Essere lontani da Dio è tristezza

Essere lontani da Dio è tristezza

Il brano sul giovane ricco non si fonda sui beni materiali, ma sulla vera gioia

«Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».
(Dalla liturgia).

Molti di noi pensano che il centro di questa pagina evangelica sia: «vendi quello che possiedi, dallo ai poveri». Invece, probabilmente, al centro di questo brano sta la parola «triste».

Gesù non chiede a tutti di disfarsi dei propri beni per seguirlo. Lo chiede a qualcuno, per esempio ai religiosi, ma alla maggior parte dei cristiani non lo chiede.

Per piacere al Signore non è obbligatorio disfarsi dei propri beni e vivere una vita di speciale consacrazione. Al giovane ricco il Signore però lo ha chiesto come condizione per seguirlo. E il giovane ricco ha rifiutato. Ma questo lo ha reso triste.

Perché se ne è andato triste? Era giovane, era ricco: due ottimi motivi per non essere triste! Era anche una brava persona; osservava i comandamenti. E allora? Eppure se ne va via triste.

Quando si perde il Signore si perde la gioia. Questo brano ci mette in guardia dalla tentazione di credere che la ricchezza, le cose di questo mondo, ci possano rendere felici, o almeno soddisfatti. Noi ci illudiamo che i beni materiali possano riempire il nostro cuore. Per questo a un ricco è particolarmente difficile entrare nel regno di Dio: perché crede di avere già quello che gli serve per poter vivere bene, di bastare a se stesso, di non aver bisogno di Dio.

Ma è solo un’illusione: il nostro cuore, come dice Sant’Agostino, è inquieto finché non riposa in Dio, e niente meno di Dio può dargli pace e gioia.

Pietro cammina sulle acque per fede e affonda per paura

Pietro cammina sulle acque per fede e affonda per paura

I limiti che poniamo a noi stessi

Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
(Dalla liturgia).

Pietro, scendendo dalla barca e mettendosi a camminare sul mare, passa dall’entusiasmo spavaldo alla paura insensata. Il suo desiderio di essere vicino al Signore lo porta a fare un atto superiore non solo alle proprie forze, ma anche alla propria fede.

E il Signore lo lascia fare, non pone limiti alle sue aspirazioni. Lo aiuta a rendersi conto della sua debolezza e di basarsi con umiltà non sulle proprie capacità ma sull’aiuto del Signore.

Ci riconosciamo un po’ tutti in Pietro. La nostra vita e la nostra fede conoscono l’alternarsi della sicurezza e dell’inquietudine e della paura, specialmente quando le cose non vanno bene, specialmente quando ci troviamo, come i discepoli, in mezzo a qualche tempesta. Ma non dobbiamo temere: la mano del Signore c’è anche per noi. Non dubitiamo del suo aiuto e della sua attenzione per noi.

Egli non ci abbandona mai, anche quando tutto sembra perduto. Ricordiamoci delle parole che Gesù ha rivolto a Pietro: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Non ci spaventiamo se la nostra fede è fragile e inconsistente. Il Signore è pronto, se lo vogliamo, a tendere la sua mano perché possiamo rialzarci.

Gesù spiega la parabola del seminatore

Gesù spiega la parabola del seminatore

Il bene e il male sono nel mondo, ma anche in noi

«Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli» (Dalla liturgia).

La spiegazione della parabola della zizzania è chiarissima: non servono commenti per interpretarla.

È necessario ed urgente invece prendere sul serio questa parola di Gesù: nella realtà di questo mondo, così come lo conosciamo, il bene e il male coesistono. E, se vogliamo essere sinceri, nel cuore di ciascuno di noi trovano posto sia il bene che il male.

Nel mondo di là non sarà così: male e bene saranno divisi per sempre, in Paradiso non c’è posto per il dolore, la tristezza, la cattiveria, nell’Inferno non si trova alcuna forma di bene, ma solo rabbia, malvagità, disperazione.

La scelta spetta solo a noi.

Anna e Gioacchino, i Santi del quotidiano

Anna e Gioacchino, i Santi del quotidiano

I nonni di Gesù danno all’Incarnazione il connotato storico e pratico: Cristo è uomo

«Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
(Dalla liturgia).

I nomi dei genitori di Maria non sono ricordati nei vangeli canonici, in quelli che la Chiesa ci insegna essere stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ma da un vangelo apocrifo.

