«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

Gesù sulla croce non dubitò del Padre, come la frase potrebbe farci pensare

Sia Marco che Matteo riportano la frase pronunciata da Gesù quando sulla croce la vita stava per lasciarlo: «Eloì, Eloi, lamà sabachtani» («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»).

Ci sono alcune note che sembrano stonate nei brani evangelici che narrano queste vicende. La prima e che gli ebrei più vicini al luogo del martirio pensarono che stesse invocando Elia per essere soccorso, mentre la seconda risiede nella perplessità che il Figlio di Dio potesse mettere in dubbio la vicinanza del Padre in quel momento tragico.

Vediamo allora di dare le risposte a queste perplessità.

In realtà la frase che Gesù urlò fa parte dell’incipit del Salmo 21, il canto del servo giusto sofferente. Era usanza infatti recitare a voce alta le primissime righe dei salmi, per poi proseguire a bassa voce.

Gesù recitò quindi il Salmo 21, che termina in una profonda coscienza di fiducia in Dio, nonostante le prove siano faticose e sembrino insostenibili, proprio per evidenziare la sua missione di servo sofferente annunciata da Isaia.

Al tempo, nell’attuale Palestina, le lingue parlate erano quattro: il Greco (lingua dei dotti e della cultura), il Latino (idioma dei dominatori, e dunque lingua giuridica e delle istituzioni), l’Ebraico (utilizzato esclusivamente nei riti e nelle funzioni religiose) e l’Aramaico, la lingua corrente entrata nel popolo dopo la deportazione a Babilonia e il ritorno in patria circa 70 anni più tardi.

La frase (אלהי אלהי למה שבקתני = Eloì, Eloì, lamà sabachtani) è in aramaico «ebraicizzato», e ne abbiamo la prova perché «lamà» col significato di «perché» veniva utilizzato solo nell’Aramaico parlato nell’attuale Terrasanta.

Le prime due parole («Eloì, Eloì» – oppure «Elì, Elì» secondo Matteo), indicano indiscutibilmente un dei modi con cui gli ebrei indicavano Dio, ovvero Elohim. Gli altri due erano «Adonai» (letteralmente: «Signore») o il tetragramma sacro che però era impronunciabile per religione. Pronunciando la frase in Aramaico, Gesù la rese diversa da quella in ebraico che veniva ripetuta nelle Sinagoghe, per cui la confusione, la somiglianza con il nome di Elia, e la rimembranza che il Messia sarebbe stato preceduto dal ritorno del profeta, generarono il dubbio.

Dunque la frase fu opportuna al Cristo per confermare la sua fiducia nei confronti del Padre (altra persona della Trinità insieme a Lui stesso e allo Spirito Santo), ma anche a ricordarci, attraverso la cattiva interpretazione degli Ebrei presenti, che il profeta che precedette il Messia era Giovanni il Battista, novello Elia.

Scienza e Fede, l’eterno dibattito

Scienza e Fede, l'eterno dibattito

Filosofia e Metafisica intervengono nel dialogo

Del rapporto tra Scienza e Fede si sono occupati praticamente tutti i Papi nonché i maggiori scienziati e pensatori. Alcuni ricercatori scientifici hanno liquidato l’argomento fermandosi in superficie e definendo incompatibili i due mondi. La maggior parte però ha affrontato la questione arrivando a conclusioni spesso diversificate.

Una risposta circa la compatibilità richiede un’analisi abbastanza articolata e tira in campo altre due importanti discipline, ovvero Filosofia e Metafisica.

Nell’Antichità la Filosofia era definita dapprima l’unica scienza, per poi essere ritenuta la «vera» scienza. L’uomo cercava di raggiungere la piena consapevolezza della propria essenza iniziando a comprendere di avere capacità diverse rispetto a tutti gli altri esseri viventi. La capacità di pensare è infatti di tutti gli esseri, ma quella di riflettere è propria dell’uomo.

La Filosofia, ovvero philia e sophia, amore per la conoscenza, non poteva che assurgere in qualità di scienza.

Con il mondo moderno si affermò invece un affidamento cieco solo a quanto potesse essere dimostrato, attraverso misurazioni e ripetizioni in laboratorio del fenomeno osservato: nacque il metodo empirico.

