggere le Scritture senza un’adeguata conoscenza di esse.

Nel versetto 14 del Prologo (Gv 1,14) vengono utilizzate espressioni verbali significative. In primis constatiamo che “il Verbo SI FECE carne”. Nessun intervento esterno: è il Logos stesso, del quale ci è stato detto al versetto 1,1 che è Dio, che di sua iniziativa si incarna. Generosamente e in piena libertà.

La traduzione “venne abitare in mezzo a noi”, invece, non rende interamente giustizia al significato, in quanto il redattore intendeva qualcosa di ancora più profondo. La formula usata non è infatti “venne ad abitare”, ma un verbo che nel Nuovo Testamento figura esclusivamente qui e in 4 altri versetti dell’Apocalisse: “Eskenosen”. Si tratta dell’auristo del verbo “piantare la tenda”. L’auristo è infatti un modo verbale greco che indica un’azione conclusa nel passato, ma che protrae le sue conseguenze ancora oggi.

“Piantare la tenda” richiama l’Antico Testamento, e precisamente il momento in cui Dio decise di frequentare con il segno esterno della nube, la tenda del convegno, e di guidare il popolo eletto verso la Terra Promessa.

Nella formula utilizzata da Giovanni c’è quindi l’intenzione di farci capire che con l’Incarnazione, Gesù-Dio ci guida direttamente verso verso la Vita Eterna. Da parte nostra però è necessaria l’accoglienza. La nube si posava sulla tenda, e il popolo si arrestava nel suo cammino per riposare. Quando la nube si innalzava, il popolo la seguiva docilmente.

Nel dirci che il Verbo ha piantato la tenda in mezzo a noi, si vuole anche spiegare che è necessario restare all’interno del percorso che Dio ha tracciato.

Gesù, figlio di David

Gesù, figlio di David

Perché Gesù è chiamato così? Le genealogie di Matteo e Luca

Tra i tanti appellativi con cui viene indicato Gesù c’è anche quello di “Figlio di David”.

La discendenza da questo re è importantissima per gli ebrei in quanto definirebbe il Messia, e a maggior ragione lo è per noi cristiani.

David, successore del re Is-Baàl e predecessore di Salomone, nacque a Betlemme nel 1040 a.C. circa, e rappresenta una chiave fondamentale in quanto da lui deve discendere l’atteso Messia. Questo legame è evidenziato dalla profezia che troviamo in Isaia 11, che anticipa che dalle radici di Iesse nascerà un virgulto su cui si poserà lo Spirito del Signore.

Nel Vangelo di Matteo si traccia una genealogia teologica di Gesù, che si compone di 3 tappe, ciascuna delle quali conta 14 generazioni. È evidente la sottolineatura dell’evangelista in relazione al significato che i numeri 3 e 7 (quest’ultimo sottomultiplo di 14) rivestono nella mentalità ebraica. Il 3 richiama la perfezione, e per noi cristiani anche la Santa Trinità, mentre il 7 è indice di completezza.

Perché allora Matteo fa riferimento al numero 14? Occorre ricordare anche il rilievo che per gli ebrei assume la simbologia numerica. La numerazione ebraica viene espressa con le prime lettere dell’alfabeto. Il nome David (דָּוִד) in ebraico, lingua consonantica, è composto dalle lettere daleth (d), vau (v) e ancora daleth, le quali esprimono anche i numeri 4, 6 e 4, la cui somma dà 14. Ripetendo per tre volte il numero quattordici l’evangelista afferma in modo imperativo un legame indiscutibile tra i due nati a Betlemme. Matteo dunque cita 42 generazioni tra David e Gesù. Di fatto abbiamo 14 generazioni tra Abramo e Davide, 14 generazioni tra Davide e Ieconia (Yehoaqim) figlio di Giosia, e infine 14 generazioni, dopo l’esilio, tra Ieconia e Gesù.

Questo ricorso alla simbologia che ricorre col numero 14 si trova anche nella genealogia di Luca, il quale si sforza di dare alla sequenza delle generazioni una forza storica oltre che teologica. In questo caso le generazioni citate sono 77, ovvero 7 volte 11. Le generazioni nominate da Luca infatti non si fermano a David ma arrivano fino ad Adamo e a Dio.