Diversamente dai quattro vangeli canonici, i vangeli apocrifi sono opere scritte più tardi, più lontane quindi dagli avvenimenti della vita di Gesù, e spesso raccontano vicende storicamente non attendibili, e comunque di essi la Chiesa non ci garantisce l’attendibilità. La tradizione dei nomi dei genitori di Maria è comunque molto antica, risale ad un’opera di circa diciannove secoli fa.

In ogni caso, più che sulla certezza sul nome dei genitori della Vergine Maria e sui racconti legati ai loro nomi, possiamo chiederci perché la Chiesa ci fa celebrare la festa dei genitori di Maria, e quindi dei nonni di Gesù.

Celebrare la festa dei nonni di Gesù significa inserire la storia di Gesù, l’incarnazione di Dio, nella storia concreta di una famiglia umana, di una genealogia. L’incarnazione di Dio che si fa uomo passa attraverso la storia degli uomini.

L’incarnazione non è un qualcosa di astratto, ma si è realizzata sul serio, per mezzo di persone che, come noi, hanno un nome e un cognome. È una storia di uomini, ma è anche una storia di Dio.

Attraverso le normali vicende di un’ordinaria famiglia arriva il dono di Dio che supera ogni pensiero e ogni aspettativa. Maria è stata concepita dai suoi genitori come è stato concepito ogni essere umano, ma Dio, sin da quell’istante, la ha preservata da ogni macchia di peccato, in previsione dei futuri meriti di Cristo.

I genitori di Maria, si chiamassero Anna o Gioachino o meno, sono considerati santi tanto dalla Chiesa d’Occidente che da quella d’Oriente. Essi vissero santamente la loro normale esistenza, ma sicuramente non pensavano di concepire una figlia preservata dal peccato originale, e di diventare poi i nonni di Gesù, vero uomo e vero Dio. Hanno vissuto nella santità quotidiana la loro esistenza, non cercando cose eccezionali, ma cercando di fare la volontà di Dio nelle vicende di ogni giorno.

Cosa ci insegna questa vicenda? Cerchiamo di vivere nelle nostre giornate in grazia di Dio, evitando il peccato e cercando di fare la sua volontà. Il resto lo fa Lui, e spesso sono cose tanto belle e tanto grandi che neppure riusciamo ad immaginarle, perché l’agire e il pensare di Dio è molto più grande di ciò che possiamo aspettarci ed immaginare.

Fede e conoscenza: il Timor di Dio

Fede e conoscenza: il Timor di Dio

Dobbiamo impegnarci a conoscere le verità di fede, ma riconoscere i nostri limiti umani

«Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”».
(Dalla liturgia)

Questo Vangelo sembra dirci che meno ne sappiamo, delle cose di Dio, e meglio è. Qualcuno potrebbe intendere che Gesù dica: «restate ignoranti che capirete meglio! ». È paradossale.

Pensandoci bene il sistema di chi vuole dominare sugli altri è quello di lasciare ignorante il popolo. Santi e beati nella Chiesa ci hanno sempre detto il contrario: è un male che i Cristiani non conoscano le cose più importanti della fede.

Come è dunque possibile pensare che il Signore Gesù ci chieda di rimanere ignoranti, in materia di fede? Il Signore non ci chiede di rimanere ignoranti, l’ignoranza è sempre un male. Ci chiede di essere piccoli, cioè di riconoscere in Qualcuno di più grande Colui che ci guida, che ci insegna la verità, che ci da una legge morale che ci serve a vivere bene con Dio, e vivendo bene con Dio ci aiuta a vivere bene con noi stessi, con gli altri e con il mondo.

L’errore non è certo quello di impegnarsi a cercare la verità nelle cose di Dio, l’errore è quello di voler fare tutto da soli, di voler fare a meno della Rivelazione di Cristo, della sacra scrittura, della tradizione della Chiesa, del magistero autentico della Chiesa che le interpreta e le rende applicabili alle situazioni sempre nuove che la vita propone. L’errore è quello di voler fare a meno di Dio nella ricerca della verità, nel voler fare a meno di Dio nella propria vita. È il desiderio di autosufficienza da Dio, quel desiderio che ha portato Lucifero alla ribellione e i progenitori a dare ascolto al sibilo del serpente anziché alla voce di Dio.

Il Signore le sue cose le rivela ai semplici, cioè a coloro che accettano di lasciarsi guidare da Dio attraverso la Chiesa. Invece le nasconde a quelli che si credono sapienti, che pensano di conoscere già tutto. Quando Dio nasconde la sua verità la vita diventa confusa, arida, priva di significato. Magari agli occhi del mondo è una vita di successo, ma lascia a lungo andare il cuore vuoto e un senso generale di insoddisfazione.