Da allora l’etichetta di scienza è stata esclusivamente applicata a quelle discipline che rispondevano ai canoni della sperimentazione.

Questo pensiero è stato esasperato fino a generare il fenomeno dello scientismo, cioè quella scuola di pensiero che ritiene la scienza infallibile, elevandola in sostanza a divinità.

Il metodo empirico ha fatto in modo da far credere che il termine «scientifico» possa essere usato esclusivamente per alcune discipline quali Fisica, Matematica, Chimica e poche altre.

Restavano dunque, a rigore di logica, escluse alcune altre discipline le quali devono affidarsi esclusivamente alle deduzioni, quali Medicina (almeno nella Diagnostica), Psicologia, Psichiatria, e tutte le scienze umane o umanistiche.

Il sistema denunciava quindi delle lacune che furono colmate con l’avvento della Fisica Quantistica e dal pensiero di diversi filosofi contemporanei, il cui capofila può essere ritenuto Karl Popper.

La Fisica Quantistica ha messo in crisi il metodo empirico evidenziando aspetti della natura, nella fattispecie delle particelle chiamate quanti, che di fatto non possono essere misurate e neppure localizzate in modo stabile. Cadde dunque la possibilità di avere una prova empirica e di conseguenza tutto viene ridotto a teoria.

Popper individuò una ulteriore insufficienza nel sistema empirico, che si può sintetizzare con il famoso esempio dei cigni: se vediamo solo cigni bianchi, non possiamo asserire con certezza che tutti i cigni siano bianchi: basterebbe incontrare un cigno nero e la teoria verrebbe smentita. Si tratta della constatazione che l’uomo non può vedere o sapere tutto quanto esiste in natura, e deve dunque sempre lasciare la porta aperta ad una eventuale prova contraria. Popper diede a questo principio il nome di «Falsificabilità». Diviene dunque scientifico ciò che è falsificabile dall’esperienza.

Queste riflessioni aprono il campo all’importanza della Metafisica. Essa è attaccata in modo feroce dagli scientisti, i quali vorrebbero che fosse addirittura abolita.

Escludere la Metafisica, però, significa mutilare in modo irreparabile le potenzialità intellettive umane. Se la Fisica indaga infatti su ciò che è nell’universo, la Metafisica ci invita a scrutare con la nostra capacità di riflessione anche a quello che potrebbe esistere seguendo una logica stringente. Troviamo dunque anche qui l’ammissione che l’uomo non conosce ancora tutte le leggi dell’universo.

Nell’ambito di queste considerazioni prende corpo l’importanza della Teologia e delle Scienze Religiose. Sono gli strumenti indispensabili per avvicinare la scienza e la fede attraverso una ricerca che può a buona ragione ritenersi scientifica.

Teologia e Scienze Religiose si appoggiano a tutte le altre scienze, comprese quelle che fino a ieri erano ritenute «la sola scienza», ma che oggi possono correttamente definirsi «scienze esatte» perché confermate in modo empirico.

Ecco dunque che scienza e fede divengono complementari perché la prima cerca di spiegare come avvengono i fenomeni, e la seconda indaga sul perché avvengono.

La ricerca del «come» e quella del «perché» non possono essere ritenute incompatibili, ma assolutamente entrambe necessarie se si ha la buona fede di ricercare la Verità.

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Secondo la Lettera di Aristea, questa versione fu prodotta da 72 rabbini

La Bibbia detta «Septuaginta», o come più spesso viene ricordata, la Bibbia dei 70, è una versione tradotta in greco dell’Antico Testamento dall’ebraico.

Si tratta di una versione importante, e ancora oggi è liturgica per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca.

Il riferimento storico, oggi oggetto di valutazione, è un documento, la «Lettera di Aristea», citato dallo storico Giuseppe Flavio, inviata da Aristea, sedicente praticante la religione olimpica, a suo fratello Filocrate.

Aristea si dichiara anche appartenente alla corte di Tolomeo II Filadelfo, della dinastia dei Tolomei di chiara origine ellenica e dunque ellenista, che fu faraone d’Egitto dal 281 al 246 a.C.

