La Santa Messa della XXXIII domenica del Tempo Ordinario, prevista per domani, è
ANTICIPATA A OGGI, sabato 16 novembre, alle ore 17.00, per indisposizione momentanea di Don Luciano, e sarà celebrata dal Vicario Foraneo Don Enrico Giovannini.
La Santa Messa della XXXIII domenica del Tempo Ordinario, prevista per domani, è
ANTICIPATA A OGGI, sabato 16 novembre, alle ore 17.00, per indisposizione momentanea di Don Luciano, e sarà celebrata dal Vicario Foraneo Don Enrico Giovannini.
Lo scriba che interpella Gesù aveva percepito che le pratiche rituali non sono sufficienti da sole a portare l’uomo verso Dio nel modo in cui il Padre vuole. Si fa dunque scrupolo di chiedere a Gesù, che riconosce come Maestro, quale sia la cosa più importante, ovvero il Comandamento più rilevante.
La risposta di Gesù è chiara e indica la stretta attinenza tra amare Dio e amare il prossimo.
Ma sono altrettanto significative del brano del Vangelo le due letture che lo precedono nella liturgia di oggi, 3 novembre 2024, tratte rispettivamente dal Deuteronomio e dalla Lettera agli Ebrei.
La prima ci recita la parte iniziale dello Shémà Israel contenuto in uno dei discorsi di Mosè nel Deuteronomio, ovvero quella preghiera che ogni Ebreo osservante recita almeno due volte al giorno e che costituisce le ultime parole della giornata.
Amare Dio con tutte le forze fa emergere l’urgenza dell’amore e ascoltare la Sua Parola vuol dire essere coerenti nell’amore.
Come sappiamo, secondo le risultanze storico-critiche testuali, la Lettera di San Paolo Apostolo agli Ebrei non è una lettera, non è di Paolo e non fu diretta agli Ebrei. In realtà è un sermone, in quanto non ha le classiche caratteristiche epistolari, fu scritta in pseudo-epigrafia (che allora era di uso comune e accettato) dai discepoli di Paolo, e infine era diretta ai primi cristiani provenienti dall’ebraismo.
Aggiunge però al discorso sull’amore la gratuità sacerdotale unica e piena di Gesù.
L’ascolto è dunque il protagonista di oggi nell’insegnamento del Cristo. Quell’ascolto che è preghiera e fa parte di essa quando diviene matura. L’amore è ciò che vince tutto: Gesù ci ha dimostrato che sconfigge anche la morte. Se il male non ha un valore costitutivo di sé stesso in senso ontologico, perché come diceva Sant’Agostino, è assenza di bene, e non può costituirsi ontologicamente un qualcosa che è assenza di qualcos’altro, si deduce che il male si può sconfiggere solo col bene, anzi col Bene, che è solo Dio. Il Bene, nel senso assoluto non comprende guerre, battaglie o violenza, ma l’amore. Ecco perché amare Dio è vincere il Male, e dunque risulta il bene per noi e per il nostro prossimo.
Gesù ci invita a fare una graduatoria di ciò che è più importante
«Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?».
(Dalla liturgia)
«Come mai questo tempo non sapete valutarlo?». È questa la domanda (che suona come un rimprovero) che Gesù rivolge alle folle che lo stavano ad ascoltare. Come mai sapete valutare gli aspetti secondari della vita (come il tempo meteorologico) e invece non siete capaci di giudicare il tempo in cui vivete?
Con queste parole Gesù ci richiama un altro aspetto della vigilanza: valutare le cose che accadono per essere in grado di decidere ciò che è giusto e ciò che non lo è. In una parola il discernimento.
Non è la semplice osservazione delle cose, degli avvenimenti che accadono. È l’osservazione fatta con lo sguardo di chi riesce a vedere al di là delle apparenze immediate.
Per sapere vedere in questo modo non basta l’intelligenza: occorre anche la dirittura morale di chi si sforza di vivere come piace a Dio e di giudicare le cose secondo il modo di pensare di Dio. Quando consideriamo la realtà con parametri solamente umani non andiamo lontano. Lo sguardo dell’uomo è miope. Vede poco più in là del proprio naso. Lo sguardo di Dio è ampio e penetrante, e sa dare un giudizio vero su ciò che accade.
Vigilare significa anche chiedere a Dio il dono della sapienza, che è il dono che ci permette di valutare ciò che ci accade con gli occhi di Dio, l’unico che vede le cose, le persone e gli avvenimenti per quello che realmente sono e non per quello che appaiono.
