Mitzvót: i 613 precetti

Mitzvót: i 613 precetti

Le regole del fare e non fare nell’ebraismo ortodosso.

Il Talmud spiega che la Torah contiene 613 precetti ai quali i fedeli devono attenersi per svolgere il proprio ruolo nel creato.

Sono i Mitzvot (מצוות), ovvero due serie di indicazioni obbligatorie che si suddividono in proibizioni e obblighi.

Il numero così ampio viene collegato dal valore numerico (Ghematriah) del termine «Torah» che è pari a 611, a cui vanno aggiunti i primi due comandamenti, nei quali Dio parla in prima persona, arrivando così al num ero totale di 613.

Ma anche questa somma viene fatta risalire a un significato di fondo: sarebbe la somma tra 365 (i giorni massimi che si raggiungono in un anno) e 248, che sarebbe il numero delle componenti del corpo umano.

Si tratta però di un numero e di una serie di regole che nasce dall’influsso di Mosè Maimonide, filosofo e talmudista vissuto a cavallo tra il XII e il XIII secolo, ma che è accettata dalla maggior parte delle scuole rabbiniche, pur non essendo vincolante. Alcuni rabbini propongono infatti liberamente altri numeri.

Tra i mitzvót ne troviamo molte che risultano interessanti ai fini di approfondimenti. Per esempio al n° 173 troviamo l’obbligo a eleggere un re d’Israele una volta radunate le dodici tribù.

La prima regola è «credi nell’esistenza del Signore», ma la lista prosegue con molte altre indicazioni vincolanti, come il rispetto per i forestieri, il non ricorrere alla vendetta, non serbare rancore. Seguono anche proibizioni relative alla consultazione di indovini e alla costruzione e adorazione di idoli: a questo proposito al n° 53 è previsto l’obbligo di distruggerli con i loro accessori, qualora se ne incontrassero Al bando sono anche medium, negromanti e magia in genere.

All’interno dei mitzvót troviamo anche obblighi e proibizioni che hanno a che fare con l’estetica: non tagliare i capelli ai lati della testa (per questo incontriamo ebrei ortodossi con lunghi riccioli che partono da sopra le orecchie), non radere gli angoli della barba con una lama, non tatuarsi, non vestirsi da donna (per gli uomini), non vestirsi da uomo (per le donne).

Ogni ebreo dovrebbe esporre un Mezuzah (מזוזה = stipite), che è un contenitore a cilindro che contiene le prime due parti dello Shemà in pergamena, sulla porta di casa.

Non manca l’obbligo di non lavorare e riposarsi il sabato, il primo e settimo giorno di Pesach (Pasqua) e praticamente in tutti i giorni in cui ricorrono le feste ebraiche (shavuot, kippur, ros haShana, ecc.). Nei sette giorni dello Sukot si dovrebbe obbligatoriamente vivere in una capanna.

Ci sono anche regole che sono comprensibili soltanto nel contesto antico e negli usi del tempo arcaico, come ad esempio quella di non ripudiare la donna che hai costretto a sposarti, o l’obbligo della vedova senza a risposarsi fino alla risoluzione dei rapporti col fratello del marito.

Tra il n° 139 e il 154 c’è l’elenco dei rapporti incestuali da evitare, seguono i divieti a rapporti sessuali con le bestie.

Il divieto di rapporti omosessuali si trova al punto 157, e il 158 specifica il divieto di rapporto omosessuale col proprio padre.

I divieti relativi al cibo sono specifici e si arriva a proibire di cibarsi della buccia dell’uva, dei suoi semi, dell’uva fresca e dell’uva passa.

Citiamo ancora obblighi e proibizioni relativi alle impurità, che sono veramente a 360° comprendendo anche il contatto con i cadaveri.

Essere cristiani significa aderire a uno stile di vita e di pensiero

Essere cristiani significa aderire a uno stile di vita e di pensiero

Non chi dice “Signore, Signore”

Avete inteso che fu detto: «Amerai il tuo prossimo, e odierai il tuo nemico». Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli.
(Dalla liturgia)

Se essere cristiani non incide sul nostro modo di pensare e di agire, è perfettamente inutile essere cristiani.