Da notare che Luca specifica col suo elenco che la discendenza di Gesù da David non passa attraverso i primogeniti, in quanto il Figlio di Dio avrebbe come progenitore Natham, ovvero uno dei figli di David, ma non da Salomone. Questa distinzione è importante perché risulta che Gesù non discende da re di Israele che sacrificarono agli idoli.

I Vangeli danno dunque testimonianza della legittimità dei titoli di re, sacerdote e profeta che sono i requisiti del vero Messia.

Un altro aspetto teologico interessante che rileviamo nella genealogia elencata da Matteo, è che in soli quattro casi si cita la moglie con cui un discendente ha generato il proprio figlio in linea dinastica. Tamar, Racab, Rut e Betsabea (quest’ultima citata come moglie di Salomone ed ex moglie di Urìa, ma non menzionata) erano donne straniere. È una evidente indicazione al fatto che la salvezza portata da Gesù è per tutti i popoli.

L’Altare della Reposizione

L'Altare della Reposizione

Perché viene allestito, le tradizioni e il significato quello che comunemente si chiama “il Sepolcro”

L’Altare della Reposizione, comunemente chiamato dai fedeli “sepolcro” è il luogo dove viene conservata l’Eucarestia dopo la Santa Messa vespertina del giovedì, chiamata “in Coena Domini” in ricordo dell'”ultima cena” consumata da Gesù insieme agli Apostoli, prima della Passione.

Secondo la Liturgia l’Altare della Reposizione non deve coincidere con l’Altare Maggiore e viene addobbato in modo solenne per permettere ai fedeli l’Adorazione.

Il “Sepolcro” viene disallestito al pomeriggio del Venerdì Santo, in quanto si riprende la distribuzione l’Eucarestia, che dalla sera del giovedì è sospesa.

Attorno ai “Sepolcri” sono sorte numerose pie tradizioni, come ad esempio l’uso di visitare 7 Altari della Riposizione in 7 chiese diverse. Il numero 7, oltre a richiamare il concetto di “infinito” per la tradizione ebraica, è in questo caso utilizzato in ricordo dei “7 Dolori della Santa Vergine”.

Nella tradizione ligure sono vivi i “cartelami”, ovvero cartoni che raffigurano pie scene e personaggi biblici. In Italia Centro-meridionale invece si è soliti riempire alcune ciotole (“lavureddi”) di semi di grano o legumi, che vengono poste al buio e innaffiati in modo che al Giovedì Santo presentino filamenti di tutti i colori.

Per i fedeli l’Altare della Reposizione è un modo che aiuta l’Adorazione del Cristo Risorto e la meditazione. Spontaneamente, in molte occasioni, i visitatori lasciano offerte sul luogo dell’allestimento e accendono candele per ottenere le Grazie.

Sicuramente il “Sepolcro” avvicina il cuore dei fedeli a quello di Gesù, col ricordo della sua Passione e del Sacrificio di Salvezza.

Nella foto è illustrato l’Altare della Reposizione allestito dai fedeli mendaighini presso la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso a Mendatica.

Al centro è posta una croce creata con spighe di grano, che simboleggia il Sacrificio di Nostro Signore, ma anche il suo farsi cibo di Vita Eterna per noi.

Sulla sinistra si nota una corona di spine. La Passione di Gesù è stata reale, e Lui l’ha voluta vivere interamente come uomo. Non a caso però, la corona è collocata sopra un telo bianco che rappresenta il sudario.

Nella tradizione ebraica del tempo, il corpo di un defunto veniva avvolto in un lungo telo che ne ricopriva l’intero corpo sia nella parte anteriore che posteriore, come mostra chiaramente la Sacra Sindone. La corona di spine, segno di sofferenza terrena, viene a contatto con la divinità di Gesù-Dio: il sudario afflosciato è il segno della Resurrezione. Con la Resurrezione, Gesù Uomo-Dio sale alla destra del Padre nel mistero della Trinità Unico Dio. La sua ascesa è rappresentata dalla forma della radice d’albero che tende verso il cielo.