Abbiamo visto come la preghiera costituisca un linguaggio particolare. Sulle prime potrebbe sembrare un nostro monologo durante il quale chiediamo a Dio ciò che ci serve, attendendoci il più presto possibile di essere esauditi.
Quasi sempre recitiamo formule precostituite, ed è comunque un bene. Ma le “preghierine” che recitavamo da bambini hanno solo il compito di introdurci in un dialogo d’amore col Padre, nel quale accade di ascoltarlo.
Ecco dunque quali sono le fasi per giungere a pregare in modo corretto e completo.
Parole Vuote
Le parole recitate come parte di una routine che si esegue anche solo per tacitare la coscienza, non costituiscono una preghiera completa e compita, ma sono solo una base di partenza.
Monologo
Le formule vengono recitate con attenzione: le parole si assaporano maggiormente. Non c’è però ancora una vera comunicazione: si parla senza ascoltare.
Dialogo
Qui si inizia veramente ad entrare nella preghiera. Il dialogo è prima di tutto con sé stessi. Le parole divengono pesanti e provocano un’attenzione al perdono di noi stessi e degli altri. Il centro della preghiera inizia ad essere il Signore. Carità e Misericordia aumentano. Ci troviamo però ancora nell’ambito della “mente”.
Ascolto
Non siamo ancora giunti alla vetta, ma la qualità è notevolmente cresciuta. Occorre abbassare l’orgoglio e il senso di superiorità ma anche quello di inferiorità. Deve emergere l’umiltà e il cercare in noi la Verità, perché Dio è Verità. Dio ci parla attraverso la mente ma si rivolge anche allo spirito: la Sacra Scrittura, con le sue parole, irrompe nella nostra vita. I pensieri divengono ordinati e cresce il desiderio di restare nella preghiera. Dio legge la nostra vita e ci indica quali sono i nostri veri desideri. Si rafforza la volontà di fare ciò che siamo chiamati a fare. Si avvertono emozioni, forse anche qualche rimorso che ci può far soffrire. È il momento in cui il Signore muove i nostri sentimenti e possiamo formulare propositi concreti. I nostri progetti così formulati ci danno pace e serenità perché sono condivisi col Signore. La memoria allora non ci fa più paura, perché Dio ci fa venire in mente le cose utili del passato e anche gli errori sono visti in chiave di costruzione per il futuro.
Amore
Siamo finalmente in vetta: si raggiunge lo scopo della preghiera. Ogni complicazione viene ridimensionata e si vive in una semplicità e in abbandono assoluti. La comprensione è immediata: non servono più grandi discorsi: ogni cenno è amore, comunione perfetta, complicità totale col Signore. Si vorrebbe restare sempre in questa estasi.
Il perdono è al centro della preghiera: senza perdono non c’è preghiera. Gesù ci esortò ad essere in pace con i fratelli, prima di accostarci a Lui.
Perdonare, però, non è un’azione che si deve rivolgere solo agli altri: gli psicologi confermano che prima di tutto occorre perdonare e saper perdonare sé stessi.
Perdonare, come sappiamo, non significa dimenticare, ma il ricordare non deve contenere astio o motivo di rivalsa. Spesso siamo complici di noi stessi e dunque “furbetti”: cadiamo nella trappola che noi stessi tendiamo alla nostra coscienza.
Ancora gli psicologi ci vengono in aiuto per individuare quattro pericoli fondamentali:
Negazione del male
Tendiamo a minimizzare ciò che abbiamo fatto di male, creando delle tesi che ci portano a convincerci che l’azione fatta non è stata cattiva.
Giustificazione
È simile alla precedente, ma in questo caso riconosciamo l’azione cattiva cercando di spiegarla in modo da essere in qualche modo scusati.
Proiezione del male su altri o altro
Anche qui rifiutiamo di riconoscere il peccato. Anzi, cerchiamo di trasferire la colpa di ciò che è successo su altre persone o su circostanze: non siamo cattivi, ma siamo stati costretti!
Reazione violenta
Si verifica quando non siamo pronti a opporre dei motivi immediati per assolverci, e allora scatta la rabbia. Avviene anche quando ci convinciamo così a fondo di essere nel giusto che non ci spieghiamo perché non ci diano ragione.
Tutte queste circostanze e questi démoni della mente vanno eliminati per pregare in modo corretto e sincero.
Nell’ambito della formazione per i confratelli di Santa Caterina V.M., di Mendatica, si è ribadita la necessità della preghiera.
Il Vicario foraneo, Don Enrico ha quindi rilevato che pregare non consiste in una semplice e pedissequa ripetizione distratta di formule imparate a memoria: semmai questo serve a “sintonizzarci“ sul giusto canale di comunicazione col Padre: si prega con amore e per amore. E per “vivere” l’amore occorre prima di tutto amare di un amore sano e perdonare sé stessi.