Se la nostra fede non fa sì che noi pensiamo ed agiamo in modo diverso da chi cristiano non è, significa che non abbiamo fede.

La fede ci deve spingere ad agire, a fare quello che se non avessimo fede non faremmo. La fede senza le opere è morta, ci dice la Lettera di San Giacomo.

Quando un cristiano, e ancor più chi ha una qualche autorità nella Chiesa, sui grandi temi della vita (si pensi per esempio all’esercizio della sessualità, alla difesa della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, alla difesa della vita dal concepimento alla morte naturale) pensa, parla e agisce abitualmente come chi cristiano non è, dovrebbe seriamente interrogarsi sulla consistenza della propria fede.

I manoscritti di Qumran

I manoscritti di Qumran

Di cosa si tratta e perché sono importanti

Nel 1947, secondo una ricostruzione, un giovane beduino, Muhàmmad ed-Dib (Maometto il Lupo), che appartenenva a una tribù Taamira che dalla Transgiordania si recava a Betlemme per motivi di commercio, inseguendo una capra, tirò un sasso in una delle molte caverne che si trovano in quei luoghi. La zona è quella della sorgente di Faschcha, nel Wadi Qumran.

Il sasso impatta in un oggetto di terracotta e il ragazzo sente il rumore della rottura, e incuriosito si addentra con un amico nella grotta che sarà successivamente classificata come 1Q: uno – Qumran.

Lo spettacolo che si presenta è d’altri tempi: appare una serie di giare cilindriche, con coperchio, e allineate in modo ordinato. Alcune sono infrante, altre rovesciate, ma tutte contenevano dei pacchi avvolti nel lino e ricoperti di pece o cera. Ogni pacco conteneva un rotolo manoscritto antichissimo.

Tra il 1947 e il 1955 furono ritrovati rotoli anche in molte grotte adiacenti, per un totale di circa 900 manoscritti che vengono fatti risalire al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

Si tratta di documenti che secondo gli esperti sono stati raccolti e alcuni anche scritti da una comunità essena che si sarebbe rifugiata a Qumran per protesta per l’elezione di un Sommo Sacerdote ebraico maccabeo (asmoneo) e quindi non saddocita. Questi documenti sono i testimoni originali più antichi dell’Antico Testamento: finora si faceva riferimento in questo senso al Codice di Leningrado che risalirebbe al X secolo d.C.

I testi possono essere così suddivisi:

  • Biblici (testi dei libri della Bibbia)
  • Halakici (da Halakà = Bibbia orale – interpretativi dell’Antico Testamento)
  • Escatologici (esempio: Rotolo della Guerra)
  • Pesharim (da Pesher = interpretazione attualizzata)
  • Inni poetici e preghiere
  • Letteratura enochica
  • Testi astronomici

I manoscritti biblici sono circa 200 e riguardano tutta l’Antico Testamento escluso il Libro di Ester.

Nello specifico abbiamo:

  • 39 manoscritti di Salmi
  • 31 del Deuteronomio
  • 22 di Isaia
  • 18 di Genesi e Esodo
  • 17 del Levitico

La maggior parte dei documenti sono in pergamena, solo pochi sono in papiro.

Oltre all’aspetto archeologico i documenti testimoniano la definizione dei testi biblici in epoca pre-cristiana, ma forniscono anche informazioni sugli studi e sul pensiero teologico dell’epoca.

Dalla lettura di alcuni testi settari (quindi scritti dagli appartenenti alla comunità essena, quali il rotolo 1QS, detto “Regole della Comunità”) affiora una visione dell’ingresso del male sulla terra che si lega a quella del Libro di Enoc e del Libro dei Giubilei, indicando chiaramente un dibattito in corso.

Dagli scritti emerge che la comunità di Qumran era predeterminista: si sarebbe salvato chi fosse entrato nella setta. Gli esseni di Qumran definivano se stessi “figli della luce” ed erano in lotta contro i “figli delle tenebre” o “della menzogna”.