La lettera riporta che Tolomeo II, visto il crescere della popolazione ebraica nel suo regno, fu consigliato di indagare e prendere conoscenza della religione praticata dagli ebrei.

La Bibbia dei LXX non è l’unica versione in greco che viene tenuta in considerazione dagli studiosi, ma ad essa si aggiungono le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione, che sono fra l’altro citate da Origene nel suo Exapla. La Bibbia dei Settanta è però molto spesso indicata come OG, ovvero Old Greek, riconoscendone l’antichità.

Secondo la Lettera di Aristea, dunque, Tolomeo II chiamò i rabbini più autorevoli di Gerusalemme affinché producessero una traduzione in Greco. Da Gerusalemme partirono verso Alessandria 72 rabbini, 6 per ognuna delle 12 tribù di Israele.

In Egitto i 72 rabbini provvidero a tradurre una versione a testa in lingua greca, che miracolosamente non differivano l’una dall’altra neppure di una virgola.

Storicamente si ritiene che il lavoro di traduzione durò dal 250 a.C circa fino addirittura al I secolo dopo Cristo.

Nella Bibbia dei LXX troviamo delle interpretazioni che si staccano dalla semplice traduzione letterale di alcune parti del testo ebraico. I rabbini di Gerusalemme volevano probabilmente rendere esplicite le riflessioni teologiche che avrebbero potuto essere ostiche alla comprensione egiziana e greca. Di fatto quindi, l’esigenza di una ricerca al testo originale fu presto avvertita.

Nei secoli successivi si è arrivati a formulare due teorie circa la composizione della Bibbia dei Settanta, che hanno preso in considerazione esclusivamente le risultanze storiche certe, tanto più che la Lettera di Aristea è stata col tempo considerata epigrafica: si parla infatti di pseudo-Aristea.

L’indagine sul documento attribuito a Aristea ha subito una svolta importante con la ricerca effettuata da Luis Vives (filosofo e umanista spagnolo nato nel 1493 e deceduto nel 1540), e da Humprey Hody (teologo, 1659-1707), i quali dimostrarono che La Lettera di Aristea fu scritta da un ebreo alessandrino tra il 170 e il 130 a.C. e dunque da 80 a 120 anni dopo il regno di Tolomeo II.

Le teorie di formazione della traduzione della Septuaginta, sono due e diametralmente opposte.

La prima, formulata da Paul Kahle, sostiene che si formò nelle Sinagoghe come il Talmud, mettendo insieme diverse tradizioni distinte in un unica traduzione.

La seconda, sostenuta da Paul de Lagarde e Alfred Rahlfs, considera invece un’origine unitaria: la versione sarebbe dunque una compilazione originaria. Questa teoria trova conferma nei ritrovamenti di Qumran che testimonierebbero a favore della presenza consolidata della traduzione già in tempi antichi.

Successivamente vi furono però vari tentativi di riportare la traduzione al testo originale in senso letterale, come dimostrerebbe un rotolo dei 12 profeti minori ritrovato negli anni ’50 a Nachal Hever.

La Bibbia dei LXX, al di là di ogni considerazione, è uno strumento importante per l’approfondimento della teologia biblica, nonché dello studio delle varie forme di approccio e della storia dei libri biblici.

La natura e i compiti degli organismi ecclesiali

La natura e i compiti degli organismi ecclesiali

Il nuovo libro di Don Giuseppe Militello indica le funzioni degli uffici della Chiesa

Spesso parliamo di eventi e circostanze che riguardano il funzionamento strutturale della Chiesa, ma pochi scrittori hanno pensato di spiegare in termini semplici e sintetici in che cosa consistano i vari uffici ecclesiali, e quel è il loro scopo.

Ci ha pensato Don Giuseppe Militello, Parroco a Finale Ligure, prolifico scrittore in temi ecclesiologici e teologici, nonché docente di Ecclesiologia presso l’ISSRL aggregato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano.

Il libro, edito da Paoline, è stato voluto dall’autore in forma semplice, facilmente leggibile e molto scorrevole, e non si accontenta però «solo» di spiegare (e lo fa molto bene) le funzioni degli organismi, ma si preoccupa di trasmettere il significato e i motivi della loro esistenza, i quali vengono poi riassunti nella missione evangelizzatrice della Chiesa.