Lasciamoci guidare da Dio, attraverso la sacra scrittura e il magistero autentico della Chiesa, che la interpreta in modo corretto. Allora la nostra vita, anche in mezzo alle difficoltà di ogni giorno, sarà luminosa, perché la luce della verità di Dio ci mostra il senso della nostra esistenza e ci scalda il cuore anche nei momenti più difficili.

Avere il cuore duro è non mettere in pratica il messaggio di Gesù

Avere il cuore duro è non mettere in pratica il messaggio di Gesù

Un atteggiamento che spesso attribuiamo agli altri, ma che è responsabilità per i cristiani

«Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore» (Cf. Sal 94 (95), 8ab) (Dalla liturgia)

La parola di Dio è per tutti, sempre. Ma ci sono alcuni passi della Bibbia che toccano alcune persone in modo particolare. Il brano di oggi sembra proprio riguardare chi è più vicino alla vita di fede, ai sacramenti, alle pratiche di pietà.

Molto spesso noi, che giustamente pratichiamo e ci diciamo cristiani, pensiamo e viviamo come chi cristiano non è, come se la preghiera, la pratica cristiana, la lettura e la meditazione di testi religiosi non avessero alcuna influenza sulla nostra vita concreta, sul modo di gestire i nostri affetti, il nostro lavoro, i nostri affari, il modo in cui trascorriamo il tempo libero.

Gesù ci ammonisce: nel giorno del giudizio saremo trattati peggio degli altri.

La pratica cristiana è cosa buona, necessaria e doverosa, ma non deve essere un qualcosa di bello, che ci riempie il cuore in qualche momento, ma che rimane staccato dalle cose normali della vita.

La fede, i sacramenti, la preghiera devono influire sul nostro normale modo di vivere e di pensare, aiutandoci a pensare e a vivere come piace a Dio. Altrimenti è cosa del tutto inutile.

L’odio e il male, perché?

L'odio e il male, perché?

Il male ha mille sfaccettature, ma il denominatore comune è il comportamento dell’uomo

«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe».
(Dalla liturgia)

Questo brano di vangelo sembra tratto dalle cronache dei nostri giorni. Anche oggi – nel silenzio complice dei giornali e delle televisioni – centinaia, migliaia di cristiani vengono perseguitati e anche uccisi per la fede. «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome».

Com’è possibile che il Dio dell’amore susciti odio nelle persone? È possibile, perché molti uomini non si lasciano illuminare dal tranquillo splendore della verità di Cristo, è possibile perché molti uomini non accettano di lasciarsi amare da Dio.

La testimonianza del Vangelo suscita spesso l’odio anche nelle persone più care perché il modo di pensare e di vivere secondo Cristo non è il modo di pensare e di vivere secondo il mondo, tanto che un cristiano dovrebbe farsi qualche domanda se il suo modo di pensare e di agire – specie sui grandi temi della difesa della vita, dell’educazione, della sessualità – è simile al modo di pensare e di agire di chi cristiano non è.

E se è una persona in vista dovrebbe insospettirsi quando chi non è cristiano parla troppo bene di lui. Forse è perché piace più al mondo che a Dio.

Rabbì, insegnaci a pregare

Rabbì, insegnaci a pregare

Vedendo pregare Gesù, gli apostoli si accorgono che c’è un modo particolare di parlare con Dio

«Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Dalla liturgia).

Il Vangelo di oggi ci parla della preghiera. Può sembrare un aspetto non tanto rilevante della nostra vita: ci sono molte altre cose che ci sembrano più importanti! In realtà Gesù non la pensa così. Per lui la preghiera è un aspetto fondamentale della sua vita, senza preghiera la sua vita non potrebbe essere come è.

I discepoli, vedendolo pregare, vedendo il suo rapporto di intimità vitale con il Padre, gli chiedono di insegnarlo anche a loro: pregare è contagioso, è un’attività benefica che fa del bene non solo a noi, ma anche a chi ci circonda.

Gesù non insegna ai suoi discepoli (e a noi) una nuova formula da aggiungere ad altre formule di preghiera. Piuttosto ci insegna uno stile, una modalità, che va bene per ogni tipo di preghiera. Infatti Gesù esordisce dicendo. «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole».