La preghiera, infatti, va concepita come una frequentazione di una persona amata, non come un rito o una pratica da svolgere, perché c’è il rischio di cadere nella superstizione: la preghiera non è un distributore automatico di Grazia.
Occorre poi ricordare che siamo figli, e come i tutti i figli, a volte chiediamo cose che crediamo buone, ma in realtà non lo sono.
Infine si deve prendere coscienza che la preghiera acuisce i sensi materiali (udito, vista, olfatto, tatto e gusto) e li eleva a essere anche sensi spirituali.
L’udito diviene ascolto, e l’ascolto deve far crescere il senso di dignità: ascoltare una persona amata ci rialza nelle cadute. In Greco risorgere significa guarire.
La vista insegna a guardare, contemplare e dunque a “vedere dentro” a cose o persone scorgendone le bellezze. Questo ci introduce alla bellezza di Dio e cogliere ciò che passerebbe inosservato.
L’olfatto ci fa distinguere ciò che è un odore piacevole da uno spiacevole. È quindi discernimento tra bene e male, e allenamento a farlo.
Il gusto ci dà il sapore delle cose, e dobbiamo trasferirlo sul “sapore” degli altri. L’etimologia di sapore fa riferimento alla sapienza e dunque al sale, il quale conferisce il sapore. La preghiera dà perciò la sapienza ovvero la conoscenza del bene.
Il tatto è coinvolto perché con la preghiera il “tocco” alle persone diviene diverso e assume accezioni psicologiche: ci trasforma in guaritori come lo furono gli Apostoli. La mano sulla spalla di una persona amata in difficoltà diviene la mano di Dio attraverso la nostra.
Nel corso della seconda giornata di formazione per i confratelli, Don Enrico si è concentrato sulla necessità della preghiera.
Purtroppo dimentichiamo spesso che la preghiera non è un optional ma una vera occorrenza indispensabile: una necessità vitale.
Noi nasciamo dall’acqua e dallo Spirito Santo, come ascoltiamo nel rituale del Battesimo. La preghiera è il respiro dello spirito, ritmato e costante. Ci accorgiamo del respiro (che pratichiamo in modo automatico) solo quando diventa affannoso e lo avvertiamo come insufficiente.
Come per il corpo, abbiamo bisogno per lo spirito di tre componenti: respiro, alimentazione e cura. Il respiro è la preghiera, l’alimentazione è l’Eucarestia e la cura è la remissione dei peccati nella Confessione. Nella Santa Messa questi componenti trovano un perfetto complemento. Respiro, alimentazione e cura sono infatti complementari: uno sostiene l’altro.
Se la preghiera è necessaria occorre scoprire COME pregare, un interrogativo che si sono posti anche gli Apostoli. Gesù rispose insegnando il Padre Nostro, che è il modello della preghiera.
Per prima cosa si deve benedire il Padre: Gesù lo benedisse sempre, anche prima delle moltiplicazioni («Sia santificato il tuo nome»). Poi si invoca la venuta del Regno di Dio e si chiede che avvenga tutto secondo la volontà di Dio, prendendo coscienza che ciò che chiediamo potrebbe anche non essere il nostro bene.
Dobbiamo successivamente chiedere a Dio di esaudire le nostre richieste («Dacci oggi il nostro pane quotidiamo»), ma per esserne degni chiediamo la remissione delle nostre colpe. A questo punto è necessaria un atto di giustizia: dobbiamo uniformarci alla giustizia che chiediamo, e dobbiamo essere consci che saremo giudicati col metro che usiamo con i fratelli (« … come noi li rimettiamo [i debiti] ai nostri debitori».
La conclusione è il riconoscerci incapaci di vincere da soli il peccato, domandando l’aiuto di Gesù nelle prove che ci potrebbero portare alla tentazione.
Dobbiamo avere fiducia nella preghiera: essa verrà sicuramente esaudita se è conforme al vero bene ed è forte e sincera. Non veniamo esauditi quando chiediamo una cosa che ci sembra giusta dal punto di vista terreno ma non rientra nella grande bontà di Dio. Ma c’è un altro caso in cui la preghiera non avrà effetto: quando è debole.
A volte facciamo tre errori:
Petimus mali: chiediamo DA CATTIVI, quando vogliamo il perdono ma non perdoniamo;
Petimus mala: chiediamo cose cattive, ovvero domandiamo di essere esaudite in circostanze che ci sembrano buone, ma in realtà non lo sono per Dio e per il vero bene;
Petimus male: chiediamo malamente, quando il nostro pregare è distratto, fatto di formule vuote, e cuore e mente non sono realmente coinvolte, ma emerge solo l’egoismo della richiesta (come bambini capricciosi).