Questo legame forte tra istituzione e scopo, traspare in modo netto e Militello lo fa emergere in una logica stringente.

Ecco dunque che questa opera si colloca di diritto all’interno della disciplina ecclesiologica, ma strizza fortemente l’occhio a contenuti teologici e pastorali.

Si tratta di un libro da non perdere se si vuole essere edotti in materia di competenze, per evitare di fraintendere motivazioni e scelte della Chiesa, la quale opera sempre al fine di ottenere uno scopo congruo per la sua missione.

Giuseppe Militello, Natura e compiti degli organismi ecclesiastici. Le strutture a servizio della comunione. Edizioni Paoline, 2023. €. 10,00

Chiesa, annuncio e aggiornamento

Chiesa, annuncio e aggiornamento

Aggiornare non significa abbandonare la tradizione

La priorità massima della Chiesa e di ogni singolo battezzato è l’evangelizzazione. Il messaggio di Gesù è chiaro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

C’è dunque un’appartenenza a Dio con insita la partecipazione alla Comunione con Lui e con i fratelli, in cui anche i laici hanno parte.

Ciò che emerge dunque è la necessità di trovare il modo più incisivo di comunicazione, e questa deve essere una delle preoccupazioni più significative per il cristiano.

Già Papa Paolo VI ne aveva fatto oggetto della sua esortazione “Evangeli Nuntiandi”, e Papa Francesco è rimasto nella scia del suo santo predecessore con l’esortazione “Evangeli Gaudium”. Insieme questi due documenti magisteriali sanciscono la necessità e la gioia della evangelizzazione. L’espressione utilizzata dai due Pontefici è stata «confortante gioia di evangelizzare».

Il bisogno di annunciare e di essere chiari in ciò che si esprime si accompagna ad una difficoltà, che è quella del riferirsi in modo chiaro, intelleggibile e scevro da possibilità di equivoci, in un mondo che presenta diverse sfaccettature culturali e di apprendimento.

Ecco dunque l’obbligatorietà di un aggiornamento dei metodi e delle espressioni.

Spesso questa necessaria accezione viene accolta con diffidenza da chi intende in modo errato il significato di «tradizione».

La Traditio, ovvero la tradizione a cui si deve fare riferimento è esclusivamente quella apostolica. Con la morte dell’ultimo dei testimoni oculari del Cristo, che si ritiene a stretto rigore di logica e di risultanze storico-letterarie l’apostolo Giovanni, la Rivelazione si è chiusa definitivamente.

Sono passati da quel momento ormai più di 1900 anni, e nulla può e deve essere aggiunto. E nulla si è manifestato mai come papabile per un’aggiunta. E mai sarà.

Tutto ciò che è stato creato come riti, liturgia, pia manifestazione, preghiera, e altro, è stato di legittima competenza della Chiesa al fine di svolgere il mandato affidato da Cristo. Tutto quindi deve essere ricondotto ad una modalità che può essere legittimamente modificata. Ciò che invece deve restare immutato è il contenuto della Rivelazione, il quale può essere approfondito al fine di una migliore comprensione, ma assolutamente non cambiato nella sua forma essenziale.

Santa Messa in latino o in lingua locale, modalità di celebrazione, preghiere, e altri aspetti sono solo soggetti all’opportunità di una migliore trasmissione del kerygma, e non devo creare nostalgie di sorta, sane o malate, in quanto sono esclusivamente dei mezzi e degli strumenti.

L’aggiornamento dei mezzi diviene quindi non solo un’opzione, ma addirittura un obbligo se porta ad un miglioramento della comprensione della Parola.

Attaccarsi sentimentalmente a uno strumento può essere compreso sotto l’aspetto umano, ma deve essere un fatto da superare consapevolmente da parte di un cristiano maturo che ha veramente a cuore l’evangelizzazione.

I modo di supplire ai cambiamenti ci sono. Recuperare una spiritualità che si ritiene personalmente indebolita da una variazione di rito o di preghiera, può essere rimediata con la partecipazione sentita e spirituale alle celebrazioni, ma anche da una meditazione attenta di un qualsiasi brano della Bibbia.

