Inno al Logos, un canto cristologico

Nel prologo al suo Vangelo Giovanni innalza un inno sublime alla Trinità

Il Vangelo di Giovanni si differenzia dai tre sinottici, per diversi motivi. In primis l’aspetto cronologico è subordinato alla sostanza del messaggio, ma anche perché si tratta del frutto di un approfondimento durato forse 70 anni.

Giovanni, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo, era uno dei due “figli del tuono”. È detto anche “Epistekios” (ovvero colui che appoggiò il capo sul cuore di Gesù durante l’ultima cena, nel tragico momento dell’annuncio del traditore.

Ma quello che immediatamente colpisce del Quarto Vangelo, è che inizia con un inno, quindi con una un incedere poetico di altissima qualità e da un contenuto sostanziale enorme. Un inno al Cristo che contiene elementi trinitari.

Il grande teologo R. Brown scrisse che l’Inno al Logos di Giovanni si colloca al di là delle capacità espressive umane. Bultmann notò che è come un’ouverture, la quale contiene tutti i temi dell’opera.

La sua grandezza è evidente anche nelle traduzioni moderne, ma si esprime in tutto il suo splendore nell’originale greco.

Nei primi 3 versetti riporta per tre volte il verbo “essere” (en), in tre diverse accezioni, ovvero:

In principio ERA il Verbo, col significato che il Logos esisteva all’inizio di tutto. In greco il principio è l’arché, ovvero il Bereshit posto all’inizio della Genesi. Quell’arché che la filosofia pre-socratica cercava disperatamente.

e il Verbo ERA presso Dio. Qui il verbo essere assume il senso dello “stare con”.

E il verbo ERA Dio. Al termine di questo moto letterario ascendente, c’è l’utilizzo di “essere” come copula. Il Logos è Dio, testimonianza dell’unità delle tre persone in un unico Dio.

Riconosciamo in questi brevi versi i concetti fondamentali della Cristologia. Il Figlio esisteva nell’eternità già al momento della creazione. Il Figlio è con Dio, perché in realtà il Figlio è Dio, una cosa sola con il Padre (Chi vede me vede il Padre).

Già queste poche righe contengono un intero trattato.

Ci fanno capire il significato delle parole del Credo, nel quale riconosciamo che tutto è stato fatto attraverso il Figlio. Un Figlio generato nella carne e generato nel contesto di eternità in processione dal Padre, e dunque NON creato.

Ma Giovanni insiste, secondo i canoni espressivi ebraici, in quella che a noi occidentali potrebbe apparire una ripetizione, ma che in realtà è l’arricchimento inserito in una forma a “spirale”, nella quale si ritorna nel discorso per focalizzarlo: “senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste“.

Dopo questa fase in crescendo, segue una forma discendente, che specifica la venuta dall’alto della Vita e della Luce. La vita è ciò che ci consente di riconoscere la luce, che a sua volta è quella che vince le tenebre, e consente una corretta visione. Per questo Giovanni si aggancia alla Verità, perché la luce è quanto ci serve per scorgerla. La Verità è poi intimamente legata alla Grazia, in una simbiosi che ci viene chiaramente espressa in vari punti del Vangelo.

“In Lui era la vita ; e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”.

A questo punto l’inno in forma poetica si interrompe per lasciare spazio alla prosa, con il riferimento alla venuta del Battista, il quale non è lui la Luce Vera, ma è colui che doveva dare la testimonianza.

Dobbiamo ricordare che gli ebrei attendevano il Messia, il quale secondo le scritture avrebbe dovuto essere annunciato dalla venuta di un grande profeta, come Elia. Il Battista è ritenuto il nuovo Elia.

E la testimonianza del Battista arriva, e viene riconfermata nel Prologo stesso in una forma ancora una volta “a spirale”.

Ma c’è di più. Giovanni accenna anche a quelli che “sono di Cristo”, che non per mezzo della discendenza israelitica, ma nel riconoscere la Luce. Non solo il Popolo Eletto ha la Salvezza. Nel passo che indica questi concetti scorgiamo anche la trasformazione del Sacerdozio, che per gli ebrei è riservato ai discendenti della tribù di Levi. Compiendo il passo scritturale di un sacerdozio alla maniera di Melkisedec”, Gesù lo trasformerà in chiamata, con gli Apostoli: “… non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

In questo sacerdozio sono compresi tutti coloro che sono di Cristo, nell’accezione di sacerdozio battesimale.

Ed è quindi nella “pienezza dei tempi” che il Verbo si incarna e fa sì che noi possiamo contemplare la sua gloria piena di Grazia e Verità: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria […] pieno di grazia e verità”.

Nella seconda testimonianza, poi, Giovanni Battista si rivela: non è lui la Luce, ma: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore“.

Il deserto (מִדבָּר in ebraico, “midbar”, è quello del cammino, lo stesso deserto in cui vagò 40 anni Israele verso la Terra Promessa, e in cui il popolo di Dio attraverso molte peripezie, tradì e si riconvertì.

La terza persona della Trinità è presente, ed è sempre stata presente nell’eternità, e la riconosciamo nel Battesimo dell’acqua, e nel Battesimo in “Spirito Santo e fuoco.

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