La sessione di formazione svolta a Marina di Massa, e tenuta dal Vicario Foraneo del Vicariato della Valle Arroscia, Don Enrico Giovannini, ha avuto come tema la preghiera e come spunto il Salmo 132, che riportiamo qui in seguito.
«Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!
È come olio prezioso versato sul capo, che scende sulla barba, la barba di Aronne, che scende sull’orlo della veste.
È come la rugiada dell’Ermon, che scende sui monti di Sion.
Perché là il Signore manda la benedizione, la vita per sempre».
Perché è importante stare insieme?
Siamo stati creati da un Dio che è comunità trinitaria: la comunità è quindi l’essenza dell’uomo.
Nel salmo 132 è scritto che è bello e dolce che i fratelli vivano insieme: i figli del Dio vivente sono destinati alla vita (vivano insieme).
Per recuperava la rugiada nel deserto, gli Ebrei dovevano essere tutti insieme altrimenti il grande telone che la raccoglieva non riusciva a incanalarla nei recipienti e si sarebbe persa. L’Ermon era la sorgente del fiume Giordano, in cui avvenne il Battesimo di Gesù.
Lo stare insieme richiama il pregare insieme. La preghiera non è un surplus, ma un’esigenza costitutiva di cui neppure Gesù volle fare a meno seppure nel suo caso fosse una comunicazione intra-trinitaria.
Pregare ha una valenza anche pratica: anche la Scienza ne ha riconosciuto gli effetti benefici ai fini della salute e del benessere psichico.
Ma ci sono anche aspetti che vedremo e che sono più importanti, come l’aspetto liturgico o quello vocazionale per ognuno di noi.
Gesù disse agli apostoli di gettare le reti in un momento che appariva poco opportuno, ma in cui aveva visto un’esigenza di essere aiutati: «Ora gettate le reti!». Questa frase in quelle situazioni ricorda «Ora et Labora» e la sua attinenza liturgica. La preghiera infatti porta l’uomo incontro all’amore di Dio.
Nella pesca miracolosa una barca non è sufficiente e ne occorre un’altra per portare il pescato a terra, prefigurazione della necessità di armonia tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Ma come la preghiera può essere vocazionale? Perché cerca la volontà di Dio. Il pregare deve sempre tenere conto che può «smuovere le montagne» ma ci sono delle condizioni. Non non siamo in grado di capire o sapere se ciò che chiediamo è veramente qualcosa che faccia il nostro bene. Questo lo sa solo Dio. Abbiamo visto che anche una cosa che sembrava chiaramente malvagia, mal fatta, ingiusta e assurda, come la Croce, è stata trasformata da Dio in portatrice del sommo bene, che è la Salvezza e la vita eterna.
Nella preghiera va riconosciuta quindi l’alta valenza e la perfezione della volontà di Dio («Sia fatta la tua volontà, come in cielo e così in terra»).
In questo riconosciamo e cerchiamo ciò che la volontà di Dio ha pensato per noi, per le nostre vicende e per la nostra vita.
Il titolo dell’articolo è provocatorio ma fino a un certo punto, e nasce dal dato di fatto che il conflitto tra Gesù da una parte e la maggioranza degli Scribi e dei Farisei è sempre stato molto acuto.
Tra le cose che Gesù è venuto a compiere c’è anche la corretta indicazione nell’osservanza delle Leggi, le quali sono uno strumento di efficacia per l’applicazione della volontà di Dio.
Il Cristo chiama “ipocriti” (υποκριτικός, ypoktitikós)
coloro che applicano al dettaglio le Leggi senza avere il cuore circonciso e quindi in grado di accogliere un seme nel terreno fertile. Il termine, in clima ellenistico, la cui influenza era incisiva ai tempi di Gesù, indica l’attore, il teatrante. Il Signore non ha dunque detto esplicitamente ai Farisei che sarebbero “cattivi”, perché in realtà osservavano le Leggi, ma li ha definiti “teatranti”, ovvero coloro che portavano una maschera.
La discussione verte sulla sostanza delle cose e investe anche l’ambito biblico sia nella parte dell’Antico che del Nuovo Testamento, coinvolgendo dunque anche noi Cristiani.
Nel loro fervore fatto di apparenza, i Farisei avevano decretato che certi riti e determinate usanze consigliate per i Sacerdoti, divenissero obbligatorie anche per il popolo. Abluzioni ovunque, segni rituali a profusione e altri corollari minori divennero quasi maniacali fino a far crescere il numero degli obblighi fino a 613 questo è il numero delle mitzvot (taryag mitzvot = תרי”ג מצוות).