Si tratta dunque di operare un salto culturale che rientra pienamente in ciò che Gesù ha affidato alla Chiesa, ovvero una dimensione di corresponsabilità volta al servizio della comunione e della missione.

A questo proposito la Chiesa si è incamminata in un percorso sinodale. Il Sinodo prevede una fase narrativa, con la quale si indaga sulla storia dell’evangelizzazione e dei suoi sistemi, a cui segue una fase sapienziale, per arrivare infine a quella profetica.

Il modello profetico non va inteso con l’accezione della preveggenza, ma su come venne inteso dal popolo ebraico: il profeta è colui che pone i binari per restare sulla strada del Signore, e interviene quando la direzione prende una via estranea al progetto di Dio.

L’obiettivo è quello di fondare una vera vita di comunità dando il giusto primato a Dio.

San Sebastiano, militare, tribuno e martire

San Sebastiano, militare, tribuno e martire

La storia di uno dei Santi protettori della Valle Arroscia

Nella Valle Arroscia è fervida la devozione a San Sebastiano, illustre martire. Vediamo quindi la sua storia che è ricca di fatti che non tutti conoscono.

Sebastiano nacque a Narbona nel 256, e fu cresciuto a Milano e avviato alla fede cristiana. Si trasferì poi a Roma e si arruolò nell’esercito romano.

Per le sue capacità divenne ufficiale e fu poi posto al servizio diretto dell’imperatore, entrando nell’ambito delle guardie predisposte alla sicurezza del monarca. Arrivò ad essere tribuno della prima corte pretoria, a stretto contatto con Diocleziano, il quale era molto ostile ai cristiani perché non volevano eseguire i sacrifici rituali a beneficio dell’imperatore.

In questa qualità proseguì a seguire coraggiosamente la sua fede in modo operoso, dando sepoltura ai martiri cristiani, sostenendo quelli incarcerati e diffondento il messaggio cristiano a corte.

Avvenne che furono arrestati due fratelli cristiani, Marco e Marcelliano, figli di tale Tranquillino. Il padre ottenne un rinvio dell’esecuzione della condanna a morte per poter convincere i figli a effettuare il rito sacrificale. Quando i due stavano per cedere, intervenne Sebastiano il quale li indusse a perseverare nella fede con un discorso così accorato e ispirato che rese radioso il suo volto. Sta di fatto che le persone presenti al suo sermone, come ad esempio Zoe col marito Nicostrato, che era capo della Cancelleria Imperiale, il cognato Castorio, Tranquillino, il prefetto romano Cromazio e suo figlio Tiburzio, Castulo e Marzia, si convertirono al Cristianesimo. In particolare Zoe divenne muta e riacquistò la parola solo dopo 6 mesi dopo che Sebastiano le toccò le labbra e la segnò col Segno della Croce. Tutti i presenti inoltre subirono successivamente il martirio piuttosto che rinnegare la Fede.

Quando Diocleziano scoprì che Sebastiano era cristiano lo condannò a morte: fu legato a un palo e fu sottoposto al lancio di frecce da parte dei suoi commilitoni.

Creduto morto, il corpo di Sebastiano fu lasciato legato al palo affinché fosse cibo per le fiere. Ma Santa Irene lo recuperò e scoprendolo ancora vivo lo ricoverò a casa sua sul Palatino.

Guarito prodigiosamente, Sebastiano si recò con coraggio da Diocleziano mentre questo stava celebrando le funzioni in omaggio al Sol Invictus, e lo rimproverò pubblicamente.

Diocleziano allora lo condannò nuovamente attraverso flagellazione sui gradini di Elagabalo (gradus Helagabali) fino al giungere della morte (20 gennaio 288), e fece gettare poi il corpo nella Cloaca Maxima, ovvero nella fogna romana. Il corpo però che fu trasportato verso il Tevere si impigliò nei pressi della Chiesa di San Giorgio al Velabro. Fu recuperato da Lucina, una matrona romana cristiana, la quale lo fece portare nelle catacombe che ora portano il nome del Santo, sulla Via Appia. 

Il nome di San Sebastiano figura nella Depositio martyrum, ovvero il più antico calendario della Chiesa di Roma, che risale al 354.

