Bibbia dei LXX: la traduzione in greco scritta per un faraone

Secondo la Lettera di Aristea, questa versione fu prodotta da 72 rabbini

La Bibbia detta «Septuaginta», o come più spesso viene ricordata, la Bibbia dei 70, è una versione tradotta in greco dell’Antico Testamento dall’ebraico.

Si tratta di una versione importante, e ancora oggi è liturgica per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca.

Il riferimento storico, oggi oggetto di valutazione, è un documento, la «Lettera di Aristea», citato dallo storico Giuseppe Flavio, inviata da Aristea, sedicente praticante la religione olimpica, a suo fratello Filocrate.

Aristea si dichiara anche appartenente alla corte di Tolomeo II Filadelfo, della dinastia dei Tolomei di chiara origine ellenica e dunque ellenista, che fu faraone d’Egitto dal 281 al 246 a.C.

La lettera riporta che Tolomeo II, visto il crescere della popolazione ebraica nel suo regno, fu consigliato di indagare e prendere conoscenza della religione praticata dagli ebrei.

La Bibbia dei LXX non è l’unica versione in greco che viene tenuta in considerazione dagli studiosi, ma ad essa si aggiungono le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione, che sono fra l’altro citate da Origene nel suo Exapla. La Bibbia dei Settanta è però molto spesso indicata come OG, ovvero Old Greek, riconoscendone l’antichità.

Secondo la Lettera di Aristea, dunque, Tolomeo II chiamò i rabbini più autorevoli di Gerusalemme affinché producessero una traduzione in Greco. Da Gerusalemme partirono verso Alessandria 72 rabbini, 6 per ognuna delle 12 tribù di Israele.

In Egitto i 72 rabbini provvidero a tradurre una versione a testa in lingua greca, che miracolosamente non differivano l’una dall’altra neppure di una virgola.

Storicamente si ritiene che il lavoro di traduzione durò dal 250 a.C circa fino addirittura al I secolo dopo Cristo.

Nella Bibbia dei LXX troviamo delle interpretazioni che si staccano dalla semplice traduzione letterale di alcune parti del testo ebraico. I rabbini di Gerusalemme volevano probabilmente rendere esplicite le riflessioni teologiche che avrebbero potuto essere ostiche alla comprensione egiziana e greca. Di fatto quindi, l’esigenza di una ricerca al testo originale fu presto avvertita.

Nei secoli successivi si è arrivati a formulare due teorie circa la composizione della Bibbia dei Settanta, che hanno preso in considerazione esclusivamente le risultanze storiche certe, tanto più che la Lettera di Aristea è stata col tempo considerata epigrafica: si parla infatti di pseudo-Aristea.

L’indagine sul documento attribuito a Aristea ha subito una svolta importante con la ricerca effettuata da Luis Vives (filosofo e umanista spagnolo nato nel 1493 e deceduto nel 1540), e da Humprey Hody (teologo, 1659-1707), i quali dimostrarono che La Lettera di Aristea fu scritta da un ebreo alessandrino tra il 170 e il 130 a.C. e dunque da 80 a 120 anni dopo il regno di Tolomeo II.

Le teorie di formazione della traduzione della Septuaginta, sono due e diametralmente opposte.

La prima, formulata da Paul Kahle, sostiene che si formò nelle Sinagoghe come il Talmud, mettendo insieme diverse tradizioni distinte in un unica traduzione.

La seconda, sostenuta da Paul de Lagarde e Alfred Rahlfs, considera invece un’origine unitaria: la versione sarebbe dunque una compilazione originaria. Questa teoria trova conferma nei ritrovamenti di Qumran che testimonierebbero a favore della presenza consolidata della traduzione già in tempi antichi.

Successivamente vi furono però vari tentativi di riportare la traduzione al testo originale in senso letterale, come dimostrerebbe un rotolo dei 12 profeti minori ritrovato negli anni ’50 a Nachal Hever.

La Bibbia dei LXX, al di là di ogni considerazione, è uno strumento importante per l’approfondimento della teologia biblica, nonché dello studio delle varie forme di approccio e della storia dei libri biblici.

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