Il demonio era prevalentemente indicato col nome di Belial.

Secondo Gabriele Bocaccini la comunità di Qumran era costituiota da un gruppo che si era staccato perché apocalittico.

Da notare che nel 31 a.C. vi fu un terremoto nella zona, che fu abbandonata per un breve periodo. Nel 68 d.C. la comunità cessò di esistere per la guerra che portò i Romani alla conquista di Gerusalemme nel 70 d.C.

I manoscritti di Qumran sono attualmente al centro di molti studi e costituiscono una miniera di informazioni.

Lo Spirito Santo è Verità a cui nulla va tolto né modificato

Lo Spirito Santo è Verità a cui nulla va tolto né modificato

Gesù ci indica la pienezza del Dio Uno e Trino

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future
».
(Dalla liturgia).

«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità». Lo Spirito Santo ci guida alla verità, e specifica Gesù: «a tutta la verità».

La verità non può essere parziale, cioè dalla verità che Dio ci ha rivelato non si può togliere o modificare nulla, pena il perdere tutto.

Le eresie, che hanno turbato la vita della Chiesa sin dai primi tempi della sua esistenza fino ai nostri giorni, hanno questo di specifico: togliere o modificare qualche aspetto, anche apparentemente minuscolo o insignificante, di ciò che la rivelazione ci ha trasmesso.

L’insegnamento di Gesù è efficace, rende migliore la nostra vita e ci giova per la vita eterna, se lo accogliamo così com’è, senza aggiungere, togliere o modificare nulla. Altrimenti è qualcosa di inutile, quando non dannoso.

Entra in carica il nuovo Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici

Entra in carica il nuovo Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici

L’organismo parrocchiale nelle piene funzioni

Il Vicario Generale Don Bruno Scarpino, ha firmato il decreto che ufficializza nelle sue funzioni il nuovo Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici della Parrocchia dei Santi Nazario e Celso a Mendatica.

Il Vescovo ha accolto l’elenco dei membri proposto dal nostro Amministratore Parrocchiale Don Luciano.

Ecco i nomi dei componenti, in ordine alfabetico per cognome:

Nadia Bottero

Angelo Ferrari

Roberto Grasso

Simona Pelassa

Ornella Porro

Il CPAE è un organo consultivo a cui l’Amministratore Parrocchiale si rivolge per avere supporto nello svolgimento delle questioni economiche relative alla vita parrocchiale, e soggiace ovviamente alle esigenze pastorali, che a norma dei regolamenti centrali hanno la preminenza assoluta.

Le nomine ufficiali sono state consegnate durante la Santa Messa del 28 aprile.

La comunità parrocchiale di Mendatica si stringe attorno ai consiglieri e formula i più sinceri auguri affinché possano svolgere l’incarico con tutta la competenza di cui dispongono a beneficio di tutti.

Nasce la Commissione Parrocchiale per l’Arte Sacra

Nasce la Commissione Parrocchiale per la Cultura

Nominati da Don Luciano i componenti: i nomi

Domenica 14 aprile Don Luciano ha annunciato i membri della nuova commissione istituita nella nostra Parrocchia, che si occuperà di cultura in ambito di Arte Sacra e della conservazione dei beni artistici e culturali in dotazione alla comunità parrocchiale.

Don Luciano, che presta la sua opera presso l’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi di Albenga-Imperia, ha istituito questo organismo anche per tenere vive le antiche tradizioni di Mendatica, nonché per proteggere e divulgare il patrimonio di beni e ricordi che abbiamo ricevuto attraverso i secoli.

I membri della Commissione, annunciati al termine della Santa Messa di domenica scorsa, in ordine alfabetico per cognome, sono:

Celestino Lanteri, Emidia Lantrua e Paolo Ramella.

Si tratta della prima commissione di nuova nomina a cui, a detta del parroco, seguiranno altre.

Ai componenti vanno la preghiera, i complimenti e i ringraziamenti anticipati per il lavoro che svolgeranno, da parte di tutta la nostra comunità.