San Sebastiano è venerato dalla Chiesa Cattolica e dalla Chiesa Ortodossa. La sua ricorrenza cade in corrispondenza della data della sua morte, il 20 gennaio.

L’amore di Dio è superiore anche al male più disgustoso

L'amore di Dio è superiore anche al male più disgustoso

Gesù ci ha dato prova di quanto il bene sia invincibile contro ogni male

«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Dalla liturgia).

In questo episodio un lebbroso si avvicina a Gesù. Il lebbroso in Israele (come in tutto il mondo antico) era doppiamente malato: fisicamente, perché la lebbra consuma e deturpa la carne, socialmente, perché il malato di lebbra, per evitare di contagiare altri, era obbligato a vivere lontano dalla comunità, isolato da tutti gli altri uomini: doveva vestire abiti strappati, tenere il volto coperto, e, nel camminare, annunciare la sua condizione gridando: «impuro, impuro», in modo da essere evitato da chiunque si trovasse nelle vicinanze. Una condizione davvero penosa.

La lebbra sfigura la persona, gli fa perdere persino il suo aspetto, e lo allontana dalla comunità degli uomini. Per questi motivi i Padri della Chiesa hanno visto nella lebbra una immagine del peccato: il peccato deturpa la persona, gli fa perdere la somiglianza con Dio, con cui era stata creato, e rovina i rapporti con Dio, con se stesso e con gli altri uomini.

Nell’azione di Gesù c’è, in piccolo, tutta la storia della salvezza. Gesù si avvicina al lebbroso e, sfidando il divieto della legge e il contagio del male, lo tocca. Non lo fa per negare il male e la sua forza negativa, per negare che il male sia male, ma lo fa per dimostrare che l’amore di Dio è più forte di ogni male, che l’amore di Dio può risanarci da ogni male, anche il più disgustoso.

Maria Santissima, arca dell’alleanza

Maria Santissima, arca dell'alleanza

Perché la Santa Vergine è invocata con questo titolo

Tra le invocazioni che rivolgiamo alla Madre di Dio, Maria Santissima, troviamo anche l’appellativo di «arca dell’alleanza».

Il motivo è semplice da dedurre: si tratta di colei che ha accolto in sé la divinità, il Logos.

Non tutti però ricordano che c’è un’anticipazione antica nel libro dell’Esodo e precisamente nel capitolo 40, quello conclusivo.

Dopo aver adempiuto correttamente a quanto Dio aveva comandato, di Mosè è scritto che «terminò il lavoro».

Questo sta a significare che da quel momento sul «lavoro» compiuto da Mosè sarebbe intervenuto Dio stesso.

L’arca dell’alleanza, o meglio, come è scritto sul testo ebraico, l’arca della testimonianza, venne collocata all’interno della tenda del convegno, ovvero nel luogo in cui avrebbe dimorato il Signore durante gli spostamenti nel Sinai.

Il libro dell’esodo ci riferisce che una colonna di fumo precedeva gli ebrei nel cammino, e durante le soste, una nube copriva la tenda rendendola inaccessibile agli uomini.

Se ci pensiamo, anche nell’Annunciazione abbiamo questa immagine. L’arcangelo Gabriele nel rispondere alla domanda di Maria di come potesse avvenire il suo concepimento verginale, risponde che «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo» (Lc 1,35).

Questa analogia non è un caso ma la vera profezia annunciata nel libro dell’Esodo riguardo a Maria Santissima, che è arca che ha custodito Dio.

Farisei? Lo siamo quando chiudiamo il cuore

Farisei? Lo sLo siamo quando chiudiamo il cuore

Gesù disse : “Fate ciò che dicono, ma non fate ciò che fanno”.

Nel parlare ai farisei della sua epoca, Gesù intendeva rivolgersi a tutti gli uomini.

Sappiamo chi erano i farisei: gente molto osservante, austera scrupolosa, che era certa di fare nulla di male e contro le Scritture.

Purtroppo questo atteggiamento è comune anche ai nostri giorni, con cristiani che dicono: «Io non rubo, non uccido, quindi sono un a brava persona e non ho bisogno della Chiesa».