Alla base della Croce c’è un altro cestino che questa volta contiene una sacchetta aperta dalla quale fuoriescono i 30 denari del triste prezzo a cui Giuda ha venduto il Salvatore del mondo.

Accanto alla Croce, in un cestino, troviamo il pane, il grano e l’uva, che ricordano l’Eucarestia. È proprio col grano macinato e con l’uva schiacciata, ovvero due alimenti triturati e sacrificati, che si ottengono il Pane e il Vino destinati a diventare il Corpo di Cristo.

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Sacerdote, frate, monaco, canonico regolare: le differenze

Chiarezza su quattro termini che spesso vengono confusi

Nel discorrere comune, spesso si fa confusione fra tre termini che in realtà indicano cose diverse. Vediamo dunque di fare un minimo di chiarezza tra le parole sacerdote, frate e monaco.

Il Sacerdote

È un chierico che viene consacrato al secondo grado della Ordinazione Sacerdotale, che prevede i livelli di Diacono, Presbitero e Vescovo. Sono sacerdoti dunque tutti coloro che ricevono questo Sacramento, e sono ordinati alle celebrazioni. Possono celebrare l’Eucarestia, confessare e svolgere tutte le mansioni che sono loro affidate dal Vescovo, unico grado che possiede la pienezza del sacerdozio quale successore degli Apostoli.

Possono essere ordinati sacerdoti gli uomini in stato di celibato o vedovanza, dopo aver ottenuto l’approvazione del Vescovo ed avere superato un periodo adeguato di studi.

Ci si rivolge al Sacerdote con l’appellativo di Don che precede il suo nome.

Il Monaco

Si tratta di un termine che risale al basso medioevo e deriva dalla contrazione nel latino monachus dei termini monos (solo) e achos (dolore).

Appartiene a una comunità monastica e vive in un convento, dedito alla preghiera e alla penitenza. È consacrato e formula i voti di castità, povertà e obbedienza, ma può essere o anche non essere sacerdote.

La figura del monaco è profondamente cambiata dalle origini medioevali, in cui si identificava con l’anacoreta, che viveva solo e distante dalle comunità.

Oggi i monaci vivono infatti in conventi che seguono una regola propria della loro istituzione.

In senso stretto e in via generale, il Monaco che è Sacerdote, celebra all’interno della sua comunità.

Al Monaco ci si rivolge antecedendo al suo nome l’appellativo di Frà, e spesso di Padre

Il Frate

Il termine deriva dal provenzale fraire (fratello) e ha le sue origini nel medioevo in conseguenza alla profonda riforma della vita religiosa provocata da San Benedetto e da San Francesco d’Assisi.

Anche i frati sono consacrati, fanno voto di povertà, obbedienza e castità, e vivono in convento. Rispetto ai monaci hanno però la caratteristica di svolgere una vita attiva nella solidarietà e nell’apostolato.

Il frate può essere sacerdote, oppure rimanere allo stato di semplice consacrato che comunque vive le regole interne della sua comunità.

Viene chiamato, come il Monaco, antecedendo al nome l’appellativo di Frà o spesso di Padre.

I frati possono essere anche, con il permesso del proprio superiore, essere chiamati dal Vescovo a amministrare una parrocchia.

In virtù di un decreto di Papa Francesco, del febbraio 2022, anche un frate non sacerdote potrà essere nominato Superiore Maggiore del proprio ordine.

Il Canonico Regolare

Quando un sacerdote viene delegato dal Vescovo a reggere una Parrocchia che è distinta dal termine di Canonica, assume il titolo di Canonico.

Solitamente le Parrocchie Canoniche sono a capo di Collegiate. Il titolo viene mantenuto solo in virtù e per la durata dell’incarico.

Alcuni sacerdoti, però, decidono di vivere seguendo una Regola assunta da qualche comunità autorizzata. In questo caso si ha il Canonico Regolare, ovvero il Canonico che segue una determinata regola.

È una figura poco nota, che ha vissuto momenti di diffusione altalenanti, e che fu percorsa dalla Comunità di San Vittore nel medioevo.

I Canonici Regolari sono Sacerdoti e formalmente vestono in bianco.