Si arrivò ad uno scontro quando i rabbini chiesero a Gesù perché gli Apostoli non eseguivano le abluzioni previste prima di mangiare. Il problema sfocia dunque in ciò che si deve intendere come “tradizione”.
Per chi si dice Cattolico la tradizione non è recitare la Santa Messa in Latino o pregare in un determinato modo prescritto nei secoli. La realtà è che Sacra Tradizione, il secondo pilastro della Dottrina Cattolica dopo la Bibbia e prima del Magistero, indica ciò che è stato riferito all’interno della Rivelazione, tenendo conto che essa si è chiusa con la morte di Giovanni apostolo.
Il Magistero DEVE cambiare alcune cose che sono fra le sue competenze, per aiutare la custodia e la diffusione del messaggio, ma non DEVE toccare ciò che è stato sancito dalla Rivelazione.
Sono sterili le polemiche o gli scrupoli sulle decisioni del Magistero, perché opponendosi ad esso, che è il custode della Sacra Traditio, significa tradire la Rivelazione. Anche se avessimo opinioni contrarie, sarebbe un atto di superbia pensare che il Magistero non abbia pensato all’attinenza delle sue decisioni alla tradizione apostolica.
Smettiamola dunque di chiamare “tradizionalista” (ad eswempio) chi vuole la Santa Messa in Latino (che fra l’altro NON è proibita se non negli ambienti in cui si tende a strumentalizzarla).
Semmai il vero tradizionalista, a giusta dimensione, è proprio il Magistero, rigido custode della Rivelazione, che corregge gli errori umani introdotti attraverso i secoli e aiuta a comprendere meglio il significato profondo della Parola di Dio.
Siamo portati in modo naturale a semplificare e banalizzare alcune cose per renderle più vicine alla nostra comprensione: dobbiamo invece fare lo sforzo di accettare che non tutto ciò che non comprendiamo debba per forza essere sbagliato. Sostenere che «si è sempre fatto così …» indichi perennemente una cosa giusta, è dunque un’ipocrisia perché dimostra la poca volontà di approfondire i contenuti.
L’appellativo «Figlio dell’uomo» viene assunto da Gesù, e lo troviamo solo nei Vangeli, anche se in quello di Giovanni si colora di sfumature diverse.
Ma cosa significa «Figlio dell’uomo»? Si tratta di un modo di esprimere la natura umana del Cristo? Anche! Ma la risposta non è così semplicistica.
In diverse apocalissi ebraiche, anche nel Libro di Daniele, e nella letteratura enochiana, si riferisce a un personaggio ancora misterioso che sarà inviato da Dio nell’ultimo giorno con una funzione di giudice.
I Vangeli ci indicano però che Gesù svolga questa funzione già in questo mondo (Mc 2,10).
La funzione del giudice eterno risulta dunque in una prospettiva di sofferenza superata.
L’indicazione data da Gesù è comunque chiara in riferimento a sé stesso: risulta infatti una perifrasi che sostituisce il pronome “IO” (Mt 5,11: «… per causa mia …», Lc 6,22: «… a causa del Figlio dell’uomo».
Vediamo ora di mettere a confronto l’interpretazione ebraica e quella cattolica:
Secondo l’esegesi ebraico messianica, si riprende Isaia (Is 53,10) da cui si dedurrebbe che «Figlio dell’uomo» è uno dei nomi col quale il Messia stesso si chiama, per far comprendere a tutti la sua incarnazione in un corpo umano ed espiare così i peccati dell’uomo. In questo caso l’appellativo viene inteso come “stirpe dell’uomo” (Adam), per definire il genere umano: con la resurrezione dai morti si vince definitivamente la morte (Sal 16,8-10).
Per noi cattolici il titolo in questione ci chiama ad andare un po’ più in profondità. Nel definirsi «Figlio dell’uomo», Gesù si pone come giudice aggiungendo al parametro distributivo e compensativo, anche il dono gratuito della propria vita. Solo questo può rendere possibile la vita eterna in paradiso. Dio ha scelto di riparare i danni del peccato originale, offesa a Dio, una compensazione gratuita del sacrificio di un uomo che è anche Dio. Il Cristo, come Dio non può soffrire né morire, ma come uomo si!
È la sublimazione della kenosis (discesa), in cui Dio si spoglia. Ma siccome ogni kenosis di Gesù precede un’elevazione, abbiamo l’ascesa al Cielo del Cristo risorto.