Cosa fanno i pagani di così negativo? I pagani hanno paura delle divinità, per cui si inventano delle formule per tenersele buone. Si prega dio (o gli dei che siano) per propiziarselo, un po’ come si farebbe con una persona potente e temuta, con la quale è bene mantenere buoni rapporti. Ma è un rapporto solo esteriore, di convenienza. È come se si dicesse alla divinità: «adesso ti faccio un sacrificio, una preghiera, di do qualcosa, non farmi succedere qualcosa di negativo e lasciami vivere in pace, che la mia vita me la gestisco io».

Ma le religioni pagane sono solo invenzioni di uomini. I loro dei non esistono, sono creazioni della fantasia. Solo Gesù ci mostra la verità sull’unico Dio vivo e vero. E ci dice chi è Dio: anzitutto è Padre. Ci vuole bene, e vuole essere presente nella nostra vita. Vuole che noi lo amiamo, lo onoriamo e ci fidiamo di Lui. Per questo la preghiera all’unico vero Dio deve essere anzitutto una preghiera di lode e di affidamento. Anche di richiesta, certo, ma è la richiesta fatta da un figlio a un papà, non da un suddito a un sovrano potente e capriccioso.

La preghiera del Padre Nostro è una preghiera di amore e di fiducia. Sono questi i sentimenti che Gesù ci insegna a coltivare nei nostri rapporti con Dio.

Il miracolo è sempre funzionale a qualcosa di più importante

Il miracolo è sempre funzionale a qualcosa di più importante

Le sue vie non sono le nostre vie: il corpo come mezzo di per giungere alla vita eterna

«Non avete letto questa Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?». (Dalla liturgia).

Se chiedessimo ad un certo numero di persone quale è il beneficio maggiore ricevuto dal paralitico del brano di vangelo che abbiamo appena ascoltato, possiamo essere sicuri che la quasi totalità direbbe che è stata la guarigione fisica. Dalla lettura del brano però Gesù sembra non pensarla così.

La prima cosa che fa, quando vede il paralitico, è dire: «ti sono rimessi i tuoi peccati». Gesù ha operato la guarigione fisica solo dopo, e specifica che è stata operata per dimostrare che Egli ha il potere di rimettere i peccati.

Non è la guarigione fisica il primo pensiero di Gesù. Egli ritiene la liberazione del peccato la cosa più importante. La paralisi del corpo impedisce il normale svolgersi della vita, interrompe o indebolisce i rapporti tra gli arti e il cervello, ma il peccato è qualcosa di peggio, che paralizza la vita dello spirito, che interrompe, o indebolisce, il rapporto con Dio. La paralisi del corpo esclude da una completa fruizione della vita di questo mondo, il peccato, come ci dice la prima lettura, può escluderci dalla vita eterna.

Oggi generalmente non si pensa che il peccato faccia male. Quando si dice che oggi si è perso il senso del peccato, si intende dire che abitualmente non pensiamo che non osservare gli insegnamenti che Dio ci ha dato sia qualcosa di negativo. Siamo abituati a pensare che il peccato non abbia conseguenze: «ognuno è libero di fare quello che vuole», si pensa generalmente. L’unico limite alla mia libertà è il rispetto della libertà altrui, ma una volta che non ledo i diritti degli altri, posso fare quello che voglio.

Non è così: il peccato fa male, e può uccidere. Non il corpo ma l’anima. Il peccato lieve (veniale) indebolisce la grazia di Dio in noi, il peccato grave (mortale) la uccide addirittura. E noi lo dobbiamo temere più di ogni altra cosa, perché non dobbiamo temere coloro che uccidono il corpo, ma colui che può far perire il corpo e l’anima (Mt 10,28).

Il Signore opera raramente una guarigione fisica, succede ma è raro. Egli invece ci guarisce dal peccato ogni volta che, pentiti e disposti a cambiare, glielo chiediamo. Anzi, ha istituito un rimedio semplice, facilmente fruibile per guarirci da quella malattia dell’anima che è il peccato: il sacramento della confessione. E per questo è opportuno farne uso, farne un uso serio e frequente.

Oggi in pochi si confessano, ancora meno sono coloro che si confessano bene. È una conseguenza della perdita del senso del peccato. Non crediamo di avere nulla da rimproverarci davanti a Dio. Ma questo non ci rende più liberi, più sereni. Anzi.