Mendatica, e in particolare la Parrocchia dei Santi Nazario e Celso, possiede un immenso patrimonio culturale, a partire e soprattutto nella sua storia e nella forte dedizione che chi ci ha preceduto ha voluto tramandare, anche con grande sacrificio e esperienza.

I membri della Commissione hanno tutti i requisiti per poter provvedere alla divulgazione, ma anche alla riscoperta dei valori che hanno caratterizzato il paese, il quale costituisce un antico insediamento che ha fortemente delineato l’attaccamento al territorio e alle inclinazioni cristiane della zona.

Storia, vicende, simboli, usi, costumi, devozioni, si accompagnano ai segni tangibili e materiali che la commissione saprà conservare, rinverdire e divulgare nei loro significati.

È in corso fra l’altro un censimento e verifica dei beni parrocchiali, anche quelli siti nelle Cappelle di competenza.

Buon lavoro e grazie, quindi, a Celestino, Emidia e Paolo, che con il loro impegno svolgeranno un compito fondamentale nella pastorale e nella crescit e formazione personale di ognuno di noi.

I manoscritti di Qumran: cosa sono e perché sono importanti

I manoscritti di Qumran: cosa sono e perché sono importanti

Ritrovati nel 1947, risalgono al periodo dal II sec. a.C al 70 d.C.

Il nome di Qumran e spesso ripetuto nella cronaca in ambito di paleografia e studio dell’antichità, specialmente in ambito storico-religioso.

Vediamo però di cosa si parla con esattezza.

Nel 1947 e fino al 1956, nel Wadi-Qumran, furono ritrovati in 11 differenti grotte circa ben 900 documenti che riguardano prevalentemente la Bibbia ebraica.

Il luogo, che si trova sulla riva nord-occidentale del Mar Morto, in Cisgiordania, nelle adiacenze dell’antico insediamento di Khirbet Qumran, deve il suo nome anche alle condizioni ambientali. «Wadi» nelle lingue arabe indica una valle in cui scorreva un antico corso di fiume, che allo stato attuale risulta secco e potrebbe rinvigorirsi solo con abbondanti piogge.

È dunque un territorio desertico e arido, in cui le piogge fanno apparizione solo a lunghissimi intervalli di anni.

Circa 2000 anni fa, la zona era climaticamente meno ostile e fu sede di comunità di esseni, gruppo semita che viveva in modalità monacale. Erano assidui studiosi delle Sacre Scritture.

I manoscritti possono essere classificati in tre grandi categorie:

  • Manoscritti biblici (copie dei libri della Bibbia ebraica): circa il 40%.
  • Manoscritti pseudo-epigrafici o apocrifi: circa il 30%.
  • Manoscritti «settari»: circa il 30%.

I documenti pseudo-epigrafici o classificati come apocrifi, sono quelli che non sono stati introdotti nel canone ebraico, ma alcuni di essi accettati dalla Bibbia dei Settanta o utilizzati dalla tradizione rabbinica (per esempio: Libro del Siracide, Libro di Enoch, Libro dei Giubilei, Libro di Tobia,, salmi esclusi dal canone)

Per «settari» si intendono invece gli scritti relativi a quelle credenze e regole praticate da gruppi minoritari della antica comunità ebraica, come erano gli esseni stessi.

L’importanza di questi documenti è enorme soprattutto perché consentono una maggiore precisione nell’ambito della critica testuale. Se si pensa infatti che i documenti più antichi sui quali si basava la ricerca sulla Bibbia in ebraico erano quelli masoretici, e in particolare il Codice di Leningrado del X secolo, e quelli in greco sono tuttora il Codice Vaticano e il Codice Sinaitico risalenti al IV secolo, si ha la misura di quanto possono essere utili.

I frammenti ritrovati riguardano quasi tutti i libri compresi nel codice masoretico, e contribuiscono quindi a dare una visione di insieme fondamentale.

In alcuni manoscritti si trovano alcuni principi morali e etici che sono stati ripresi dalle lettere paoline e che quindi si armonizzano con la mentalità dell’epoca.