Questo è un modo di pensare che addirittura è peggiore di quello dei farisei, che almeno osservavano i precetti. Si crea dunque una sorta di moderno fariseismo, che rifiuta anche la forma, oltre che la sostanza, lasciando viva solo l’apparenza.

Ma nelle parole di Gesù ci sono significati ancora più profondi che accusano l’ipocrisia.

I farisei erano duri con i peccatori, non tolleravano alcuna mancanza, ed erano molto propensi (forti della convinzione di essere buoni) che non vedevano neppure «la trave» nei loro stessi occhi.

Siamo così anche noi quando confondiamo la misericordia con la condanna del peccato.

La realtà cristiana prevede che il peccato sia sempre condannato, ma occorre essere misericordiosi col peccatore. Gesù ha infatti detto chiaramente che non spetta a noi separare la zizzania dal grano. Non usando misericordia nei confronti dei peccatori noi compiamo il peccato più grande: metterci al posto di Dio Giudice, ripetendo il peccato originale.

Non spetta a noi giudicare per non essere a nostra volta giudicati. Saremo giudicati col nostro metro: siamo noi stessi a chiederlo a Dio tutte le volte che recitiamo il Padre Nostro («… rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori …»).

Le regole vanno osservate: i Sacramenti si ricevono in stato di grazia. Ma il giudizio sul peccatore spetta solo a Dio.

Ecco perché Gesù avvisa spesso i farisei e noi allo stesso tempo: non siate sepolcri imbiancati e usate misericordia.

Perché il Natale è festeggiato il 25 dicembre?

Perché il Natale è festeggiato il 25 dicembre?

Una data che ha anche una tradizione pagana

Oggi a parlare di «inculturazione» si rischia di non essere compresi, perché ci si scandalizza quando si cerca di far crescere una persona portandola gradualmente ad una scoperta di Fede.

Mi riferisco a tutti quelli che per scarsa conoscenza strumentalizzano le note «preghiere» alla Patchamama.

Anticamente l’inculturazione era uno dei mezzi usati più frequentemente, ed era, come oggi, considerato uno strumento intelligente.

Il 25 dicembre era una data che rappresentava per la società romana un giorno importante sia dal punto di vista religioso che da quello civile.

Va ricordato infatti che la «religione» dei Romani, era molto utilitaristica. Non si pretendeva che si credesse negli dei, ma era sufficiente praticare i riti per non farli arrabbiare, allo scopo unico di proteggere Roma.

I Romani, verso la fine di quello che oggi noi chiamiamo dicembre, festeggiavano i Saturnali, ovvero i giorni dedicati al Sol Invictus, il Sole invincibile. Nello specifico, il 25 dicembre, proprio nel cuore delle festività, era detto Dies Natalis Sol Invictus.

Era di fatto l’immagine del Dio che con la sua apparizione e la sua luce sfolgorante vince le tenebre.

Questo significato fu assunto dai Cristiani, i quali comprendevano tra le tenebre anche le divinità pagane. Non vi era quindi alcuna difficoltà nel sostituire la festa pagana e dargli un significato cristiano che spiegasse una delle funzioni del Cristo, ovvero l’illuminazione delle genti.

Questa «sostituzione» avvenne in modo praticamente automatico: si trattava infatti del festeggiamento della nascita del Dio che illumina. Non vi fu quindi alcun documento ad attestarlo, e di preciso non si sa neppure esattamente quando il 25 dicembre divenne una festa «completamente» cristiana.

Benedetto XVI, durante un’udienza disse: «Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma, nel suo commento al Libro del profeta Daniele, scritto verso il 204».

Prima di allora si è sempre fatto riferimento unicamente al documento «Cronografo del 354» dal quale si desume che la nascita di Cristo fosse festeggiata già prima del 336.

Si è trattato dunque di un’acquisizione graduale che è sempre stata considerata simbolica.

È curioso però constatare che dagli incroci delle risultanze dei documenti antichi, alcuni studiosi non escludano che in effetti gli eventi evangelici della nascita di Gesù di Nazareth possano essere accaduti proprio verso la fine di dicembre.

La collocazione del giorno della nascita di Cristo non è però oggetto di fede e resta una magnifica attestazione di significato. Non a caso la data del Natale è considerato una giornata di felicità e augurio di pace per ogni cultura.