In modo direttamente proporzionale alla perdita del senso del peccato aumenta il senso di colpa. Senso del peccato e senso di colpa sono due cose diverse: il primo è la consapevolezza di avere mancato alla legge di Dio (ho bestemmiato, ho perso Messa alla domenica, ho mancato contro la purezza…), l’altro è il senso di insoddisfazione generico e inconcludente che nasce da un senso di inadeguatezza (non sono una buona madre, sono una cattiva persona…).

Il senso del peccato è positivo, ci aiuta a chiedere perdono, a migliorarci, a guarire. Il senso di colpa è negativo: ci rende ansiosi e insicuri. Quando in una persona viene meno il senso del peccato, ecco che generalmente aumenta il senso di colpa.

Perdere il senso del peccato non solo mette in pericolo la vita eterna, facendoci vivere abitualmente in peccato mortale, ma rovina la nostra esistenza terrena, rendendoci schiavi di inutili e distruttivi sensi di colpa.

L’incontro delle due madri

L'incontro delle due madri

Il suggello al compimento dell’Antico Testamento in Cristo

«Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo».
(Dalla liturgia)

La Visitazione di Maria Vergine a sant’Elisabetta è molto di più di un gesto di buona creanza, di un gesto che porta un aiuto materiale. Questa visita simboleggia con grande semplicità l’incontro tra il Vecchio e il Nuovo Testamento.

Le due donne, entrambe incinte, rappresentano infatti l’attesa e l’Atteso. L’anziana Elisabetta simboleggia Israele che attende il Messia, mentre la giovane Maria porta in sé l’adempimento di tale attesa, a vantaggio di tutta l’umanità.

Nelle due donne si incontrano innanzitutto i frutti del loro grembi: Giovanni e il Cristo. L’esultanza di Giovanni nel grembo di Elisabetta è il segno del compimento dell’attesa: Giovanni esprime la sua gioia perché Dio è davvero venuto a visitare il suo popolo, non l’ha abbandonato alla schiavitù della morte. Nell’Annunciazione alla Vergine Maria l’angelo Gabriele aveva annunciato a Maria la gravidanza di Elisabetta, sterile e anziana, come segno dell’onnipotenza di Dio. La sterilità e l’età avanzata si erano trasformate in fertilità.

Elisabetta, accogliendo Maria, riconosce che si sta realizzando la promessa fatta da Dio all’umanità, ed esclama: «Benedetta sei tu tra le donne e benedetto è il frutto del tuo grembo». Benedetta tu tra le donne è un’espressione che ci riporta a Giaele e a Giuditta, due donne dell’Antico Testamento, due donne guerriere che avevano combattuto per liberare il loro popolo dalla schiavitù. Adesso questa espressione è rivolta a Maria: Maria è una donna pacifica, ma anch’ella sta liberando il suo popolo e l’intera umanità da una schiavitù ancora più pesante: quella del peccato e della morte.

Giovanni Battista esulta nel seno della anziana madre. I Padri della Chiesa hanno visto in questo sussultare di Giovanni nel grembo di Elisabetta un riferimento alla danza che il Re Davide aveva fatto davanti all’Arca dell’Alleanza quando questa stava per entrare a Gerusalemme. L’arca dell’alleanza era un contenitore, una grossa scatola, in cui erano contenuti gli oggetti che ricordavano l’attenzione di Dio per il suo popolo: le Tavole della Legge, un po’ della manna raccolta nel deserto, e il bastone di Aronne.

Giovanni danza davanti a Maria, che è la vera, definitiva Arca dell’Alleanza: nel suo grembo non sono contenute cose che ricordano l’amore di Dio, ma è contenuto il Figlio di Dio.

La festa della Visitazione ci ricorda anzitutto questo: che il Signore viene a visitarci perché si prende cura di noi. E si prende cura di noi perché ci ama. La venuta di Cristo realizza non solo l’attesa dell’antico popolo di Israele, ma realizza anche l’attesa che ciascuno di noi ha nel suo cuore, il desiderio di una vita piena, gioiosa. Il desiderio che la nostra umanità sia pienamente realizzata. Il desiderio di una vita che vada oltre la morte. Tutto questo è venuto a realizzare Gesù nella sua venuta tra noi.

La festa di oggi ci riempie di speranza, proprio perché ci fa capire che il Signore non ci abbandona al male, e che la nostra vita non è un susseguirsi di eventi casuali, ma è lo svilupparsi di un progetto di amore. Maria è colei che è stata scelta per realizzare tutto questo.

Affidiamo a Maria i bisogni e le necessità della nostra vita: come si è presa cura dei bisogni della cugina Elisabetta così saprà prendersi cura delle necessità della nostra anima.