Attraverso differenti sistemi di datazione, tra cui quello paleografico e in alcuni casi anche con radiocarbonio e spettrometria di massa, si è determinata l’epoca di composizione tra il 250 a.C. e il 68/70 d.C., quest’ultima fu la data della distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme da parte dei Romani. I periodi paleografici coperti sono dunque l’Arcaico, l’Asmoneo e l’Erodiano.

I documenti, che di fatto si propongono come una ricca miniera di informazioni, sono ancora oggetto di studio e del vaglio degli esperti.

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu un grido di speranza

Gesù sulla croce non dubitò del Padre, come la frase potrebbe farci pensare

Sia Marco che Matteo riportano la frase pronunciata da Gesù quando sulla croce la vita stava per lasciarlo: «Eloì, Eloi, lamà sabachtani» («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»).

Ci sono alcune note che sembrano stonate nei brani evangelici che narrano queste vicende. La prima e che gli ebrei più vicini al luogo del martirio pensarono che stesse invocando Elia per essere soccorso, mentre la seconda risiede nella perplessità che il Figlio di Dio potesse mettere in dubbio la vicinanza del Padre in quel momento tragico.

Vediamo allora di dare le risposte a queste perplessità.

In realtà la frase che Gesù urlò fa parte dell’incipit del Salmo 21, il canto del servo giusto sofferente. Era usanza infatti recitare a voce alta le primissime righe dei salmi, per poi proseguire a bassa voce.

Gesù recitò quindi il Salmo 21, che termina in una profonda coscienza di fiducia in Dio, nonostante le prove siano faticose e sembrino insostenibili, proprio per evidenziare la sua missione di servo sofferente annunciata da Isaia.

Al tempo, nell’attuale Palestina, le lingue parlate erano quattro: il Greco (lingua dei dotti e della cultura), il Latino (idioma dei dominatori, e dunque lingua giuridica e delle istituzioni), l’Ebraico (utilizzato esclusivamente nei riti e nelle funzioni religiose) e l’Aramaico, la lingua corrente entrata nel popolo dopo la deportazione a Babilonia e il ritorno in patria circa 70 anni più tardi.

La frase (אלהי אלהי למה שבקתני = Eloì, Eloì, lamà sabachtani) è in aramaico «ebraicizzato», e ne abbiamo la prova perché «lamà» col significato di «perché» veniva utilizzato solo nell’Aramaico parlato nell’attuale Terrasanta.

Le prime due parole («Eloì, Eloì» – oppure «Elì, Elì» secondo Matteo), indicano indiscutibilmente un dei modi con cui gli ebrei indicavano Dio, ovvero Elohim. Gli altri due erano «Adonai» (letteralmente: «Signore») o il tetragramma sacro che però era impronunciabile per religione. Pronunciando la frase in Aramaico, Gesù la rese diversa da quella in ebraico che veniva ripetuta nelle Sinagoghe, per cui la confusione, la somiglianza con il nome di Elia, e la rimembranza che il Messia sarebbe stato preceduto dal ritorno del profeta, generarono il dubbio.

Dunque la frase fu opportuna al Cristo per confermare la sua fiducia nei confronti del Padre (altra persona della Trinità insieme a Lui stesso e allo Spirito Santo), ma anche a ricordarci, attraverso la cattiva interpretazione degli Ebrei presenti, che il profeta che precedette il Messia era Giovanni il Battista, novello Elia.

Scienza e Fede, l’eterno dibattito

Scienza e Fede, l'eterno dibattito

Filosofia e Metafisica intervengono nel dialogo

Del rapporto tra Scienza e Fede si sono occupati praticamente tutti i Papi nonché i maggiori scienziati e pensatori. Alcuni ricercatori scientifici hanno liquidato l’argomento fermandosi in superficie e definendo incompatibili i due mondi. La maggior parte però ha affrontato la questione arrivando a conclusioni spesso diversificate.

Una risposta circa la compatibilità richiede un’analisi abbastanza articolata e tira in campo altre due importanti discipline, ovvero Filosofia e Metafisica.

Nell’Antichità la Filosofia era definita dapprima l’unica scienza, per poi essere ritenuta la «vera» scienza. L’uomo cercava di raggiungere la piena consapevolezza della propria essenza iniziando a comprendere di avere capacità diverse rispetto a tutti gli altri esseri viventi. La capacità di pensare è infatti di tutti gli esseri, ma quella di riflettere è propria dell’uomo.

La Filosofia, ovvero philia e sophia, amore per la conoscenza, non poteva che assurgere in qualità di scienza.

Con il mondo moderno si affermò invece un affidamento cieco solo a quanto potesse essere dimostrato, attraverso misurazioni e ripetizioni in laboratorio del fenomeno osservato: nacque il metodo empirico.

Da allora l’etichetta di scienza è stata esclusivamente applicata a quelle discipline che rispondevano ai canoni della sperimentazione.

Questo pensiero è stato esasperato fino a generare il fenomeno dello scientismo, cioè quella scuola di pensiero che ritiene la scienza infallibile, elevandola in sostanza a divinità.

Il metodo empirico ha fatto in modo da far credere che il termine «scientifico» possa essere usato esclusivamente per alcune discipline quali Fisica, Matematica, Chimica e poche altre.

Restavano dunque, a rigore di logica, escluse alcune altre discipline le quali devono affidarsi esclusivamente alle deduzioni, quali Medicina (almeno nella Diagnostica), Psicologia, Psichiatria, e tutte le scienze umane o umanistiche.

Il sistema denunciava quindi delle lacune che furono colmate con l’avvento della Fisica Quantistica e dal pensiero di diversi filosofi contemporanei, il cui capofila può essere ritenuto Karl Popper.

La Fisica Quantistica ha messo in crisi il metodo empirico evidenziando aspetti della natura, nella fattispecie delle particelle chiamate quanti, che di fatto non possono essere misurate e neppure localizzate in modo stabile. Cadde dunque la possibilità di avere una prova empirica e di conseguenza tutto viene ridotto a teoria.

Popper individuò una ulteriore insufficienza nel sistema empirico, che si può sintetizzare con il famoso esempio dei cigni: se vediamo solo cigni bianchi, non possiamo asserire con certezza che tutti i cigni siano bianchi: basterebbe incontrare un cigno nero e la teoria verrebbe smentita. Si tratta della constatazione che l’uomo non può vedere o sapere tutto quanto esiste in natura, e deve dunque sempre lasciare la porta aperta ad una eventuale prova contraria. Popper diede a questo principio il nome di «Falsificabilità». Diviene dunque scientifico ciò che è falsificabile dall’esperienza.

Queste riflessioni aprono il campo all’importanza della Metafisica. Essa è attaccata in modo feroce dagli scientisti, i quali vorrebbero che fosse addirittura abolita.

Escludere la Metafisica, però, significa mutilare in modo irreparabile le potenzialità intellettive umane. Se la Fisica indaga infatti su ciò che è nell’universo, la Metafisica ci invita a scrutare con la nostra capacità di riflessione anche a quello che potrebbe esistere seguendo una logica stringente. Troviamo dunque anche qui l’ammissione che l’uomo non conosce ancora tutte le leggi dell’universo.

Nell’ambito di queste considerazioni prende corpo l’importanza della Teologia e delle Scienze Religiose. Sono gli strumenti indispensabili per avvicinare la scienza e la fede attraverso una ricerca che può a buona ragione ritenersi scientifica.

Teologia e Scienze Religiose si appoggiano a tutte le altre scienze, comprese quelle che fino a ieri erano ritenute «la sola scienza», ma che oggi possono correttamente definirsi «scienze esatte» perché confermate in modo empirico.

Ecco dunque che scienza e fede divengono complementari perché la prima cerca di spiegare come avvengono i fenomeni, e la seconda indaga sul perché avvengono.

La ricerca del «come» e quella del «perché» non possono essere ritenute incompatibili, ma assolutamente entrambe necessarie se si ha la buona fede di ricercare la Verità.

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Secondo la Lettera di Aristea, questa versione fu prodotta da 72 rabbini

La Bibbia detta «Septuaginta», o come più spesso viene ricordata, la Bibbia dei 70, è una versione tradotta in greco dell’Antico Testamento dall’ebraico.

Si tratta di una versione importante, e ancora oggi è liturgica per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca.

Il riferimento storico, oggi oggetto di valutazione, è un documento, la «Lettera di Aristea», citato dallo storico Giuseppe Flavio, inviata da Aristea, sedicente praticante la religione olimpica, a suo fratello Filocrate.

Aristea si dichiara anche appartenente alla corte di Tolomeo II Filadelfo, della dinastia dei Tolomei di chiara origine ellenica e dunque ellenista, che fu faraone d’Egitto dal 281 al 246 a.C.

La lettera riporta che Tolomeo II, visto il crescere della popolazione ebraica nel suo regno, fu consigliato di indagare e prendere conoscenza della religione praticata dagli ebrei.

La Bibbia dei LXX non è l’unica versione in greco che viene tenuta in considerazione dagli studiosi, ma ad essa si aggiungono le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione, che sono fra l’altro citate da Origene nel suo Exapla. La Bibbia dei Settanta è però molto spesso indicata come OG, ovvero Old Greek, riconoscendone l’antichità.

Secondo la Lettera di Aristea, dunque, Tolomeo II chiamò i rabbini più autorevoli di Gerusalemme affinché producessero una traduzione in Greco. Da Gerusalemme partirono verso Alessandria 72 rabbini, 6 per ognuna delle 12 tribù di Israele.

In Egitto i 72 rabbini provvidero a tradurre una versione a testa in lingua greca, che miracolosamente non differivano l’una dall’altra neppure di una virgola.

Storicamente si ritiene che il lavoro di traduzione durò dal 250 a.C circa fino addirittura al I secolo dopo Cristo.

Nella Bibbia dei LXX troviamo delle interpretazioni che si staccano dalla semplice traduzione letterale di alcune parti del testo ebraico. I rabbini di Gerusalemme volevano probabilmente rendere esplicite le riflessioni teologiche che avrebbero potuto essere ostiche alla comprensione egiziana e greca. Di fatto quindi, l’esigenza di una ricerca al testo originale fu presto avvertita.

Nei secoli successivi si è arrivati a formulare due teorie circa la composizione della Bibbia dei Settanta, che hanno preso in considerazione esclusivamente le risultanze storiche certe, tanto più che la Lettera di Aristea è stata col tempo considerata epigrafica: si parla infatti di pseudo-Aristea.

L’indagine sul documento attribuito a Aristea ha subito una svolta importante con la ricerca effettuata da Luis Vives (filosofo e umanista spagnolo nato nel 1493 e deceduto nel 1540), e da Humprey Hody (teologo, 1659-1707), i quali dimostrarono che La Lettera di Aristea fu scritta da un ebreo alessandrino tra il 170 e il 130 a.C. e dunque da 80 a 120 anni dopo il regno di Tolomeo II.

Le teorie di formazione della traduzione della Septuaginta, sono due e diametralmente opposte.

La prima, formulata da Paul Kahle, sostiene che si formò nelle Sinagoghe come il Talmud, mettendo insieme diverse tradizioni distinte in un unica traduzione.

La seconda, sostenuta da Paul de Lagarde e Alfred Rahlfs, considera invece un’origine unitaria: la versione sarebbe dunque una compilazione originaria. Questa teoria trova conferma nei ritrovamenti di Qumran che testimonierebbero a favore della presenza consolidata della traduzione già in tempi antichi.

Successivamente vi furono però vari tentativi di riportare la traduzione al testo originale in senso letterale, come dimostrerebbe un rotolo dei 12 profeti minori ritrovato negli anni ’50 a Nachal Hever.

La Bibbia dei LXX, al di là di ogni considerazione, è uno strumento importante per l’approfondimento della teologia biblica, nonché dello studio delle varie forme di approccio e della storia dei libri biblici.